Lo vede dall'alto, come lo aveva visto allora, e anche la porzione è quasi identica; vede l'aereo in linea di decollo all'inizio del campo e si chiede, come si era chiesto allora, se ciò che aveva pensato da diversi giorni si può fare, se non è un po' troppo scendere di quota con un otto largo all'orizzonte, presentarsi sul campo bassissimo e passargli veloce; vede il terreno che scorre rapido sotto e poi la fila d'alberi e poi l'aereo sulla sinistra, appena staccato da terra e subito di nuovo giù; vede il Giura che si avvicina, e per un attimo gli sembra di non farcela, finché non sente la cresta sotto di sé. Vede il giovane che lo aspetta, prima in mezzo al campo con le braccia conserte, e poi sulla piazzola; lo vede fare un passo avanti, alto com'è, con le sopracciglia lunghe, circonflesse, e immagina già cosa pensa. Vede Pietro Brahe in una bolla di plexiglass contro un cielo artico, vede un tedesco biondo in un'altra bolla che gli parla con l'alfabeto muto; vede un cinese che si ferma a Ginevra tra un aereo e l'altro per regolare una questione di centimetri, seccato che qualcuno gli faccia storie, e quando si accorge che il rumore di fondo è stato ricucito la cosa gli piace, gli piace che il giovane che ha davanti si sia permesso di imbrogliare uno come lui, gli sembra così ci sia una continuità, e che tutto possa andare avanti. Vede Gilda che accosta una porta con le mani dietro la schiena, vede Brahe che si sfiora un sopracciglo; li vede entrambi che dormono, lei col viso nell'ascella di lui, lui col naso vicino al suo orecchio; vede la donna che al buio, in un castello, dove ormai si orizzonta benissimo, si accorge che una finestra è stata aperta, e dice al figlio: «Ti avevo raccomandato di non farlo»; vede Brahe e Rüdiger e un uomo più anziano, vestito in un modo molto colorato, che risalgono in superficie da un acceleratore dopo una notte cruciale, stupiti di essere fuori, usciti definitivamente dalle azioni e dai gesti e dalle emozioni di fino a poco fa, e si guardano senza parlare, per non rompere l’intimità di ciò che li ha legati; vede un editore che sale in macchina per Zurigo, ma al primo motel lungo la strada dice all’autista «Fermiaci qui», e in camera si sfila la cravatta e si stende sul letto senza togliere la coperta e cerca di ricordare, ma proprio bene, ma proprio nei dettagli, il luogo e l’ora e la luce e com’era lui stesso quando un giovane spilungone con gli occhi grigi, figlio di un cartografo tedesco e di una madre inglese, gli ha portato il suo primo manoscritto, e pensa che adesso non ce ne saranno più, e si chiede come mai, e mentre se lo chiede piano già si addormenta. E vede Brahe che nel sole basso del mattino, lo stesso sole che c’è fuori della galleria, taglia il Quai Gustave Ador saltando gli stop i semafori i vigili, in una guida davvero insolita per Ginevra, e guarda l’orologio sul cruscotto, e imballa il motore col piede metà sul freno e metà sull’acceleratore per non perdere nemmeno una frazione di secondo, e imbocca il piazzale contromano, e lascia la macchina nella fila dei taxi, e corre, alto com’è, sulla gomma scannellata della stazione, leggendo al volo il tabellone delle partenze, pensando già a dov’è il binario, ma all’incrocio con la galleria gli resta nella coda dell’occhio l’immagine di un uomo con i capelli bianchi fermo davanti a una vetrina, che guarda con le braccia conserte un plastico di treni elettrici, che ha visto tutto questo e che in questo istante, nell’istante stesso in cui Brahe gli si para davanti col fiatone, smette di vederlo.
«Credevo che non sarei mai arrivato in tempo».
«C’è ancora qualche minuto».
«Ho sentito la radio».
«Anche per te ci sono novità».
«È una giornata di molte novità».
«Bene».
«E adesso?»
«Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova».
«E questa?»
«Questa è finita».
«Finita finita».
«La scriverà qualcuno?»
«Non so. Penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento».
Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Einaudi, Torino 1985, pp. 150-152.
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