"Sarà per
deformazione professionale, o forse soltanto per via di una casuale fortuna
dentaria, ma insomma di fronte all’espressione «la lingua batte dove il dente
duole» non ho mai pensato a bocca e gengive. Piuttosto, in maniera più o meno
istintiva, mi ha sempre fatto venire in mente la letteratura (e dunque la
lingua) e la sua vocazione a raccontare il dolore dell’uomo. La lingua batte
dove il dente duole, per me ha sempre significato quell’inesausta ricerca di
dare una forma linguistica a una lotta, a una contraddizione. Significa che la
letteratura va a cercare, si immerge, là dove un’epoca soffre, dove l’uomo si
dibatte tra la ricerca istintiva della felicità e la miseria del tempo in cui
vive, che è un tempo particolare, specifico, con contraddizioni e conflitti
suoi propri. La lingua batte là dove l’uomo soffre, dove è malato. Perché
dietro la malattia c’è un corpo che patisce, che dentro combatte per debellare
il suo male. Quando il dente duole lo si sente pulsare, segno di un lavoro che
si agita dietro, in mezzo alla carne. Così quando duole ogni zona infiammata,
quando arriva la febbre.
Da bambino non avevo
particolari fastidi ai denti, ma ciò nonostante mi ammalavo lo stesso. Ogni
volta che succedeva mi colpiva la spiegazione che mi veniva data a proposito
delle malattie, e soprattutto a proposito della febbre: era la conseguenza e la
manifestazione di una battaglia che infuriava nel corpo. Più era accesa quella
lotta intracorporea, più la febbre saliva, la faccia sudava e i brividi mi
inchiodavano al letto. Così, afflitto nel buio della stanza, pensavo a questo
incrociarsi di spade che si agitava sottopelle, da qualche parte dentro di me.
Nel silenzio cercavo di sentire l’affilarsi dei ferri sui ferri, le urla di chi
partiva all’assalto, e quelle di chi, colpito, si accasciava per terra. Non so
come mai ma quelle battaglie le pensavo sempre come battaglie di antichi
romani, gli avambracci infilati dentro gli scudi, gli spadoni sollevabili
soltanto da uomini muscolosi e i pugnali che spuntavano fuori quando la spada
cadeva. La battaglia che avveniva dentro di me, quella lotta che portava la
febbre, la immaginavo così. Però non tutte le malattie erano uguali, e quindi
non erano uguali tutte le febbri. Il dolore al dente è diverso dal dolore alla
pancia, anche se entrambi possono portare la febbre. Mi dicevano che per ogni
malattia infuria una lotta diversa, che dunque ogni dolore sembra uguale a
quell’altro ma in realtà è un dolore che deriva da un diverso incrociarsi di
spade.
Ecco, quando sento dire «la
lingua batte dove il dente duole» penso esattamente a questa ricerca, della
letteratura, di andare là dove infuria il dolore di un’epoca, di andare a
capire quali spade si stanno incrociando. Penso a quest’inesausto battere della
lingua, che è al tempo stesso una discesa sotto la pelle del tempo, e però
anche un battere del tempo alla ricerca di quel ritmo, quella cadenza, quel
suono, con cui ogni epoca fa mostra di sé, si affaccia alla storia. Ogni volta
che si manifesta la febbre, la febbre sembra sempre la stessa ma non è così.
Allo stesso modo io credo che ogni epoca abbia un suo proprio dolore, che nasce
da un conflitto tutto differente dal conflitto delle epoche che l’hanno
preceduto e da quelle che la seguiranno. Nei Quaderni dal carcere Gramsci scrive
che «un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di
contraddizioni. Esso acquista 'personalità', è un ‘momento’ dello svolgimento,
per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle
altre, rappresenta una 'punta' storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un
contrasto, una lotta». Ecco, è quella la lotta che fa il dolore di un’epoca, in
cui ci si addanna sugli scudi e le spade, al ritmo dei fendenti menati. La
letteratura va a toccare quel ventre molle che fa soffrire uomini e donne in un
momento specifico della storia. Credo ci sia una disgregazione tutta
particolare, nell’epoca in cui viviamo, uno sfaldarsi del tessuto sociale, un
creparsi delle superfici che prima tenevano insieme cose e persone. È una
disgregazione che lascia soli gli uomini in una maniera diversa: più sfiancata,
più arresa e più rassegnata che mai. C’è un modo di essere soli inedito, perché
è una solitudine che non cerca più un balsamo nei legami con le persone ma con
gli oggetti che le circondano. È una solitudine del tutto funzionale a una
società che vuole solitudini arrese, persone sfiancate. Ecco, è quello, mi
sembra, il dente che duole in quest’epoca, ed è lì che la lingua prova a
infilarsi. È quello il dolore che tenta di sillabare, a cui cerca
instancabilmente di dare una forma. Ma quella forma non può che essere una
visione, del dolore, una sua percezione alterata. Quando il dente duole la
lingua lo tocca, e poi ne riporta indietro un’immagine abnorme. Il dolore al
dente fa immaginare a chi lo patisce una bocca esplosa, fa pensare a un dente
mostruoso. Così per ogni altro dolore del corpo, che infiamma, che porta la
febbre, che fa sentire uno sferragliare di spade, una battaglia, una lotta. È
lì che la lingua tocca, per paura di trovarlo ancora e, forse irrazionalmente,
per il bisogno di sapere che c’è."
Andrea Bajani, La
zona infiammata, contenuta nell’antologia "Narratori degli anni
zero", a cura di Andrea Cortellessa, in L’Illuminista. Rivista di cultura contemporanea diretta
da Walter Pedullà, numero 31-32-33, gennaio/dicembre 2011, pp. 577-578.
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