14 dicembre 2012

Cose frivole

"Vorrei che non fossimo obbligati a sprecare in cose frivole, quali le letture e la letteratura, il tempo che potremmo dare a un lavoro solido, serio e costruttivo, come il ritagliare figure di cartone, e impiastricciarci di vivaci colori."
Gilbert Keith Chesterton


4 dicembre 2012

Caramelle

1. Lei è bellissima. Lui è un mostro. Lei lo schiaffeggia in mezzo alla folla e scoppia a piangere: "Le hai rubate quelle bellissime cose che dici di avere scritto. Non puoi essere tu."
2. Lei è un mostro. Lui è bellissimo. Ma lui non se ne accorge: la vede attraverso i ciottoli che impediscono ai fogli di fuggire, le sue risate, il suo avambraccio sinistro. E cominciano a passeggiare. 
3. Lei è un mostro. Lui pure. Nessuno dei due se ne accorge. Se ne accorge la folla che li guarda e dice: 'Ma guarda quei due mostri, come sono poetici insieme…'

4. Lei è bellissima. Lui pure. Che succede?


3 dicembre 2012

Lui non si sbaglia

"Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia.
Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai."

30 novembre 2012

Lexicon 80

Erano i tempi dell’università, avevo 21 anni e durante l'inverno avevo come sempre cercato e trovato un lavoro che mi potesse consentire di viaggiare l'estate senza dover ancora pesare sui miei. Così in quella stagione, per tre pomeriggi alla settimana, mi recavo da Piazza Sempione al quartiere Prati, a casa di un anziano oculista di origini polacche – ebreo di Varsavia, di idee comuniste – per ascoltare e trascrivere, con la vecchia ma perfettamente funzionante Olivetti che mi aveva messo a disposizione, il lungo racconto della sua infanzia, del matrimonio fallito, dell'incasinatissima famiglia d'origine e del suo sterminio… Non so che fine abbia fatto il dottor D., che a giugno dello stesso anno partì in Svizzera dov’era solito passare l'estate. Io non volli seguirlo, soprattutto perché avevo capito che più del suo racconto era il bisogno di essere ascoltato che non avrebbe avuto mai fine. 
Lo ricordo con affetto e anche con gratitudine, per avermi aperto al suo presente fatto di piccole cose. Abbiamo fatto più volte “colazione” insieme (lui chiamava così, con vezzo antico, quel che per me era un normale pranzo). Certe sere mi chiedeva timidamente di fermarmi a cena, e una volta accettai. Fu grazie a lui che scoprii la bontà del pane azimo, dello yogurt greco, di certi biscotti che gli preparavano le amiche, suore del Vaticano. Era il medico degli occhi del Papa di allora.


20 novembre 2012

Dopo

Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che spesso ci si presenta nella vita comune è vano e futile – e vedendo come tutto ciò che temevo direttamente o indirettamente non aveva in sé niente di buono né di cattivo, se non in quanto l’animo ne veniva commosso, decisi infine di ricercare se ci fosse qualcosa di veramente buono e capace di comunicarsi e da cui solo, respinti tutti gli altri falsi beni, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se ci fosse qualcosa tale che, trovatolo e acquisitolo, potessi godere in eterno di continua e grandissima felicità.
Baruch Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1677, postumo), a cura di Enrico de Angelis, SE, Milano 1990.

13 novembre 2012

La salsina indigesta

Ho dormito poco e male, come Come Bersi nella striscia di Makkox, rimproverandomi di qualcosa che non so a capire. E dire che sembrava un'ottima cena in quel ristorantino, buona anche per gli occhi… Eppure il retrogusto dell'olio usato per i condimenti mi è apparso strano da subito: perché ho continuato a mangiare? E sì che mi ero detta "niente salsine", ma, fa il cameriere, "è una cernia freschissima e tuttavia alla griglia resta piuttosto legnosa". Ecco il dio errore: avrei dovuto chiedere un altro pesce, non cambiare idea sulla modalità di cottura.

11 ottobre 2012

Nod(ul)i

Le dinamiche sono sempre le stesse o si crede di riconoscerle come tali, ma sono spesso incomprensibili quelle che inficiano le relazioni e le orientano, intanto che le parole non dette e non capite diventano grumo, materia che aggredisce gli organi. 

– Ce l'hai con me?
– No. Cosa te lo fa pensare?
– La tua domanda.  
– Non ho capito.
– Avevi solo due possibilità di risposta: 1) No. 2) Sì, e in questo caso spiegare le ragioni del tuo risentimento. Che tu voglia capire che cosa me lo ha fatto pensare è di per sé un segno che ho visto bene.
– Ecco.

Laing, non sei nessuno.

3 ottobre 2012

La fortuna delle parole

Inconsapevolmente ci è scivolata dalla penna, come una goccia di inchiostro, la parola panciafichista. Parola arcaica, ormai, fuori moda, sostituita da altre che meglio riescono a riempire la bocca: disfattista, caporettista e simili. L'altra è scaduta dall'uso, perché è svanita una mentalità, o meglio perché questa mentalità ha cambiato il centro del suo errore. Si immaginava l'atto della guerra da decidersi come in un'assemblea di tribú barbarica: per il battere delle lance al suolo, per l'ululato fiero dei guerrieri assetati di strage e di lotta. Chi si rifiutava di battere la lancia, di diventare corista nella sinfonia sgangherata degli ululi, non era che un vile affamato di fichi, per i quali voleva conservare la pancia.
La mentalità democratica e pseudorivoluzionaria astraeva completamente dall'idea di Stato, non vedeva nel paese che i singoli individui, frantumava l'unità economico-sociale borghese che è lo Stato in una infinità di volontà empiriche che avrebbero dovuto essere il popolo, il popolo generoso che batte la lancia ed emette ululati guerrieri. Lo Stato ha dimostrato di essere l'unico giudice della guerra, e di far la guerra seguendo solo la logica della sua natura: ha assorbito tutto e tutti e ha trovato gli antagonisti solo in quelli che negano l'attuale natura dello Stato e la logica che se ne sviluppa. Cosí è tramontata la parola panciafichista, di conio democratico, prodotto di una mentalità immatura, che non conosce neppure l'essenza vera degli istituti cui affida la risoluzione dei problemi ideologici dai quali si dice angosciata. Ci sono stati i panciafichisti, ma essi possono essere ritrovati tra quelli che delle forze statali si servono, e se ne sono serviti anche per la conservazione della pelle individua. Curiosa è anche la fortuna di un'altra parola di conio democratico: guerrafondaio. La parola in origine traduceva esattamente l'espressione attuale jusqauboutiste. Fu creata al tempo delle guerre abissine e serviva a indicare gli oltranzisti d'allora, ai quali si opponeva la democrazia lombarda del secolo, e i partiti di opposizione. Oggi questi partiti sono diventati d'ordine: la guerra non è piú fuori del loro programma, e come si compiva lentamente questa conversione cosí la parola guerrafondaio andò acquistando un significato particolare che ondeggia tra quello di «militarista» e di guerraiolo per programma. La mentalità democratica ha stabilito la casistica tra guerra e guerra, tra difesa e offesa, tra guerra democratica e guerra imperialistica: non è arrivata a comprendere la guerra come funzione di Stato, della organizzazione economico-politica del capitalismo. Cosí noi abbiamo trovato la parola già mutata, e abbiamo dovuto crearne delle nuove, o meglio abbiamo dovuto adattarle dal francese: oltranzista e sterminista, mentre sarebbe cosí semplice guerrafondaio per chi vuole la guerra fino in fondo. Cosí le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini. La mentalità democratica, qualcosa che sta nell'organismo, come un gas putrido, non riesce neppure nelle parole a fissare qualcosa di solido e compiuto. Panciafichista al tempo delle guerre d'Africa, il democratico è diventato guerrafondaio, ma ha cercato di far dimenticare le parole, sperando far dimenticare le cose.
10 febbraio 1918
Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2012, p.95.

2 agosto 2012

Gocce di memoria

– C’era Bolaño, quell’anno, al Salone del libro…
– Si chiamava ancora così?
– Non ricordo, ma forse era già cambiato.
– Poi?
– C’erano gli scrittori di area anglofona post-coloniale, caraibici in particolare, c’era il gotha della critica italiana militante riunito sul “canone”, c’erano Darwish e Saramago (ora morti), c’erano incontri con disparati autori guidati dai funzionari della cultura dei principali quotidiani, c'erano i comici di Drive-in, altre cose… 
– Allora?
– Niente, al solito avevano troppi impegni di lavoro, incontri loro…
– …
– … e dunque anche volendo potevano partecipare soltanto a uno, massimo due cosi al dì. 
– Cosa fecero?
– Andarono per tre sere di seguito ad ascoltare i comici di Drive-in.

26 luglio 2012

Filigrana

"Quando scrivo io cerco di esprimere il mio modo di essere nel mondo. Si tratta principalmente di un processo di eliminazione: una volta eliminate tutte le parole morte, i dogmi di seconda mano, le verità che non sono tue ma di altri, i motti, gli slogan, le sfacciate bugie del tuo paese, i miti della tua epoca storica; una volta tolto di mezzo tutto ciò che deforma l’esperienza e le fa assumere un aspetto che non riconosci e in cui non credi, ciò che ti resta è qualcosa che si approssima alla verità della tua concezione. È questo che cerco quando leggo un romanzo: la verità di una persona, nella misura in cui può essere restituita mediante il linguaggio. Quest’unico dovere, debitamente perseguito, produce risultati complicati e vari. Non è certo un appello all’autobiografismo, anche se ci saranno sempre autori che confondono il desiderio di verità personale del lettore con l’invito a scrivere un trattato, o un discorso, o un libro di memorie malamente mascherato in cui gli eroi sono loro stessi. La verità del romanzo è questione di prospettiva, non di autobiografia. È ciò che non puoi evitare di dire se scrivi bene. È la filigrana dell’io che appare in tutto ciò che fai. È la lingua come rivelazione della coscienza."
Zadie Smith, Perché scrivere, minimum fax, Roma 2011.  

20 luglio 2012

Summertime

Your daddy's rich
 And your mamma's good lookin'
 So hush little baby
 Don't you cry


Nel deserto

Dedicato a R.U.

"Aveva scavato solchi nel deserto aggrappato alla coda del pezzato, era precipitato nel baratro tenebroso, era morto ed era rinato, senza mai piangere. Ed ecco che quella notte singhiozzava senza riuscire a frenarsi, come se a piangere non fosse lui, ma un’altra persona che gli dormiva accanto, dormiva in lui, e sulla quale egli non aveva alcuna autorità; un’altra persona che osservava i suoi gesti e ne spiava le mosse, senza farsi vedere. Che significava tutto questo? Era mai successo prima a un altro essere umano nel deserto?
Si alzò senza fare rumore e uscì dalla capanna. Fuori, il rosso dell’alba fendeva le tenebre nell’oasi, ma i galli non avevano fretta di annunciarne la nascita, o forse volevano custodirne il segreto. Solo la schiera di grilli continuava solitaria a intonare i canti della veglia. Anche il pezzato aveva trascorso la notte insonne. Lo trovò ritto sulle lunghe zampe e il muso rivolto verso est, afflitto, che assisteva muto al levarsi del nuovo giorno, mentre il cammello aratore, dall’altra parte della capanna, accanto a una palma dai fitti rami, ruminava con un’espressione stupida, indifferente a tutto. Ukhayyad si rese conto di come la tristezza del pezzato, in quella posizione e a quell’ora precoce del mattino, avesse un che di sacro. Come appariva orribile l’altro cammello in confronto, con quell’aria stupida e imperturbabile e l’animo libero da affanni. Com’è orribile l’aspetto di una creatura il cui cuore non sia oppresso dall’angoscia! Solo la tristezza è in grado di accendere la scintilla divina nei cuori. Lo stesso valeva anche per gli esseri umani? Lo sheikh Musa diceva sempre che Dio tra le sue creature predilige i sofferenti e gli afflitti e che anzi mette alla prova quelli che più ama."
Ibrahim al-Koni, Polvere d'oro, traduzione dall'arabo di Maria Avino, Ilisso, Nuoro 2005, p. 93.

"Qui nel deserto, invece, i diavoli sono condannati a morire di sete."
Ibrahim al-Koni, cit., p. 99.

19 luglio 2012

Sarrabulho

Allora per me si tratta di capire se il fegato del sarrabulho e il sangue con cui si lega con il resto degli ingredienti siano meno interiori della trippa. Per qualche motivo sarei propensa a dare ragione ad Altamante, che lo sia maggiormente quest’ultima, ma è una suggestione attualmente non confortata da basi scientifiche (mi riferisco alla mia ignoranza in materia di anatomia). La metterei sul fatto che fegato e sangue sono dati, mentre la trippa si forma nella meditazione, nel silenzio e nell'immobilità. La trippa è talmente interiore che nemmeno il sangue riesce a irrorarla.
Comunque sia Antonio Tabucchi, in Requiem, ne scrive come di un piatto da sballo. Io non l'ho mai assaggiato quindi non lo so; quasi quasi lo metto nel programma della prossima visita a Lisbona.

16 luglio 2012

Armidda

"Una teoria immunologica* tenta di spiegare come e perché il nostro sistema immunitario riconosce un ospite estraneo e non gradito e dunque lo attacca producendo anticorpi. Nei primi mesi di vita del feto i rappresentanti dei nostri organi, per così dire, migrano verso la ghiandola del timo: in questa sede avviene una sorta di presentazione e di riconoscimento. Il nostro io impara di cosa è composto l’organismo. Da quel momento ogni elemento estraneo, non presentato in quella sede, diventa nemico e dunque è suscettibile di reazione immunitaria. La metafora letteraria che si può trarre è: più ci conosciamo (con metodo e onestà di rappresentazione), più ci difendiamo. A voler estendere questa teoria immunologica alla narrativa in senso lato, si potrebbe sostenere che solo una buona e approfondita presentazione delle parti in campo (degli elementi che compongono la nostra identità) ci prepara e struttura la nostra resistenza al male, all’ignoto e alla complicità che di solito abbiamo con queste dimensioni."
Antonio Pascale, Questo è il paese che non amo. Trent’anni nell’Italia senza stile, minimum fax, Roma 2010, p. 85.
* Jean Claude Amesein, Al cuore della vita. Il suicidio cellulare e la morte creatrice, Feltrinelli, Milano 2001.

Thymus spp.

Thymus serpyllum L.
Nome comune
Timo serpillo
Nome sardo
Armidda
Nome francese
Serpolet
Nome inglese
Wild thyme

Thimus vulgaris L.
Nome comune
Timo
Nome sardo
Timu, Tumu, Tumbu
Nome francese
Thyme commun
Nome inglese
Common Thyme

Famiglia
Lamiaceae
Parte utilizzata
sommità fiorite
Costituenti principali
olio essenziale (1% Thimus s.; 2,5% Thimus v.)
tannino; sostanze amare: serpillina flavonoidi, saponine e triterpeni ad attività antibiotica

Attività principali
antisettica, espettorante e mucolitica
antitossiva e spasmolitica
digestiva e coleretica

Impiego terapeutico
affezioni dell'apparato respiratorio
(trattamento sintomatico della tosse)
trattamento sintomatico delle turbe digestive

CURIOSITÁ
"Fra le tante dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti." (Grazia Deledda, 1904)
"L’erba che copre qualche macchia del suolo sulla cima [del Gennargentu] è il profumato Thimus herba barona; in mezzo a queste chiazze si vede spuntare in giugno il fiore che preannuncia l’inverno, il rilucente Crocus minimus." (Alberto Della Marmora, 1868)
Enrica Campanini, Piante medicinali della Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2009, pp.496, 499. 

13 luglio 2012

Ruth

"Cerco le tracce di quei suoni in un cassetto di casa, dove ho riposto appunti di passato che non riesco a buttare via. Lì ritrovo questo elenco che ora trascrivo fedelmente, forzando un po' il mio senso del pudore e dunque in corpo minore:
Anticoncezionali per non abortire, aborto libero per non morire.
La giunta è rossa, ma è rossa di vergogna. I consultori li ha messi nella fogna.
Non siamo macchine per la riproduzione, ma donne libere per la rivoluzione.
La liberazione non è un'utopia: donna, gridalo, io sono mia.
Subiamo violenza quotidianamente, lo stupro è solo la forma più evidente.
Compagno nella lotta, padrone nella vita, con questa storia facciamola finita.

Vi fanno un po' ridere? Anche a me, un pochino. E mi fanno anche piangere, nel senso che mi commuovono. Tuttavia sono esattamente queste le parole che affiorano da quel passato lontano. Le parole sono queste, lo so per certo, ma non dicono quello che dicono.
Perché per tutte e tre, la bambina della fotografia, la donna del film e io, quelle parole non sono che una marcetta che fa accedere a un'altra musica. Perché se anche quelle parole non sono più capaci di parlare, se gli zoccoli e le gonne a fiori sono finiti in cantina, le case occupate diventate condomini /…/ una cosa ha superato la prova del tempo ed è rimasta intatta: il fatto di non essere mai stata sfiorata dal pensiero di appartenere a un sesso debole.
Forte di una certezza che non ho mai sentito il bisogno di rinegoziare, ho vissuto, e viaggiato, senza mai pensare che ci fossero delle cose che in quanto donna non potevo fare, o non avrei dovuto fare. E non ho mai sentito neanche il bisogno di dimostrarlo: è stato semplicemente, naturalmente così."
Maria Perosino, Io viaggio da sola, Einaudi, Torino 2012, p.141.

9 luglio 2012

La misura

"Ho visto, una domenica mattina di qualche tempo fa, uno spettacolo circense per bambini. Gli animali non venivano costretti a esibirsi, ma semplicemente apparivano, come in una visione esotica, dietro una nuvola di azoto liquido. A un certo punto, un'equilibrista ha fatto il numero del volo dell'angelo. Vestita di tulle trasparente, bellissima con le sue ali fittizie, è, piano piano, salita al cielo, vorticando in cerchi sempre più stretti. Mi sono accorto, tuttavia, che solo gli adulti seguivano con lo sguardo (illuso) l'equilibrista. La maggior parte dei bambini aveva capito che lei non si sollevava per magia ma perché un inserviente, da dietro le quinte, si dava da fare con manovella, corda e puleggia. Ora, guardare non l'illusione del volo, ma il trucco dello stesso, contribuisce a formare bambini più svegli, attivi e intelligenti, o al contrario, bambini che penseranno che la vita è solo un sistema di corde tese e pulegge e inservienti che dietro le quinte manovrano tutto? E se svilupperanno questa convinzione, che qualcun altro muove sempre i fili, quale sarà il loro rapporto con la rappresentazione della realtà?"
Antonio Pascale, Questo è il paese che non amo. Trent'anni nell'Italia senza stile, Minimum fax, Roma 2010, p. 133.

27 giugno 2012

Elighe

Tra meno di due settimane la campagna diventerà gialla, chiazzata dalle corone verdi de sas elighes (non so come si dica in italiano), delle sughere e del viola di certi fiori… Viaggi con il vento caldo e la musica tra le colline e il mare, e ti sembra di essere ovunque al mondo. 
Poche storie, è questa la nostra fortuna.

18 giugno 2012

20!

È una fortuna che sia arrivata questa stamattina…
Almeno so come dirti felice compleanno, amore, mi sembra ieri che costruivi barumini sulla spiaggia. 
(Grazie a Isola Virtuale) 

13 giugno 2012

Anti nonsense

"Questo Manifesto dichiara la fede dell'UNESCO nella biblioteca pubblica come forza vitale per l'istruzione, la cultura e l'informazione e come agente indispensabile per promuovere la pace e il benessere spirituale delle menti di uomini e donne."

1 giugno 2012

Il mestiere di vivere

C’era una volta un ragazzo che sognava di diventare uno scalpellino bravo e famoso. Con suo padre, ogni giorno, si recava a Cocorrovile, a 7 chilometri da Orune.
Ogni giorno.
A piedi.
Andata e ritorno.
Cava.
Silenzi ancestrali.
Uomini che picchiavano disperati sui massi.
La madre che lo amava di un amore assoluto.
I fratelli.
Erano i mondi di Nineddu.
Poi arrivò la guerra e in tanti partirono come rimedio alla fame. Nineddu andò incontro a nuovi luoghi e miniere: Carbonia, altre persone che alternavano umanità e crudele disumanità nei confronti di quel ragazzo che continuava a scrutare la realtà con occhi colmi di stupore.
Poi fece ritorno al paese, ma ormai suo padre, per una ferita riportata nella guerra di Spagna, non poté più insegnargli a fare lo scalpellino…

25 maggio 2012

Le voci

Anche per averlo citato e, dunque, per quel che mi riguarda, “immortalato” in Nascar, non ho mai scordato il primo titolo di Paolo Nori, Bassotuba non c'è. Ora lo ricorda Andrea Cortellessa in Narratori degli anni zero, antologia da lui curata per l’ultimo numero dell'Illuminista diretto da Walter Pedullà. Mi ha fatto piacere trovare Bassotuba inserito tra i migliori romanzi degli esordienti italiani del primo decennio. Di seguito riporto un'ampia citazione che ben delinea il carattere dell'indimenticabile protagonista. (Gli altri 24 esordienti entrati nell'antologia che per sua natura si lascia alle spalle una strage sono: Tommaso Pincio, Ugo Cornia, Antonio Pascale, Francesco Permunian, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Leonardo Pica Ciamarra, Laura Pugno, Franco Arminio, Paolo Morelli, Emanuele Trevi, Giorgio Falco, Giuseppe A. Samonà, Eugenio Baroncelli, Ornela Vorpsi, Luca Ricci, Luca Rastello, Roberto Saviano, Babsi Jones, Andrea Bajani, Francesco Pecoraro, Giorgio Vasta, Gabriele Pedullà, Gilda Policastro.)

"Fin da quand'ero piccolo, ci sono delle voci che stanno sulla mia testa e vanno avanti e indietro, e volano su tutta la superficie della mia testa che va dalla fronte alla nuca e girano, girano, ogni tanto picchiano e provano a entrare, cercando un passaggio attraverso la scatola cranica. E dicono, fin da quand'ero piccolo. Sei una merda! Sei una grandissima merda che non vali niente!
Io ci rispondo, fin da quand'ero piccolo, ci dico Non è vero, siete voi delle merde. Andate via, Ci dico Basta. Non avete nient'altro da fare che stare qui a picchiare sulla scatola cranica, andate via, andate da un'altra parte a far confusione. Proprio qui, ci dico, dovete venire a portare scompiglio, che la gente si sta riposando? Non avete cognizione, ci dico, alle voci.
E loro Sei una merda! Sei una merda secca! Sei una merda che non è più buona neanche per concimare! mi dicono. Sei una merda letale! dicon le voci che stazionano nella mia testa.
Io ci dico Vi divertite? ci dico. Brave, andate avanti, continuate pure, ci dico. Tanto non me la prendo, ci dico.
Merda, merda, merda, continuano loro, si mettono anche a cantare, e picchiano sempre più forte, cercano di entrare nel mio cervellino.

[…]

Se venisse l'angelo della devastazione e mi dicesse Learco! io ci direi Ecco, ci siamo.
Lui mi direbbe, l'angelo dell'apocalisse, Learco! Perché ti sei ridotto così? Angelo, gli direi, non lo so.
Lui mi direbbe Learco! Cosa ne hai fatto dei talenti che ti abbiamo dato? Io gli direi Boh.
Learco! mi direbbe l'angelo della fine del mondo. Oh, gli direi. Learco, spiegami cosa ti è successo. Spiegami perché non hai sviluppato i talenti che ti abbiamo dato. Io gli direi Mah, ci dovrei pensare, gli direi.
Ecco, mi direbbe l'angelo, pensaci. … ".
Paolo Nori, Bassotuba non c'è, DeriveApprodi, Roma 1999, pp. 23-25.

Foto di Ed Templeton

22 maggio 2012

La zona infiammata

"Sarà per deformazione professionale, o forse soltanto per via di una casuale fortuna dentaria, ma insomma di fronte all’espressione «la lingua batte dove il dente duole» non ho mai pensato a bocca e gengive. Piuttosto, in maniera più o meno istintiva, mi ha sempre fatto venire in mente la letteratura (e dunque la lingua) e la sua vocazione a raccontare il dolore dell’uomo. La lingua batte dove il dente duole, per me ha sempre significato quell’inesausta ricerca di dare una forma linguistica a una lotta, a una contraddizione. Significa che la letteratura va a cercare, si immerge, là dove un’epoca soffre, dove l’uomo si dibatte tra la ricerca istintiva della felicità e la miseria del tempo in cui vive, che è un tempo particolare, specifico, con contraddizioni e conflitti suoi propri. La lingua batte là dove l’uomo soffre, dove è malato. Perché dietro la malattia c’è un corpo che patisce, che dentro combatte per debellare il suo male. Quando il dente duole lo si sente pulsare, segno di un lavoro che si agita dietro, in mezzo alla carne. Così quando duole ogni zona infiammata, quando arriva la febbre.
Da bambino non avevo particolari fastidi ai denti, ma ciò nonostante mi ammalavo lo stesso. Ogni volta che succedeva mi colpiva la spiegazione che mi veniva data a proposito delle malattie, e soprattutto a proposito della febbre: era la conseguenza e la manifestazione di una battaglia che infuriava nel corpo. Più era accesa quella lotta intracorporea, più la febbre saliva, la faccia sudava e i brividi mi inchiodavano al letto. Così, afflitto nel buio della stanza, pensavo a questo incrociarsi di spade che si agitava sottopelle, da qualche parte dentro di me. Nel silenzio cercavo di sentire l’affilarsi dei ferri sui ferri, le urla di chi partiva all’assalto, e quelle di chi, colpito, si accasciava per terra. Non so come mai ma quelle battaglie le pensavo sempre come battaglie di antichi romani, gli avambracci infilati dentro gli scudi, gli spadoni sollevabili soltanto da uomini muscolosi e i pugnali che spuntavano fuori quando la spada cadeva. La battaglia che avveniva dentro di me, quella lotta che portava la febbre, la immaginavo così. Però non tutte le malattie erano uguali, e quindi non erano uguali tutte le febbri. Il dolore al dente è diverso dal dolore alla pancia, anche se entrambi possono portare la febbre. Mi dicevano che per ogni malattia infuria una lotta diversa, che dunque ogni dolore sembra uguale a quell’altro ma in realtà è un dolore che deriva da un diverso incrociarsi di spade.
Ecco, quando sento dire «la lingua batte dove il dente duole» penso esattamente a questa ricerca, della letteratura, di andare là dove infuria il dolore di un’epoca, di andare a capire quali spade si stanno incrociando. Penso a quest’inesausto battere della lingua, che è al tempo stesso una discesa sotto la pelle del tempo, e però anche un battere del tempo alla ricerca di quel ritmo, quella cadenza, quel suono, con cui ogni epoca fa mostra di sé, si affaccia alla storia. Ogni volta che si manifesta la febbre, la febbre sembra sempre la stessa ma non è così. Allo stesso modo io credo che ogni epoca abbia un suo proprio dolore, che nasce da un conflitto tutto differente dal conflitto delle epoche che l’hanno preceduto e da quelle che la seguiranno. Nei Quaderni dal carcere Gramsci scrive che «un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista 'personalità', è un ‘momento’ dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una 'punta' storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta». Ecco, è quella la lotta che fa il dolore di un’epoca, in cui ci si addanna sugli scudi e le spade, al ritmo dei fendenti menati. La letteratura va a toccare quel ventre molle che fa soffrire uomini e donne in un momento specifico della storia. Credo ci sia una disgregazione tutta particolare, nell’epoca in cui viviamo, uno sfaldarsi del tessuto sociale, un creparsi delle superfici che prima tenevano insieme cose e persone. È una disgregazione che lascia soli gli uomini in una maniera diversa: più sfiancata, più arresa e più rassegnata che mai. C’è un modo di essere soli inedito, perché è una solitudine che non cerca più un balsamo nei legami con le persone ma con gli oggetti che le circondano. È una solitudine del tutto funzionale a una società che vuole solitudini arrese, persone sfiancate. Ecco, è quello, mi sembra, il dente che duole in quest’epoca, ed è lì che la lingua prova a infilarsi. È quello il dolore che tenta di sillabare, a cui cerca instancabilmente di dare una forma. Ma quella forma non può che essere una visione, del dolore, una sua percezione alterata. Quando il dente duole la lingua lo tocca, e poi ne riporta indietro un’immagine abnorme. Il dolore al dente fa immaginare a chi lo patisce una bocca esplosa, fa pensare a un dente mostruoso. Così per ogni altro dolore del corpo, che infiamma, che porta la febbre, che fa sentire uno sferragliare di spade, una battaglia, una lotta. È lì che la lingua tocca, per paura di trovarlo ancora e, forse irrazionalmente, per il bisogno di sapere che c’è."
Andrea Bajani, La zona infiammata, contenuta nell’antologia "Narratori degli anni zero", a cura di Andrea Cortellessa, in  L’Illuminista. Rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà, numero 31-32-33, gennaio/dicembre 2011, pp. 577-578.

21 maggio 2012

No more fuffa


Pane nostru de ogni die,
no manches mai a mie,
no manches a perunu.
Mai connoscat jeunu
sa zente venturera.

Pane nostro quotidiano
mai tu mi manchi
non mancare a nessuno.
Mai conosca il digiuno
la gente che va alla ventura.

Augurio col quale si accompagna la distribuzione del pane benedetto fatta ai poveri nella ricorrenza della festa d’un Santo che abbia dato assistenza e consolazione nelle malattie, nei dissesti, nelle sventure.
Salvatore Cambosu, Miele amaro, Ilisso, Nuoro 2004, p. 142. 

18 maggio 2012

Little bittern

Negli anni '30 – mi raccontavano ieri sera –, prima che le paludi venissero bonificate, ogni venerdì all'imbrunire si sentivano le urla rauche dei tarabusi. Il verso dell'uccello (boi forraiu in sardo, bos taurus in latino) è simile a un impressionante muggito, tant'è vero che il bestiame nell'udirlo fuggiva spaventato, e così gli uomini e le donne che si trovavano nei paraggi. La gente credeva che le urla del tarabuso appartenessero alle anime in pena, possedute dal demonio, e che gli uccelli sostassero nelle paludi per espiare le loro colpe. A me non è mai capitato di vedere un boi forraiu, così mi sono voluta togliere la curiosità cercando qualche foto. E ho scoperto che si tratta di un uccello bellissimo.

10 maggio 2012

Alla forma che ti chiude


Con un cenno della fronte respinge
lungi da sé ogni vincolo, ogni limite
perché per il suo cuore passa alto e immenso il ciclo
degli eventi che ricorrono eterni.
Nei fondi cieli scorge una folla di figure
che lo chiamano: riconosci, vieni.
Ciò che ti pesa, perché lo sostengano,
non affidarlo alle sue mani lievi.
Verrebbero nella notte a provarti nella lotta,
trascorrendo la casa come furie,
afferrandoti come per crearti
e strapparti alla forma che ti chiude.
Rainer Maria Rilke, "L'Angelo"

8 maggio 2012

Mah

Strano giorno di sorrisi e di mosche, mentre tu stavi al solito là, immobile, nella concentrazione della solita fatica. Per un attimo sei tentata di accettare gli uni e le altre, da una uguale mitezza.
Un momento però: tu sei sempre la stessa persona, non hai la marmellata sul naso, e ormai è da giorni, mesi, anni che non ti sei mossa di un millimetro dal solito posto… E allora? Cos’è quella mosca sul naso? 
Non lo sai e nemmeno sei certa di voler provare a capire. Se non c’è niente da capire, cosa vuoi provare a fare, cosa?
Per un attimo prendi a vagare sull'eterno ritorno delle mosche e poi, con un piccolo "mah!", risprofondi la testa nel solito giorno. 

5 maggio 2012

E le donne sui marciapiedi a lanciargli fiori

 di José Saramago
"Vedo dai sondaggi che la violenza sulle donne è l’argomento numero quattordici tra le preoccupazioni degli spagnoli, nonostante si contino tutti i mesi sulle dita delle mani, e  sfortunatamente non ci sono sufficienti dita, le donne assassinate da quelli che credono essere i loro padroni. Vedo anche che la società, nella pubblicità istituzionale e in singole iniziative civili, anche se un po’ alla volta, si rende conto che è un problema degli uomini e che solo gli uomini lo devono risolvere. Da Siviglia dall’Estremadura spagnola ci è giunta notizia, qualche tempo fa, di un buon esempio: manifestazioni di uomini contro la violenza. Fino ad oggi erano soltanto le donne a scendere in piazza per protestare contro i continui maltrattamenti subiti dalle mani dei mariti e compagni (compagni, triste ironia), che, mentre in moltissimi casi prendono la forma di fredda e deliberata tortura, non disdegnano l’assassinio, lo strangolamento, la pugnalata, lo sgozzamento, l’acido, il fuoco. La violenza da sempre perpetrata sulle donne ha trovato nel carcere in cui si è trasformata il luogo della coabitazione (ci rifiutiamo di chiamarla casa), lo spazio per eccellenza per l’umiliazione quotidiana, per il maltrattamento abituale, per la crudeltà psicologica come strumento di dominio. Il problema è delle donne, si dice, e questo non è vero. Il problema è degli uomini, dell’egoismo degli uomini, del malato sentimento possessivo degli uomini, della pigrizia degli uomini, questa miserabile codardia che li autorizza a usare la forza contro un essere fisicamente più debole e a cui è stata sistematicamente ridotta la capacità di resistenza psichica. Qualche giorno fa a Huelva, applicando le regole dei più grandi, alcuni adolescenti di tredici e quattordici anni hanno violentato una ragazza della loro stessa età affetta anche da una deficienza psichica, forse perché pensavano di aver diritto al crimine e alla violenza. Diritto a usare quello che consideravano loro. Questo nuovo atto di violenza di genere, più quelli avvenuti questo fine settimana, a Madrid una ragazzina assassinata, a Toledo una donna di trentatre anni uccisa davanti a sua figlia di sei, avrebbero dovuto far scendere in piazza gli uomini. Forse 100mila uomini, solo uomini, manifestando per le strade, mentre le donne sui marciapiedi a lanciargli fiori, questo sarebbe potuto essere il segnale di cui la società ha bisogno per combattere, dal suo interno e senza scrupoli, questa insopportabile vergogna. E la violenza di genere, con o senza la morte, cominci a essere uno dei primi dolori e preoccupazioni dei cittadini. È un sogno, è un dovere. Può non essere un’utopia." 

17 aprile 2012

Intervista di una sola voce

– non so se potete aiutarmi dovete aiutarmi. ci sono due "guerra". due "decennio". due "ricerca". una è
di fiori a specchi e che i morti ammazzati sono lo spettacolo. e una solo sangue e lavoro buttato e
cancro, operai morti. inutile dire no – NON inutile dire – con chi sto. con i secondi. cacciare gli
stalinisti dalle assemblee (Debord). necessità della situazione. tragedia, e l’assemblaggio. il corpo, e
l’ombra del detto. la riduzione al silenzio. il lavoro che: annienta. a chi mi risponde con una
bibliografia punto il coltello. fuori dal cazzo, intellettuali e 68ini e 77ini conduttori di radio. pittori,
romanzieri mondadori, sottobosco, citatori, salotto. non so come salviamo quelli che non sanno leggere.
dobbiamo pensare a quelli che non sanno leggere. si deve sfasciare lo spettacolo. tutto lo spettacolo è
riportato e ripetuto come spettacolo dello spettacolo. va interrotto. devi interromperlo.
Marco Giovenale