Sono d’accordo sul fatto che dobbiamo abbeverarci a un immaginario americano, o francese, o di altre parti del mondo, ma questo non deve portarci a dimenticare noi stessi. Anche noi possiamo raccontare le nostre storie.
Sergio Atzeni, da un’intervista rilasciata a Gigliola Sulis nel 1994.
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Sergio Atzeni, da un’intervista rilasciata a Gigliola Sulis nel 1994.
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Unitamente agli evergreen di Deledda, i romanzi di Ledda e Satta ancora oggi veicolano in tutto il mondo l’immagine letteraria dell’isola. Oltre al perdurante fascino evocativo del film dei Taviani per Ledda, si veda per Satta la famosa recensione a Il giorno del giudizio di George Steiner (1987). Il giudizio secondo cui con questi romanzi «una Sardegna gravata dall’ambiguo fascino dell’astoricità viene riproposta dai mass media al pubblico italiano», come «tributo che il libro di autore sardo deve pagare alle regole di circolazione dell’industria culturale» (Contini 1982, p. 52) ha forse un’eco nelle strategie editoriali degli anni duemila, per esempio nelle preferenze per la Sardegna barbaricina arcaicazzante di Salvatore Niffoi – strategie significative anche ove prescindano dalle intenzioni d’autore.
Gigliola Sulis, «Anche noi possiamo raccontare le nostre storie». Narrativa in Sardegna, 1984-2015 in La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, a cura di Luciano Marrocu, Francesco Bachis, Valeria Deplano, Donzelli, Roma 2015, p. 537.
Gigliola Sulis, «Anche noi possiamo raccontare le nostre storie». Narrativa in Sardegna, 1984-2015 in La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, a cura di Luciano Marrocu, Francesco Bachis, Valeria Deplano, Donzelli, Roma 2015, p. 537.
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Io dico che fintanto staremo a contemplare il nostro raccontare e non, più semplicemente, agiremo il racconto sentendoci liberi – che significa prima di ogni altra cosa rispetto delle individualità di ciascuno/a e di tutti – non ne usciamo. È, appunto, una questione di libertà, e più concretamente del sentirsi liberi e sicuri nel e del proprio immaginario, nei propri gusti e interessi, nelle scelte degli oggetti e soggetti e spazi e idee del racconto, nella propria lingua. Sicuri e sicure della propria identità complessa, in qualsiasi modo la si voglia interpretare, prima ancora che raccontando, vivendo.
Io dico che fintanto staremo a contemplare il nostro raccontare e non, più semplicemente, agiremo il racconto sentendoci liberi – che significa prima di ogni altra cosa rispetto delle individualità di ciascuno/a e di tutti – non ne usciamo. È, appunto, una questione di libertà, e più concretamente del sentirsi liberi e sicuri nel e del proprio immaginario, nei propri gusti e interessi, nelle scelte degli oggetti e soggetti e spazi e idee del racconto, nella propria lingua. Sicuri e sicure della propria identità complessa, in qualsiasi modo la si voglia interpretare, prima ancora che raccontando, vivendo.
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