30 ottobre 2021

Salvare

Bisogna salvare le ferite.
Non lasciarle sole, sperdute
nell’idea fissa della medicazione e della guarigione.
Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La
risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre
possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono
tutti alle ferite.
Perdere una ferita significa perdere una segnaletica
importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza,
un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci
fa cantati, cantati dalla vita cruda.

Chandra Candiani, 
da Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Einaudi, Torino 2021.

31 agosto 2021

"La peste" di Albert Camus al QuFestival di Orani

Orani, 26 agosto 2021, in Piazza Mazzini, rione Su Postu, cuore del nivoliano Pergola Village.
Negli scatti di Elena Mereu (agenzia di comunicazione "Nàrami") il racconto fotografico dell'incontro sui temi de La peste di Albert Camus: con la traduttrice dell'ultima edizione italiana del romanzo Yasmina Mélaouah, Maria Teresa Carbone, Dominique Vittoz, Bastiana Madau, Maria Giovanna Ganga e Battista Giordano. L'incontro si è svolto nell'ambito della terza edizione del festival Quando tutte le donne del mondo (QuFestival), rassegna di appuntamenti culturali tesa a mettere in luce principalmente il lavoro intellettuale delle donne.

9 maggio 2021

S'artareddu

Negli anni sessanta e sino ai primi settanta del secolo scorso, quando ero bambina io, la festa della mamma non esisteva, almeno non a casa nostra. Maggio era invece "il mese di Maria", ci dicevano le grandi, cioè la maestra, la catechista, le madrine, le zie materne. Sicché, con la mia amichetta d'infanzia e di vicinato Lina, che purtroppo non c'è più, a maggio andavamo a raccogliere fiori di campo per fare l'altare alla madonnina di maggio, in Piazza 'e Cumbentu. 
Era un gioco bellissimo. Rivestivamo di carta colorata un fustino vuoto di detersivo per lavatrice, conservato con cura all'uopo; chiedevamo alle nostre rispettive mamme, Maria Itria e Caterina, dei centrini fatti all'uncinetto per addobbarlo, collocandovi poi sopra dei barattoli di vetro pieni di fiorellini di campo raccolti nel sentiero ai piedi della collina di Santu Paulu. Chiamavamo il coloratissimo allestimento s'artareddhu (l'altarino).
Io lo faccio ancora, usando una seggiolina vecchissima che non ho il coraggio di buttare. Lo faccio per poesia.
 

20 aprile 2021

Sa Uddhita

Quando una carissima persona anziana di casa ci lascia, insieme al dolore per la perdita si rinnova lo struggente addio al piccolo mondo antico, pieno di luce, l'addio all'infanzia reale e all'età dell'oro. Vorresti fermare il tempo, o almeno farlo rallentare per portare dentro l'arca ogni cosa buona ci sia da salvare: oggetti, parole e persino le buone ombre del cortile. 
 
Domo 'e Mannai, sa corte  (particolare)

19 aprile 2021

Piccoli fuochi

Nelle difficoltà del vivere, per non farci travolgere dal buio della tristezza, accendiamo piccoli fuochi nella notte. Ce lo insegna da molto tempo, dalla sua fragilità, il sorriso della nostra adorabile zia Nannina, che il 16 aprile, alle otto di sera, nella sua casa natale, tra le braccia delle amate sorelle zia M. e zia P., ci ha improvvisamente lasciato. 

Grazie dell'amore che ci hai regalato, carissima Zia, riposa in pace.

15 aprile 2021

Siro

Facendo una ricerca  per motivi di lavoro, casualmente m'imbatto in un aforisma attribuito al drammaturgo romano Publilio Siro (85 a.C., Nisibis, Turchia): "Un'amicizia che finisce non è mai cominciata". Forse un po' semplicistico, penso; e di primo acchito mi sembra troppo tranchant per poterlo assegnare a una penna raffinata come quella di chi scrisse, ad esempio, "Etiam capillus unus habet umbram suam" (Anche un solo capello ha la sua ombra)... Non lo so, e comunque – publiliosirano autentico o falso –, l'aforisma fa emergere il sottofondo di tristezza che a lungo accompagna chi perde un amico (o un'amica), e forse vuole indicare che – preso atto della fine di una relazione vissuta illusoriamente come un'amicizia di valore – non ha senso indagare sul cosa altro invece fosse o sul niente che invece era: non dissiperebbe la nebbia, non attenuerebbe la delusione, non contribuirebbe alla conoscenza della "verità" e solo risulterebbe essere una ricerca inutile almeno quanto la stessa tristezza. Solo il tempo guarisce simili piccoli o grandi lutti, la ragione non serve.
Ciò detto, sì… è plausibile che l'aforisma sia di Siro.

14 aprile 2021

L'esercizio dell'immaginazione

"Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere."
Giacomo Leopardi, Zibaldone, Frammenti 1744-1745.
 
A. Ferrazzi, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1820 ca.

10 marzo 2021

I cavallini di Antine

Costantino Nivola concepiva un’arte non avulsa dalla società e comunque mai sterilmente in contrapposizione. Riponeva una grande fiducia nei valori estetici come elemento capace di attenuare i contrasti sociali e gli era estranea quella che definiva "la poetica della desolazione americana". Tuttavia, in questa sua idea "non c’era nessuna retorica consolatoria – ha scritto Giuliana Altea, storica dell'arte, docente, critica, presidente della Fondazione omonima –, nessuna enfasi sulla bellezza che redime: era la stessa naturale ricerca di semplicità e armonia che l’artista applicava all’esistenza quotidiana, rispecchiata per esempio dalla cura che riservava alla propria casa, anche quando questa era molto modesta".
Ciò detto, quel che invece è accaduto qualche giorno fa a New York, dove il playground delle Wise Towers realizzato da Costantino Nivola e Richard Stein nel 1964 (il più grande progetto pubblico di Nivola a New York) è stato distrutto "per dare vita a un progetto di rinnovamento dell’area", è emblematico di quanto la concezione estetica nivoliana non sia invece penetrata nella società americana. "I cavallini di Nivola, ispirati ai cavalli a dondolo dell’infanzia e alla statuaria orientale, sono stati rimossi, le gambe spezzate da colpi di mazza", leggiamo nella nota emanata dalla dirigenza del Museo Nivola di Orani.
Per stare alla metafora, mi pare peggio che se invece di pulire e restaurare una casa storica di pregio la si fosse voluta radere al suolo. È sconcertante.
A questo punto mi pare legittimo domandarsi se c'è qualche possibilità di avere in Sardegna i cavallini che quelle verdi praterie americane non hanno saputo meritarsi...
E noi, siamo sicuri di meritarceli?
Anch'io voglio avere "nivolianamente" fiducia e dico di sì, seppure – pensando a certe trascuratezze nostrane – annuisca tremando. Li aspettiamo.

24 febbraio 2021

Omaggio a Ferlinghetti

Ricordo quella volta che da ragazzina ebbi un colpo di fortuna e, trascinata da amiche e amici più grandi di me, conobbi Ferlinghetti e praticamente l'intera beat generation.
Festival internazionale dei poeti, Castelporziano, nella lontanissima estate del 1979. C'ero, assai pischelletta ma c'ero, e fu indimenticabile e formativa la scoperta di così tanti e diversi geni della poesia mondiale: Ginsberg, Borroughs, Evtušenko, Soriano, Corso, Ferlinghetti...
Ricordo come in un sogno.
All'epoca conoscevo un pochino soltanto Allen Ginsberg, grazie all'allora givanissimo e con tanti capelli lunghi e biondi Tziu Maa, che ai tempi della quarta ginnasio mi passò una poesia sul percorso di un salmone, che mi sembrò meravigliosa: da adolescente mi incuriosiva tutto ciò che appariva "sperimentale", a-scolastico, mi di passi il termine. E conoscevo già Fernanda Pivano (che teneva insieme un po' tutti, in quell'incredibile notte) perché era la traduttrice della mia amata Antologia di Spoon River e dei primi romanzi di Hemingway: Il vecchio e il mare, Per chi suona la campana e Fiesta
Ricordo esattamente il momento in cui, nella spiaggia di Castelporziano, il palco stracolmo di poeti prese ad affondare sulla sabbia… Fu bellissimo!… In tanti, com'è noto, lessero l'incidente come una metafora del decadimento della poesia nella contemporaneità (si parlò di "culmine e agonia"), ma noi eravamo troppo giovani per pensare simili tristi cose: semplicemente ci divertimmo come pazzi! E da allora presi a leggere anche Ferlinghetti.

“Il mondo è un posto bellissimo in cui nascere
se non ti interessa che la felicità
non sia sempre
così divertente
se non fai caso a un po’ d’inferno
di tanto in tanto
quando tutto sembra andare bene
perché perfino in paradiso
non si passa tutto il tempo
a cantare."
(Traduzione di Lucia Cucciarelli per Crocetti Editore)
 
24 marzo 1919
22 febbraio 2021
 

9 febbraio 2021

Remo e Tonino

Cara B., dedicato ad annonnu tuo, eccoti un brano scritto da Giuseppe Fanciulli dopo un soggiorno a Orani nel 1922

«Erano con noi due grilli grandi, Tonino Siotto e Remo Branca; amici fraterni, entusiasti di ogni cosa bella (sebbene tutt'e due studino giurisprudenza a Sassari) in vario modo: che Remo esplode in meravigliose girandole, e Tonino sembra lasciare all'amico la cura dell'esprimersi, mentre con brevi parole, più ancora con cenni risoluti e col fuoco degli occhi, sottolinea, approva, e conferma. E l'uno camminerà nella incantata via dell'arte; l'altro, che pure conosce il mondo e ha una cultura così fine, resterà a curare le sue terre intorno al paesello di Orani, per amore e per esempio; non sembrano, questi due ragazzi, simboli della loro forte razza, rami di un ceppo solo? Così li ho veduti, e così li ricordo: in fiore.
Siamo rientrati in paese verso il tramonto, nell'ora più cara. Orani è adagiato in una stretta piega dei poggi, giallognolo e bigio; ma solcato dai venti che passano di corsa per la valle. A vederlo di fuori, pare che l'abbiano scaricato dal bordo della alta strada maestra; e allora, si capisce, le viuzze, le case, le piazzette, si sono fatte posto come hanno potuto, conservando un certo aspetto di labirinto arruffato, che piace al forestiero sempre desideroso di perdersi un poco. Molte di quelle case, a un solo piano, sembrano fatte con le carte; ma hanno quasi tutte cortili fioriti, e pergole ombrose. Le finestre, come in molti paesi sardi, hanno un'inquadratura di bianca calce, e così sembrano guardarci con gli occhiali. La gente è fitta. Passando dinanzi a quelli che sulla soglia si godono il refrigerio della sera, Remo dice: "Su friscu", che è il miglior saluto; e voci gravi, voci chiare rispondono con lenta mansuetudine. E bambini, anche qui, quanti! Tutti belli, Dio li benedica, come granati maturi. Ci venivano dietro a frotte, appena scalpicciando scalzi, come foglie nell'ala del vento.
E di casa in casa abbiamo fatto varie visite, ammirando. A Orani si possono ancora vedere di quelle vecchie cassapanche scolpite, che oggi non si fanno più, e sono una meraviglia: la decorazione ha fregi originali, e mutevoli, ricchi di quel gusto che la tradizione matura. In una stanza terrena ho veduto, insieme con le cassapanche un vecchio telaio sardo. La tessitura a mano è ancora molto in uso, in Sardegna; le donne dei paesi filano con rocche dalla conocchia finemente intagliata, quasi a ricordare le bifore e le cuspidi dei campanili pisani; fanno i "rocchetti" con strumenti primitivi dalle ricche decorazioni; e poi tessono l'orbace in telai assai più piccoli di quelli che un volta si usavano in Toscana (la mia nonna tesseva), telai che sembrano meglio dominati dalla tessitrice, e per questo ancor più domestici.
Qualcuno raccoglie le antiche tradizioni di bellezza, e risale ad esprimerle per tutti, in forme nuove.
Orani ha i suoi artisti. Mario Delitala, già noto in continente, è uno dei giovani pittori sardi meglio dotati; la sua casa, che ci fu tanto cortese, ha intere stanze da lui decorate, e mirabili opere. Ma ho dovuto stupire incontrando un artista che fa il calzolaio. Sicuro; Paolo Cosseddu, calzolaio, dedica tutto il suo tempo libero al devoto esercizio dell'arte. Non ha mai studiato disegno, non possiede strumenti, non ha avuto incoraggiamenti; e intaglia zucche — le belle zucche che son borraccia al pastore e al viandante — bastoni, còfani con un gusto meraviglioso; ha costruito un grande tabernacolo, di perfetta architettura, e un carro sardo graziosissimo. Rimpiange, tuttavia, di non aver mai studiato; e guarda il suo bambino per scoprire se affiora una vena d'artista... e se appena c'è, questa vena, oh lui studierà, non dubitate!
Di porta in porta, abbiamo fatto sosta anche nella casa che, tanti anni addietro, aveva ospitato Vamba; vi immaginate la nostra commozione nel parlare di Lui con chi ancora lo ricordava, fra le mura che lo avevano veduto? E il prof. Chironi, l'ispettore scolastico che ha uno spirito così poco scolastico e così arguto, ci riportava vicini quei giorni, ristabilendo inaspettatamente una nuova continuità col pensiero di Lui.
A sera, avessimo salito il monte, o fatto sosta alla vigna tutta verde e viola nella cornice argentea degli olivi, o fossimo rimasti in altre case a veder cose belle e antiche, a udire parole sagge e cortesi, tornavamo alla "casa nostra" con indicibile soddisfazione. Ci aspettava l'ospite: il cavaliere Pietro Paolo Siotto, un signore che porta i suoi settant'anni con eleganza (non potrei trovare un'altra parola), dritto e agile nel suo bel costume nero e bianca, parlatore colorito e acuto, cuor d'oro che scintilla nella fiera purezza dello sguardo. La sua casa, custodita da due donne silenziose, sorridenti e attente, è davvero "la casa". Si sentiva che fra quelle pareti massicce confluivano, come per naturale tributo, i doni della terra e delle anime. Tutte le cose buone della terra: frutta e erbe, pane e latte, vini ardenti e carni opime; tutti i buoni mòti delle anime: la fedeltà dei servi, la cordialità degli amici, il ricordo dei trapassati, e acceso su tutto, l'affetto del vecchio signore e del giovane nipote, che mi faceva pensare alla propensione della vite nodosa per il suo fresco tralcio.
In cima alla casa, alta come una torre, si apre una terrazza: vi abbiamo indugiato a mirare i grappoli di stelle. Orani, che non ha illuminazione, biancheggiava appena, lì sotto, nel buio: e dalla bocca di un forno si diffondeva una vampa rossa.»

(Grazie con con tutto il cuore al mio amico Angelino Mereu.)

28 gennaio 2021

Anne Frank House, 2018

Con la video installazione "Anne Frank House", datata 2018, che ho potuto vedere con mia figlia durante una visita al museo Hamburger Bahnof di Berlino nel novembre del 2019, l'artista Simon Fujiwara propone Anna Frank come una figura iperreale, basata sulla mescolanza della sua immagine così come viene comunemente proposta. L'artista ricrea un'iconografia congelata nel tempo della scrittura del famoso diario, investigandola invadentemente con il braccio della telecamera, a sua volta ritratto. 
Fujiwara è stato ispirato dal modo in cui i visitatori del Madame Tussaud – il museo delle cere di Berlino – interagiscono con la figura di Anna Frank, e la sua è un'opera che provoca inquietudine, e anche a distanza di tempo, rivedendone le foto, ci interroga. 
Vi leggo una critica alla "memoria" come contemplazione spettacolarizzata del passato, e meno, invece, come esercizio costante, utile perché le atrocità che furono non si ripetano e perché il presente di oppressione dei diseredati di oggi non sfugga alla nostra coscienza. Ormai è assodato, infatti, che l'assenza di memoria coduce all'indifferenza e all'apatia, impedendo di cogliere il dolore dell'altro da sé. Dobbiamo ricordare per sapere che sta succedendo ancora.

27 gennaio 2021

Nelle maglie della storia

Berlino si è trovata a lungo impigliata nelle maglie della storia: culla di una rivoluzione, centro nevralgico del nazismo, distrutta dalle bombe, divisa in due e poi riunita. E tutto ciò solo nel XX secolo. Una città che non nasconde nulla e che di tutto conserva i segni nelle sue strade e monumenti, sicché se anche vorresti non vedere, vedi. Nulla omette e niente dimentica. Ti conduce nei punti piú atroci della sua storia e della storia mondiale anche quando stai lasciando mondi di bellezza e non vorresti più pensarci. Accade quando esci dal Gropius Bau, ad esempio: per andare dall'altra parte della strada ti costringe ad attraversare l'area esterna della Topografia del Terrore. E accade in diversi punti lasciando il meraviglioso parco Tiengarten, e chissà dove altro ancora. Io ci sono andata per scelta in cerca di queste tracce, con Giulia, consapevolmente, come si dice: al Memoriale per le vittime della Shoah, al Museo ebraico. Non ho scattato fotografie, ancora per scelta, eccetto queste tre che pubblico. Ho scattato in particolari istanti, per reagire al disagio fisico volutamente provocato dalle architetture.

"Affrontare l’Inimmaginabile della Shoah vuol dire rapportarsi a immagini frammentate, precarie, clandestine, eppure resistenti, che ci giungono come testimonianza di un evento che lascia attoniti. Quelle immagini rivelano un grande potere evocativo proprio in virtù della loro incompletezza. Ci dicono di più, però, se ne accettiamo il limite, su cui converge anche il limite dello sguardo. Si tratta di cogliere in esse ciò che non è dato vedere. Là dove non è più sufficiente un’analisi formale delle immagini, si impone la capacità del nostro sguardo di connettersi a un controcampo immaginario, invisibile e irrappresentabile. Su questo vuoto si fonda una più attuale esperienza della visione".
Da "L'Inimmaginabile della Shoah" di Iaia Perrelli, Doppiozero, 27 gennaio 2021.

25 gennaio 2021

Virginia critica

Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione "io amo", "io odio", "io soffro". La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma non c'è "io" in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C'è l'amore, ma non è l'amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L'impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. […] Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far parlare il vento e ruggire il tuono.
 

Liliana Rampello [a cura di] Virginia Woolf. Voltando pagina, traduzioni di Adriana Bottini, Livio Bacchi Wilcock, Daniela Daniele [et al.], Il Saggiatore, Milano 2011; pp. 202-203.

 

 

19 gennaio 2021

Càstia

La casa di campagna ce l'ho da oltre vent'anni, l'ho messa su a Crannicosa con i soldi della liquidazione che mi ha dato, non volentieri, il giornale dove ho lavorato tutta la vita, bene, sino agli ultimi anni, pessimi. È sorta dove mio nonno aveva l'ovile per capre, pecore e qualche mucca. Verso oriente vedo il nuraghe dell'Orco e l'acropoli di S'Argidda, da lì escono il sole e la luna che poi vanno a finire dietro Santa Vittoria, a ovest. …

Giacomo Mameli, Castia. Cronache da un paese di pietre, [con illustrazioni di Lorenzo Vacca], Villanova Monteleone, Soter 2020, p. 70.