21 dicembre 2015

Poc

Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. (Luigi Pirandello)
Antonello da Messina, Annunziata di Palermo, 1476 ca.,
Palermo, Palazzo Abatellis.

17 dicembre 2015

La parte che ama e basta o Un discorso sulla salvezza

"Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo. Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo. Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando. Che ama e basta, forse.
Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata."
Da un'intervista di Laura Miller a David Foster Wallace, 8 marzo 1996; traduzione di Martina Testa.

David Foster Wallace dice cose interessanti e, per quel che riguarda la mia esperienza come lettrice, giuste. Soltanto al termine di una narrazione che sento abbia ruotato intorno a un nucleo di verità umana, artistica, sociale, sperimentale, "ale", ecc. , frutto del disvelamento di una "dimensione speciale" (come la ha chiamata un amico con cui se n'è parlato, riferendosi a una dimensione artistica autentica), me ne sento arricchita. Più astrattamente, ho idea che i grandi scrittori non operino mai per abbagliare il lettore con esibizioni egocentrate, bensì, per riuscire a toccare anche il cuore e la mente altrui, scavino nella propria umanità, che è completamente un'altra cosa. E ci sono dei rischi personali, nel fare questo, ma sono anche rischi a cui un artista, con o senza apostrofo, oggi come sempre, probabilmente non può sottrarsi. E credo che noi possiamo essere in grado di leggere questa necessità, quando c'è, e, anzi, forse, di riuscire a coglierla e a empatizzarvi, quando c'è. Indirettamente, infatti, mi viene da pensare anche alla formazione (che non c'è) del lettore. Ed è lì che si alza la nebbia... Solo chi legge, ormai, può operare principi di individuazione dell'opera che ha qualche valore, nel mare magnum dell'attuale librificio, e arginare il rumore dei potenti uffici stampa che conducono a prodotti banalmente di consumo. Non accade, naturalmente, non accadrà. Ciò significa che l'attuale "doping della letteratura" (cito Filippo La Porta, Manuale di scrittura creatina. Per un antidoping della letteratura, Minimum Fax, 1999), cioè il fenomeno delle opere costruite a tavolino o "gonfiate" per il mercato, si presenta come un fenomeno inarrestabile. Pertanto non è più certo, come solitamente si dice, che a sopravvivere sino a essere tramandate ai posteri saranno le narrazioni non dopate, quelle universalmente necessarie. In tal senso, oggi meno che mai abbiamo certezze. Lo stesso discorso sulla "salvezza", se così si può chiamare, vale anche per le idee (che muovono i fatti), e, al limite, per le persone.

5 dicembre 2015

Los detectives de Jorge Luis Borges

Buenos Aires, Biblioteca Nacional de la República Argentina. 
Per tanti anni Germán Álvarez e Laura Rosato, due impiegati della Sala del Tesoro e dell'Archivio Istituzionale, hanno cercato nei labirinti sotterranei della biblioteca, tra migliaia e migliaia di libri e riviste, le tracce lasciate dallo scrittore che fu direttore dell'istituto dal 1955 al 1973.  Un'investigazione pazzesca, ma anche una detection che rivela quanto ne sia valsa la pena.
Nel 2010 la biblioteca ha pubblicato il primo volume di Borges, libros y lecturas, «catalogo che raccoglie la metà dei mille libri trovati da Rosato e Álvarez, una collezione superata solo dai tremila volumi della fondazione Borges. [...] Il catalogo riporta in ordine alfabetico i libri della collezione e la trascrizione degli appunti di Borges su ogni libro, e infine elenca i saggi e i testi narrativi in cui Borges riversò quelle letture. L'ultima fase di questo lavoro è cominciata nel 2005. Álvarez, incuriosito si chiedeva: "È possibile che Borges sia un grande plagiatore?". Non ci ha messo molto a capire di avere tra le mani la prova materiale di una tesi sempre sostenuta dalla critica: la letteratura di Jorge Luis Borges è una messa in scena intertestuale».
Cose che racconta (benissimo) Mónica Yemayel in I detective di Borges, lungo e approfondito articolo sull'appassionato lavoro di Germán Álvarez e Laura Rosato pubblicato in Internazionale 27 nov/3 dic 2015, n. 1130 - anno 23, pp. 68-72
Fonte immagini: Gatopardo

30 novembre 2015

فاطمة مرنيسي‎

"… Devi solo concentrarti su quel piccolo tondo di cielo che se ne sta sospeso sopra il pozzo. C’è sempre un pezzetto di cielo verso cui si può alzare la testa. Allora, non guardare in giù, guarda in alto, su, su, su, e ne verremo fuori! Prenderemo il volo!"
La terrazza proibita, traduzione dall'inglese di Rosa Rita D'Acquarita, Giunti, Firenze 1996, p. 162.
 Fatema Mernissi 
Fès, 1940 – Rabat, 30 novembre 2015
Oggi è morta la sociologa e raffinata studiosa nata a Fès 75 anni fa. Lo ha annunciato il suo editore italiano. Un lutto che non colpisce soltanto la cultura marocchina, bensì l'intera cultura del Mediterraneo: "la cultura libera", come ha scritto la giornalista Paola Caridi nel suo blog, che significativamente si chiama Invisible Arabs. 
Scoprii l'opera di Mernissi, tanti anni fa, con L'harem e l'Occidente, che mi aprì a un mondo critico al femminile sin lì sconosciuto e che ebbi subito il desiderio di approfondire. Cosa che feci nel tempo, traendone grande arricchimento umano, culturale e professionale. Le sono infinitamente grata.

25 novembre 2015

La strada che non presi

Due strade divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.

Poi presi l’altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l’aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.

Ed entrambe quella mattina erano lì uguali,
con foglie che nessun passo aveva annerito.

Oh, misi da parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un’altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io -
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.*


Robert Frost
 
Giacomo Balla, Il dubbio, 1907 
 * Mi scuso per non sapere il nome di chi ha tradotto: non sono riuscita a trovarlo. Sin qui ne conoscevo la traduzione di Giovanni Giudici, ma questa la preferisco. Peraltro è da tempo che, rileggendo la poesia, cercavo di mettere a fuoco un'immagine, ma anche quella l'ho cercata inutilmente: nella memoria, nei paesaggi italiani di Ghirri, nei campi giallli e nell'église blu di Van Gogh, nei sentieri che si biforcano di tanti fotogrammi... Sino a quando, stasera, un'amica la ha posata con grazia sul tavolo di cucina, insieme alla caraffa del tè. Ce l'aveva lei, io non lo sapevo.

Biscotti

È un po' il destino dei segni quello di rimandare ad altri segni, all'infinito, sino a vederne annacquato il significato originario (messicano, in questo caso, legato all'installazione di Elina Chauvet sulla strage delle donne e delle bambine di Ciudad Juarez); com'è anche un po' il loro destino quello di vedere proiettato arbitrariamente il loro senso originario in segni similari, alimentando grandi confusioni (ricordo, ad esempio, una ridicola petizione contro una pubblicità di scarpe rosse di un noto marchio del made in Italy, addittata per avere "espropriato" il simbolo della lotta contro il femminicidio nel fatto di propagandare delle calzature femminili di quel colore). I simboli aiutano a capire, a riconoscere subito di cosa si sta parlando (ma a volte anche no).
Comunque questi biscotti a forma di cuore finemente decorati con la glassa rossa sono molto carini. Ohibò.

17 novembre 2015

Fole di viaggio in ordine di arrivo

I sardi raccontati da chi li osserva dall'esterno, dagli “altri”, i non-sardi. Una prospettiva che a suo tempo appassionò Sergio Atzeni, attratto dallo studio delle “fole”, che lo scrittore provò a smontare in un libro uscito postumo con un titolo di presentazione programmatica: Raccontar fole (Sellerio, 1999). Interessante la lettera che presentava il testo al suo primo destinatario, l'allora direttore de “L'Unione Sarda” Massimo Loche: “Acclusa troverai la follia – descrizione della vita sarda a cavallo fra Sette e Ottocento, quando altrove si facevano Rivoluzione industriale e Rivoluzione Francese – costruita usando soltanto scrittori non sardi: italiani, tedeschi, francesi, inglesi. I sardi del passato non raccontati da se stessi ma da un occhio esterno: un po’ perché a quel tempo da sé non si raccontavano – chi scriveva preferiva inventare storie giudicali –, un po’ perché gli stranieri sono talvolta divertenti, un po’ perché l’occhio esterno vede con più freddezza, con meno affetto”.
L'attenzione verso gli elementi del vero e del falso nella descrizione della Sardegna ritorna oggi nel bel volume Viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna (Alfa Editrice, 2015) a opera dello storico della letteratura sarda Francesco Casula, che arriva in libreria subito dopo il varo di due preziosi tomi, a firma dello stesso autore, riuniti sotto il titolo Storia della letteratura e della civiltà in Sardegna, proseguendo, quindi, l'importante intrapresa dello studioso nella costruzione di compendi di taglio critico e didattico. Convince subito la sapiente struttura del libro: Casula presenta il singolo “viaggiatore”; espone il motivo del suo soggiorno nell'isola; riassume i punti salienti del resoconto di viaggio, mettendolo anche a confronto e in contraddizione con altri coevi; informa sui pareri critici di autorevoli analisti in merito ai resoconti dei viaggiatori (talvolta non concordanti, come nel caso, ad esempio, delle osservazioni di Giulio Angioni e Sergio Atzeni in merito alle descrizioni di Joseph Fuos in Notizie sulla Sardegna, edito a Lipsia nel 1780, tradotto e pubblicato in Italia nel 1899); espone, da storico, la sua analisi (sul “viaggiatore” citato, ed esempio, esordisce: “Certo è che Fuos scopre il contrasto tra un territorio bellissimo e dalle ricchezze inesauribili e le sue difficili condizioni sociali ed economiche...”); riporta tutte le edizioni e riedizioni dei singoli resoconti, nonché i titoli dei saggi che li riguardano, e l'insieme bibliografico è dato in maniera discorsiva nel corpo del testo, interno ai contenuti riguardanti le descrizioni dei viaggi, sicché pregio dell'opera è anche l'avere evitato un numero considerevole di note, senza nulla togliere alla profondità dello scavo; infine, propone significativi stralci di lettura del resoconto del “viaggiatore”, per cui il risultato è straordinariamente interessante anche per la varietà dello stile linguistico e letterario dei molteplici autori. ... [Continua aprendo il link] Bastiana Madau, I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna, Il manifesto sardo, 16 novembre 2016. 
Fonte immagine: La Sardegna di Thomas Ashby. Fotografie 1906-1912, Carlo Delfino, Sassari 2014.

13 novembre 2015

Tipi, stili, tipi-tiponi, tipi così così

«[In] quest'epoca che rimbomba dell'orribile sinfonia dei fatti che producono notizia e delle notizie che sono colpevoli dei fatti [...]. Nei regni della povertà della fantasia, dove l'uomo muore di carestia spirituale senza accorgersi della sua fame spirituale, dove le penne sono intinte nel sangue e le spade nell'inchiostro [...]. Chi ha qualcosa da dire si facciavantietaccia.» Così Karl Kraus, uno dei principali autori satirici e critici del linguaggio del XX secolo, citato da Alfonso Berardinelli nel saggio dal titolo “Tipi, stili, poteri intellettuali”, contenuto nel pamphlet recentemente pubblicato dall'editore Enrico Damiani 12 apostati, 12 critici dell'ideologia italiana. L'aforisma di Kraus rende bene l'idea su cui Filippo La Porta, curatore del volume, ha chiamato a riflettere 12 autori e autrici sul tema dell'attuale produzione editoriale italiana. Ciascuno di essi lo ha fatto con il proprio stile e da una particolare prospettiva, facendo emergere la generale assenza di testi intellettualmente “disturbanti” e piuttosto appiattiti sui fatti, con esiti consumabili e consumati nel giro di una stagione di mercato. I brevi saggi che compongono il volume sono scritti da Paolo Morelli, Guido Vitiello, Camilla Baresani, Matteo Marchesini, Massimo Onofri, Vittorio Giacopini, Daniela Ranieri, Silvia Perrella, Paolo Febbraro, Franca D’Agostini, Alfonso Berardinelli, Giuseppe Samonà, più il curatore Filippo La Porta. Particolarmente interessanti sono i saggi di Onofri – che tramite l'analisi di alcuni autori italiani di successo, si interroga su ciò che “la funzione D’Annunzio” continua a rappresentare, in relazione a ciò che chiama “dannunzianesimo degradato di massa, che di quella specie di «superuomo» rappresenta, forse, la declinazione più replicata” –, di Samonà – scrittore che ha ormai trascorso quasi tutta la vita all'estero e che propone una bella riflessione sul laboratorio “transnazionale e transculturale”, dove la lingua italiana si traduce e autotraduce in costante confronto con le altre lingue del mondo –, di Vitiello – che, a partire da un volume fotografico contenente 99 ritratti di scrittori e scrittrici italiani d'oggi, parla di una mera "fiera della vani", estranea, dunque, alla scrittura che lascia un segno. Insomma, 12 apostati 12 critici dell'ideologia italiana – insolito nella sua forma collettiva e, dunque, tutt'altro che uniforme in quanto a punti di vista – è un cahier de doléances che sta facendo discutere, a sua volta sottoposto a giudizi critici, in quanto non esente da qualche eccesso di saccenza. D'altra parte, visto il progetto rivelato già nel titolo, se non facesse discutere si rivelerebbe come un libro inutile, no? Leggetelo.
Bastiana Madau

10 novembre 2015

Da qualche tempo

[Da qualche tempo, quando capita di rileggerla, mi domando se Borges, oggi, avrebbe riscritto l'ultimo verso...]

Los Justos

Un hombre que cultiva un jardín, como quería Voltaire.
El que agradece que en la tierra haya música.
El que descubre con placer una etimología.
Dos empleados que en un café del Sur juegan un silencioso ajedrez.
El ceramista que premedita un color y una forma.
Un tipógrafo que compone bien esta página, que tal vez no le agrada.
Una mujer y un hombre que leen los tercetos finales de cierto canto.
El que acaricia a un animal dormido.
El que justifica o quiere justificar un mal que le han hecho.
El que agradece que en la tierra haya Stevenson.
El que prefiere que los otros tengan razón.
Esas personas, que se ignoran, están salvando el mundo.


Fotogramma da Le fiamme di Nule (2010) di Carolina Melis

4 novembre 2015

A la cinco de la tarde

Mannaggia, ho già gli incubi; così il mio Hal 9000 la prima notte del ritorno al social, dopo tanti mesi d'assenza: "Disattivare account... Allerta: disattivare account...". Mumble. E se la gente riprendesse a scriversi lunghe e-mail e a incontrarsi per un tè a las cinco de la tarde? Ma anche no. E magari solo incontrarsi per caso e sedersi a perdere tempo al tavolo del primo caffè sotto tiro, o, più semplicemente, naturalmente, accettare viaggi senza ritorno: andarsene, scomparire. (Ciao core.)

3 novembre 2015

Vince Uollì

Ho rivisto "Cosa sono le nuvole?" di Pier paolo Pasolini, uno dei 6 episodi diretti da diversi registi che compongono il film Capriccio all'italiana, del 1968Getaway! di Sam Peckinpah, del '72; Wall.e, noto lungometraggio d'animazione del 2008, realizzato da Pixar Animation Studios in coproduzione con Walt Disney Pictures. E niente, riflettevo su quanto sia incredibilmente videogenica una discarica di rifiuti. Solo questa, naturalmente, rappresenta il comune denominatore dei film citati, ma ciò basta a tenere indissolubilmente legate, nella mia memoria, tre visioni diversissime. 
Naturalmente vince Uollì.

2 novembre 2015

In forma di rosa, in forma di nuvola


Io  me ne starò là, 
qual è colui che suo dannaggio sogna
sulle rive del  mare
in cui ricomincia la vita.
Solo, o quasi, sul vecchio litorale
tra i ruderi di antiche civiltà,
Ravenna, Ostia, o Bombay – è uguale –
con Dei che si scrostano, problemi vecchi
– quale la lotta di  classe –
che
si dissolvono…
 

1 novembre 2015

Eravamo d'accordo

«Fuori dall'Italia, insomma, ho passato oramai più della metà della mia vita […] e l'ho amato, quel fuori, di un amore intenso, l'ho fatto mio dentro, pur via via convincendomi che nessun luogo, tanto meno quello in cui per caso son nato, Roma, era mio, o meglio, che tutti i luoghi lo erano, e anzi quelli del fuori diventato dentro più del mio dentro originario, proprio perché in qualche modo eletti, scelti. Che vuol dire sentirsi italiani all'interno di un tale itinerario?
La lingua, e più particolarmente come la si scrive. […]
Mischiando Ortega y Gasset e Proust, aggiungo: non c'è miglior scuola di scrittura che quella di doversi giostrare, per vivere, tradursi, fra diverse lingue; o ancor più radicalmente: sempre, al di là e contro ogni retorica della – inesistente – purezza, l'estraniamento agisce al cuore di chiunque pensa e scrive, anche dentro la propria lingua: sempre strappiamo senso, traduciamo, reinventiamo una lingua a partire da un'altra, anche se per ventura lavoriamo con una soltanto. Ed è un lavoro mai finito.»
Giuseppe Samonà, 12 apostati 12 critici dell'ideologia italiana, Enrico Damiani Editore, [s.l.] 2015, pp. 111-112.

«Eravamo d’accordo perché le lingue perdano il loro orgoglio ed entrino nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che li rendono disponibili a tutte le lingue del mondo: eravamo d’accordo perché una traduzione non sia una chiarificazione, ma diventi la messa a disposizione di un elemento nella diversità del mondo in una lingua che la accolga. Eravamo d’accordo perché una traduzione non vada da una pura a un’altra lingua pura, ma organizzi l’appetito reciproco delle lingue nell’ossigeno impetuoso del linguaggio. Eravamo d’accordo perché una traduzione non tema più l’intraducibile, ma annoveri e fecondi tutti gli intraducibili possibili. Eravamo d’accordo perché una traduzione onori anzitutto l’irriducibile opacità di ogni testo letterario; perché, in questo mondo che ha infine una possibilità di risvegliarsi, il traduttore diventi il pastore della Diversità. Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di diversità. Egli capiva ciò che io dicevo. Lo sapeva già.»
Patrick Chamoiseau, Pour Sergio, in La grotta della vipera, n. 72/73, 1995, pp. 22-23.

31 ottobre 2015

Il senso di smile per i puntini

"[In] quest'epoca che rimbomba dell'orribile sinfonia dei fatti che producono notizia e delle notizie che sono colpevoli dei fatti [...]. Nei regni della povertà della fantasia, dove l'uomo muore di carestia spirituale senza accorgersi della sua fame spirituale, dove le penne sono intinte nel sangue e le spade nell'inchiostro [...]. Chi ha qualcosa da dire si facciavantietaccia"

25 ottobre 2015

Ritorno ad Atzeni

E ritorno con gioia, per preparare una lezione da tenere di fronte a un pubblico che mi sembra molto, molto motivato. La rilettura critica mi ha portato a fare anche nuove scoperte. E c'è uno scritto, per me sin qui inedito, che mi ha colpito, per motivi riguardanti altri autori e altri libri e, dunque, su una situazione che continua a ripetersi ab aeterno, e che di volta in volta viene affrontata dai singoli con più o meno stile. Ma di questo scriverò in altra sede.

«Un altro fatto inoppugnabile, il più incontestabile, sono i suoi libri – che sono libri di un grande scrittore (non so quanto grande, lo sapremo tra qualche tempo), ma grande abbastanza, come so dopo aver letto Il figlio di Bakunìn, da rendere legittima questa conclusione: quanto siano futili il pianto e la recriminazione che costantemente si levano dalla microsocietà letteraria (da questa corporazione piagnona come tante altre). Come si possono accusare di insensibilità gli altri, i lettori, se i primi a non accorgersi di nulla sono gli scrittori stessi, i letterati? Essi non si accorgono che dei successi (altrui) e dei fallimenti (propri). Imprecano contro chi legge, perché non legge; e contro chi pubblica, perché pubblica troppo o troppo poco – senza rendersi conto di quanto più culturalmente avanzata, rispetto alla maggior parte della letteratura, sia l’industria di cui essa va a rimorchio.»
Franco Cordelli, “Il 'Quinto passo' fatale”, L’Indipendente, 17-18 settembre 1995; sta in: Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, a cura di Giuseppe Marci e Gigliola Sulis, Cuec, Cagliari 2001, p. 15.

26 settembre 2015

Necessità, orizzonte

[Leggendo Le ragazze sono partite, un bellissimo libro di Giacomo Mameli derivato da una raccolta di fonti orali, con una buona struttura narrativa, che affronta il tema dell'emigrazione femminile sarda nel dopoguerra.]
L'immagine delle ragazze che, soprattutto a partire dal '45, lasciano i piccoli borghi natii dell'isola e si incontrano prima sul treno, poi sulla nave e poi ancora sul treno, mi evoca gli uomini e le donne in cammino dei romanzi di Saramago. Tantissimi, insieme, chi a piedi, chi su un carro. Non si conoscono, prima di incamminarsi, si conosceranno camminando insieme [omaggio ad A.]. Ma le moltidudini in viaggio non sono soltanto dei romanzi, come sappiamo, e non sono soltanto di ieri: pensiamo all'oggi, a quei viaggi a volte simili a deportazioni, e non dimentichiamo mai di illuminarli con la nostra capacità di leggerli con tutta l'umanità che ci è rimasta. Nessuno viaggia per viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa anche essere, forse, soltanto e ancora quella del viaggio: chi può affermare che nel corpo di quel ragazzo di vent'anni (presumibilmente...) o di quella ragazzina di 16 (...) trovati morti in mare non fosse racchiuso anche un "sogno"?... Ma anch'io mi soffermo innanzittutto sulla necessità primaria, perché la divagazione sul tema del viaggio porta troppo lontano: al discorso sulla libertà della scoperta, ad esempio, al bisogno naturale di allargare il proprio orizzonte, e, dunque, al discorso sulla libertà, che via via, forse senza che ne siamo totalmente consapevoli, oggi è diventato un lusso proibito, tanto da apparire addirittura "reazionario"... 
Così, per quanto riguarda l'influenza dell'antico bisogno umano di viaggiare nella decisione di emigrare, è senz'altro più opportuno ricordare la lezione di Nereide Rudas (L'emigrazione sarda, 1974), accolta anche da Maria Luisa Gentileschi in Il bilancio migratorio, pubblicato nel 1978. Entrambe le studiose osservano che se da un lato è corretto tenere conto che nel processo emigratorio confluiscono componenti psicologiche e sociali, dall'altro è giusto riaffermare che non per questo l’emigrazione sia un atto di libera scelta. Pertanto è giusto che si riconosca nella situazione di base della migrante o del migrante un bisogno "aperto", ma se anche tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica resta il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo in ultima analisi, al migrante o alla migrante di autorealizzarsi nel proprio luogo di origine.

Concretamente, per stare al libro che mi ha spinto a scrivere questo post, cos'è che ha spinto tante, tantissime giovani donne, a volte ancora bambine (coraggiosissime bambine), a varcare per la prima volta il mare, lasciando i paesi dell'infanzia e la propria famiglia? Scrive Mameli, a p. 68: «Nell'isola e altrove, in Abbruzzo e in Sicilia per il lavoro femminile non c'era posto». La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi; così gli pneumatici della Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio, e così anche le miniere sarde di carbone, «dove i maschi morivano di tumore nero. [...] Il lavoro è sostantivo maschile»: le donne sarde e le altre sparse nel Sud erano destinate solo ai fornelli e a lavare panni, quasi sempre senza compenso quando se ne restavano nei paesi di nascita. «Fatica dovuta, scritta nei libri sacri. Solo per poche figlie di ricchi c'era una cattedra in qualche scuola. Le figlie dei poveri – se volevano vedere soldi – dovevano solo partire. E le ragazze partivano. I paesini restavano vuoti.»

Perché partono, innanzittutto, le ragazze di cui parla questo libro? 
Partono perché sono povere. 
Cosa "sognano" le ragazze dei racconti reali tessuti in questo libro? 
Vogliono guadagnare il denaro che gli consenta di aiutare la famiglia: aggiustare il tetto della casa natale, aiutare un fratello a rifarsi un gregge rubato, sfamare e vestire le sorelle più piccole, poter curare un familiare malato, aiutare la famiglia a uscire da situazioni di indigenza o quasi. Ma ambiscono anche a fare una vita diversa, a conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a crescere libere, a emanciparsi, andando a fare le serve in terra anzena
Sembra un paradosso, vero? Non lo è, o almeno, dagli esiti spesso edificanti della loro emigrazione, di cui nel libro sempre si dà conto, non lo è stato. 
Ciò detto, cosa vanno a fare le ragazze in città? Vanno a servire in casa delle famiglie benestanti, cioè a fare le tzeràccas. E quando va meglio, cioè quando sono trattate civilmente e non accolte subito con “tu sei la mia serva”, come accade a Pietrina, cosa vanno a fare? Vanno a fare le domestiche. Da tzeràccas – parola sarda che deriva dal greco antico, e significa serva – all'italiano domestica, che a sua volta viene dal latino domo, e dice di colei che si prende cura della casa e, dunque di chi la abita; e nelle due differenti parole per designare sostanzialmente la stessa attività, c'è una mobilità di suono, ma anche di senso, che in primis passa nella muta richiesta di rispetto del proprio lavoro. 
Dunque vanno a lavorare come come collaboratrici famigliari o colf, come si direbbe oggi, a casa di gente ricca e anonima, o anche in case importanti: Giovanna Maretta, ad esempio, che aprì la strada dell'emigrazione femminile a Perdasdefoghu, suo paese natale, partì nel 1917, a 14 anni, e rientrò nel 1945. Lavorò nella casa romana di Edda Ciano, la moglie del ministro Galeazzo Ciano, genero di Benito Mussolini, «per questo, sbagliando di grosso – scrive Mameli –, al paese la chiamavano sa seràcca de Mussolini». Ma erano le malelingue ad appellarla in quel modo, perché Maretta, tornata al paese signora», in realtà era anche un po' invidiata, perché era cambiata, era diversa, e il contrasto con le ragazze che erano rimaste lì era troppo evidente. Portava la sciarpa di seta, lunghe collane, il rossetto, mentre le altre ragazze di Foghesu avevano lo scialle color caffé e rossetto «mai visto». 

Delia, della seconda ondata migratoria femminile, parte per Roma nel 1968, ha 15 anni appena compiuti, aveva appena ultimato le scuole medie, le piaceva studiare, le piaceva il teatro, era intelligentissima e curiosa, tant'è che pure così piccola e piena di malinconia (i primi giorni piangeva sempre e pensava ai genitori rimasti soli, seduti davanti al camino «con pochi legnetti») restò incantata dalla parlata italiana, ed ebbe anche fortuna: trovò lavoro come baby sitter presso i Kezich-De Manzolin, ossia a casa del già affermato critico cinematografico Tullio Kezich, dove fu rispettata e anche voluta bene, come se ne può e se ne deve volere a una ragazzina. Era poco più di una bambina, infatti, e quei signori, che evidentemente erano persone per bene, si presero a loro volta cura di Delia, facendole intraprendere anche un persorso di crescita personale: patente a 18 anni, corso di stenodattilografia, Kezich che le fa battere a macchina i suoi articoli sul cinema destinati al Corriere della Sera. Tant'è che, quando Delia trova un vero e proprio lavoro in un centro meccanografico, continua a vivere in casa dei Kezich; esce alle sette e mezza del mattino, rientra alle cinque del pomeriggio, e a partire da quell'ora sta con il piccolo Giovanni. Poi arrivò il lavoro in banca, uno stipendio vero, i progetti per un vero futuro...

C'è la storia di Francesca Zou, alias Cichedda di Nughedu San Nicolò, alunna di una maestra degna rappresentante di quella che Albino Bernardini in quegli stessi anni battezzò come La scuola nemica: veniva infatti puntualmente pestata in classe. Così, dall'età di sette anni, Cichedda preferisce fare le commissioni in casa di Cicìta Tanda, e poi serva malpagata, sino a quando, informata che i bigliettoni rossi da diecimila lire si potevano trovare solo varcando il mare, decide di partire. E Parte. Tra l'altro è una delle rare ragazze che lo fa con una valigia vera (un topos dell'emigrazione che Mameli non trascura di descrivere), comprata in una merceria di Ozieri. Le altre ragazze del libro, alla partenza, solitamente mettevano quel minimo di abbigliamento e biancheria posseduti dentro una federa bianca, insieme a un po' di pane e formaggio per il lungo viaggio. Cichedda ebbe un'esperienza di lavoro anche interessante sotto il profilo dell'arricchimento culturale, perché conobbe il mondo del cinema romano di quegli anni strepitosi per il cinema italiano: il figlio dei suoi datori di lavoro era stato scelto a far parte di un cast fortuitamente, mentre si trovava a passeggio con Cichedda il un parco della città , e quindi la ragazza prese ad accompagnare il piccolo Valerio a Cinecittà, dove Monicelli girava Deserto rosso... 

Toccante la storia di Carrùla, serva nelle campagne tra l’Ogliastra e il Sarrabus dall’età di otto anni …

Curiosa la storia di Cecilia Melis, domestica a Cagliari dall'età di 12 anni, che emigra a Roma per lavorare in casa di De Quirico. Ma naturalmente non sa chi sia, e raccontando di sé alle compagne che incontrava nelle ore libere alla stazione Termini (ribatezzata dalle emigrate "Stazione Sardegna") diceva di prestare servizio «a casa di un vecchio che dipinge»...
Sophie Calle, Voir la mer, 2011

19 settembre 2015

La grande casa

Era tornata a Nascar spinta dai fantasmi che le erano rimasti sempre accanto, nonostante la lontananza dalla terra che li aveva generati; guardarli in faccia avrebbe fatto meno paura, pensava: li avrebbe addomesticati.
Così ora saliva con circospezione le scale della grande casa, ritrovando frammenti di sé, meravigliandosi del proprio stupore.
Sentiva la suggestione del tempo raccolto, dilatato dal silenzio, mentre i pensieri fluivano piano e calmi.
Respirava l'aria gelida delle stanze.

Nelle pareti i pochi quadri e le tante vecchie foto incorniciate evocavano ricordi, scavavano cunicoli, trovavano acque carsiche.
Squarci.
Quando sentì arrivare l'antica vertigine aprì con forza la grande finestra del terzo piano. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo l'intero borgo, esclusa la parte a ovest, con la collina sventrata dalle cave di steatite.
E da lassù vedeva correre il labirinto dei vicoli, e i tetti e i campanili di tredici chiese.
Al limite del borgo si alzavano le pareti delle colline che avevano linee come grandi rilievi caucasici.
Ombre e sassi, erba e cielo.
Si faceva trasportare dal sogno cogliendo piccole meraviglie tra le cose conosciute, come se le vedesse per la prima volta. Ma c'era qualcosa che quasi metteva paura. I paesaggi solcati dai muretti di pietra, le macchie, i monti dai profili d'inferno, l'aria fredda, il profumo dei venti, i cobalti del cielo, le voci spagnole.
Scese per strada per riuscire a fermare la vertigine.

Passi.
Visi bellissimi.
Il suono dolce, talvolta un po’ brusco, del saluto.
– Qui sei?
– (Credo di sì…)
– Bentornata.

Bastiana Madau, Nascar, Poliedro, Nuoro 2003, pp. 65-66.
Luigi Ghirri, 1987 (Fototeca Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia) 

6 settembre 2015

Seneghe — in ricordo del Capudanne de sos poetas, edizione 2015


Gretel

gli anni in cui non fiuto il tuo odore
la vita puzza
la luce taglia i volti di netto

anni a guardarti da fuori – da dentro
la bolla del lutto

ma anche è una dura osservanza
il tuo culto

ma è anche da matti resistere
nel tuo vero odore squisito

da matti abitare
nel tuo marzapane celeste


Stefania Portaccio

5 settembre 2015

Nessuno può fermarlo

Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile. 
Passavamo sulla terra leggeri, p.78.
(Ricordando Sergio Atzeni [Capoterra, 14 ottobre 1952 – Carloforte, 6 settembre 1995] a vent'anni dalla sua scomparsa.)

1 settembre 2015

Il nord, la volontà, la speranza – paesi senza frontiere

Gli anni, i secoli e le epoche che si susseguono,
Tutto si precipita verso il caldo, lontano dai geli e dalle tormente.
Perché gli uccelli volano verso il Nord
Se a loro è destinato solo il Sud?

Non hanno bisogno né di gloria né di grandezza.
Ecco, sotto le ali finirà il ghiaccio
E troveranno la felicità di uccelli,
Ricompensa del volo audace.

Non siamo riusciti né a vivere, né a dormire?
Cosa ci ha spinto verso la cresta dell’onda?
Non abbiamo potuto ancora contemplare la luce.
La luce non ha prezzo!

Silenzio. Solo i gabbiani sono come bagliori.
Le nostre mani li nutrono di vuoto.
Ma la nostra ricompensa per il silenzio
Sarà necessariamente il suono.

Da tempo abbiamo solo sogni bianchi,
Tutte le altre sfumature le hanno spazzate via le nevi.
Siamo rimasti accecati è buio da tanto biancore.
La linea nera della terra ci restituisce la vista.

Dalla nostra gola scaturisce il silenzio,
La nostra debolezza cresce come un’ombra.
E la ricompensa per le notti di disperazione
Sarà l’eternità di un giorno polare.

Il nord, la volontà, la speranza paesi senza frontiere,
Neve senza fango, come una lunga vita senza menzogna,
I corvi non ci caveranno gli occhi dalle orbite,
Perché qui non ci sono corvi.

Chi non ha creduto alle profezie cattive,
Non si è disteso sulla neve neanche per riposare un attimo,
Come ricompensa per la solitudine
Avrà l’incontro.

"Il silenzio bianco" [1972], in Vladimir Vysotsky, 19 canzoni; traduzione di Silvana Aversa; introduzione di Gino Castaldo, presentazione di Amelia Rosselli, Stampa Alternativa, s.l., 1992, p. non num.