Giacomo Mameli ha sempre
dedicato un'attenzione fuori dal comune al mondo del lavoro
femminile, con stile giornalistico e letterario a un tempo. Nelle
cronache e nei libri mette in luce le esistenze concrete, quasi che,
sulle orme di Wittgenstein, voglia ricordarci che non bastano dati
freddi per comprendere i processi sociali, economici e culturali:
esistono atteggiamenti e valori determinanti che emergono solo
attraverso storie di vita. Storie non sempre facili da individuare e
comprendere, perciò, dato che si tratta di interpretarle, è
necessario avere doti di semiologo per proporre quelle maggiormente
"rappresentative" al fine di rivelare un mondo. Doti che
l'autore possiede. Osservatore storico del territorio, ha sempre
descritto con maestria paesaggi fisici e umani, arricchendoli di
toponimi locali, nomi e soprannomi, non
trascurando piante e animali, ma soprattutto ha raccontato i paesi,
spesso poveri di cose ma ricchi di storia.
Dedicato alle professioniste dell'isola è Donne sarde (2005) e in La ghianda è una ciliegia (2006) c'è una parte importante sulla fatica quotidiana delle donne contro la fame durante la seconda guerra mondiale. Ricordo la cernitrice di carbone dello struggente racconto “Italia è morta”, che di quel lavoro morirà; o “Le donne del rosmarino”, in cui l'anziana testimone racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la drammaticità, infatti, i racconti sono spesso venati di ironia, ossia di quella particolare leggerezza di cui sono capaci coloro che possiedono la virtù di spostare il proprio destino in una dimensione più abitabile, con le parole.
Con il volume da pochi giorni in libreria, Le ragazze sono partite (CUEC, 2015), Mameli elegge Perdasdefogu a ossevatorio dell'emigrazione femminile sarda del dopoguerra, caratterizzata dalla prestazione di lavori di cura. Il racconto è composto coralmente nell’arco di più generazioni; le voci appartengono a donne molto giovani, spesso quasi bambine, tanto forti quanto coraggiose: Pietrina, innanzittutto, che tiene l'ordito del racconto, poi Clelia, Giovanna, Erminia, Cecilia, Silvana, Carrula, Elena, Delia, Odilia, Secondina, Cichedda, Giuanna e tante altre. Scrive Mameli: «Nell'isola e altrove per il lavoro femminile non c'era posto. La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi», così la Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio. «Il lavoro è sostantivo maschile». Anche in Sardegna, in quegli anni del dopoguerra, «c'erano state le miniere, e anche quelle erano soprattutto per i maschi, che ci morivano di tumore nero [...] Cominciavano a sorgere anche le ciminiere della petrolchimica. A Portotorres tremila tute blu, nemmeno venti le ragazze. Idem a Ottana e a Machiareddu. Vicino a Foghesu sorgeva la cartiera di Arbatax. A Sarroch la raffineria per rifornire di benzina le macchine. Tutte quelle erano fabbriche per giovani e meno giovani che lasciavano il latte delle mammelle di pecore e capre per ungersi con i derivati del petrolio e della virgin nafta […] Per le ragazze la strada era un'altra e una sola: domestica. O serva». ...
Ragazze sarde a Roma, di Bastiana Madau (stralcio della recensione pubblicata nel mensile Lo Straniero, n. 181, luglio 2015).
Dedicato alle professioniste dell'isola è Donne sarde (2005) e in La ghianda è una ciliegia (2006) c'è una parte importante sulla fatica quotidiana delle donne contro la fame durante la seconda guerra mondiale. Ricordo la cernitrice di carbone dello struggente racconto “Italia è morta”, che di quel lavoro morirà; o “Le donne del rosmarino”, in cui l'anziana testimone racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la drammaticità, infatti, i racconti sono spesso venati di ironia, ossia di quella particolare leggerezza di cui sono capaci coloro che possiedono la virtù di spostare il proprio destino in una dimensione più abitabile, con le parole.
Con il volume da pochi giorni in libreria, Le ragazze sono partite (CUEC, 2015), Mameli elegge Perdasdefogu a ossevatorio dell'emigrazione femminile sarda del dopoguerra, caratterizzata dalla prestazione di lavori di cura. Il racconto è composto coralmente nell’arco di più generazioni; le voci appartengono a donne molto giovani, spesso quasi bambine, tanto forti quanto coraggiose: Pietrina, innanzittutto, che tiene l'ordito del racconto, poi Clelia, Giovanna, Erminia, Cecilia, Silvana, Carrula, Elena, Delia, Odilia, Secondina, Cichedda, Giuanna e tante altre. Scrive Mameli: «Nell'isola e altrove per il lavoro femminile non c'era posto. La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi», così la Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio. «Il lavoro è sostantivo maschile». Anche in Sardegna, in quegli anni del dopoguerra, «c'erano state le miniere, e anche quelle erano soprattutto per i maschi, che ci morivano di tumore nero [...] Cominciavano a sorgere anche le ciminiere della petrolchimica. A Portotorres tremila tute blu, nemmeno venti le ragazze. Idem a Ottana e a Machiareddu. Vicino a Foghesu sorgeva la cartiera di Arbatax. A Sarroch la raffineria per rifornire di benzina le macchine. Tutte quelle erano fabbriche per giovani e meno giovani che lasciavano il latte delle mammelle di pecore e capre per ungersi con i derivati del petrolio e della virgin nafta […] Per le ragazze la strada era un'altra e una sola: domestica. O serva». ...
Ragazze sarde a Roma, di Bastiana Madau (stralcio della recensione pubblicata nel mensile Lo Straniero, n. 181, luglio 2015).
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