31 ottobre 2010

Dopo Nada, un piccolo blues

"La prossima volta scrivi un noir", dissi qualche anno fa a uno scrittore di talento che tuttavia lamentava il proprio insuccesso, "scrivi un noir che racconti di una bella signora con i tacchi a spillo di vernice rossa,  che la trovano fatta a fettine come la mortadella in un parcheggio sotterraneo a pagina 1, e a pagina 7 fai fuori una vecchina sordo-muta, femmina mi raccomando, che le donne assassinate le recensiscono più dei maschi bombardati."
Be', sì, scherzavo. Ma sino a un certo punto. Perché la verità è che – se ora sembrano essersi data una calmata all'epoca (parlo di quattro, cinque anni fa), il modaiolo noir italiano andava per la maggiore. Tanto che nella manchette di qualsiasi altro genere di romanzo un romanzo non di genere, appunto potevi semplicemente scrivere "non è un noir", e tanto bastava a distinguerlo. Questo per dire che se non mi entusiasma il concetto è per il semplice motivo che la maggior parte dei romanzi che mi sono capitati tra le mani, nel lungo periodo del librificio noir, erano proprio brutti, costruiti con un'operazione di genere, e in quanto tali palesemente non necessari. Libri di mestiere. Ma i libri, sia chiaro, o sono belli o sono brutti, o sono stupidi o sono intelligenti. Inutile cucinarli su uno schema "semplice", solo perché lo si pensa come tale e tanto è richiesto dal mercato editoriale (che  in Italia ha lavorato alacremente per "semplificare" il gusto dei lettori, bisogna dirlo).
Ma com'è che dopo cotanto disamore per la letteratura di genere mi sono infatuata di Jean-Patrick Manchette? Non scrive noir, Manchette? Il fatto è che davvero, come è stato scritto, "Manchette sta al noir come Eschilo alla fantascienza"...

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