28 settembre 2010

Sono cariche

– Fermatevi, non sparate, le armi sono cariche!
E così venne espresso ciò che tutti sapevano col cuore, ma non volevano accettare con la mente. Una delle cinque pallottole della prima raffica aveva colpito le foglie dell'alloro di gesso sulla loggia, dove l'ultimo console sovietico di Kars, un quarto di secolo prima, guardava insieme al suo cane i film. Perché il curdo di Siirt che aveva sparato non voleva uccidere nessuno. Un'altra pallottola aveva colpito la ringhiera di legno nella parte posteriore della sala, proprio dove era sistemata la telecamera della trasmissione in diretta, su cui una volta si appoggiavano le ragazze armene povere e sognanti che con i biglietti economici assistevano in piedi agli spettacoli dei grupppi teatrali, degli acrobati e delle orchestre di musica da camera che venivano da Mosca. La quarta pallottola aveva bucato la spalliera di un sedile, in un angolo lontano dalla telecamera, e aveva colpito alla spalla il signor Muhittin, il venditore di pezzi di ricambio per trattori e strumenti agricoli, seduto dietro con la figlia e la cognata vedova. In un primo momento anche lui aveva creduto che gli fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto, come i pezzi di calce di poco prima, e aveva guardato verso l'alto. La quinta pallottola aveva frantumato la lente sinistra degli occhiali di un nonno che era venuto da Trebisonda a trovare il nipote che faceva il militare a Kars, seduto un po' dietro agli studenti filo-islamici, e gli era entrata nel cervello uccidendolo silenziosamente mentre stava per addormentarsi, senza fargli capire che stava morendo; poi gli era uscita dalla nuca e attraverso la spalliera del sedile era finita dentro un uovo sodo nel sacchetto del ragazzo che vendeva pane e uova, un bambino curdo di dodici anni che proprio in quel momento stava allungando degli spiccioli tra le file. /…/
Neanche il maggiore-ispettore aveva potuto stabilire dove fosse finita una delle palottole partite dalla quarta raffica. Una pallottola aveva ferito un giovane venditore venuto da Ankara a Kars per mettere sul mercato enciclopedie a rate e giochi di società (sarebbe morto due ore dopo per emorragia). Un'altra avrebbe fatto un buco enorme sul muro sotto la loggia privata, dove all'inizio del Novecento si sistemava con la sua famiglia in pelliccia, nelle serate in cui si davano spettacoli teatrali, Kirkor Çizmeciyan, un ricco armeno, commerciante di pellami. Secondo un'affermazione che lascia il tempo che trova, le altre due pallottole entrate in uno degli occhi verdi e nella fronte larga di Necip non l'avevano ucciso subito, e secondo quello che venne raccontato in seguito il giovane, guardando per un attimo il palcoscenico, aveva detto: – Ci vedo!

Orhan Pamuk, Neve, traduzione di Maria Bertolini e Şemsa Gezgin, Einaudi, Torino 2007, pp. 167-169.

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