1 novembre 2015

Eravamo d'accordo

«Fuori dall'Italia, insomma, ho passato oramai più della metà della mia vita […] e l'ho amato, quel fuori, di un amore intenso, l'ho fatto mio dentro, pur via via convincendomi che nessun luogo, tanto meno quello in cui per caso son nato, Roma, era mio, o meglio, che tutti i luoghi lo erano, e anzi quelli del fuori diventato dentro più del mio dentro originario, proprio perché in qualche modo eletti, scelti. Che vuol dire sentirsi italiani all'interno di un tale itinerario?
La lingua, e più particolarmente come la si scrive. […]
Mischiando Ortega y Gasset e Proust, aggiungo: non c'è miglior scuola di scrittura che quella di doversi giostrare, per vivere, tradursi, fra diverse lingue; o ancor più radicalmente: sempre, al di là e contro ogni retorica della – inesistente – purezza, l'estraniamento agisce al cuore di chiunque pensa e scrive, anche dentro la propria lingua: sempre strappiamo senso, traduciamo, reinventiamo una lingua a partire da un'altra, anche se per ventura lavoriamo con una soltanto. Ed è un lavoro mai finito.»
Giuseppe Samonà, 12 apostati 12 critici dell'ideologia italiana, Enrico Damiani Editore, [s.l.] 2015, pp. 111-112.

«Eravamo d’accordo perché le lingue perdano il loro orgoglio ed entrino nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che li rendono disponibili a tutte le lingue del mondo: eravamo d’accordo perché una traduzione non sia una chiarificazione, ma diventi la messa a disposizione di un elemento nella diversità del mondo in una lingua che la accolga. Eravamo d’accordo perché una traduzione non vada da una pura a un’altra lingua pura, ma organizzi l’appetito reciproco delle lingue nell’ossigeno impetuoso del linguaggio. Eravamo d’accordo perché una traduzione non tema più l’intraducibile, ma annoveri e fecondi tutti gli intraducibili possibili. Eravamo d’accordo perché una traduzione onori anzitutto l’irriducibile opacità di ogni testo letterario; perché, in questo mondo che ha infine una possibilità di risvegliarsi, il traduttore diventi il pastore della Diversità. Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di diversità. Egli capiva ciò che io dicevo. Lo sapeva già.»
Patrick Chamoiseau, Pour Sergio, in La grotta della vipera, n. 72/73, 1995, pp. 22-23.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per averci fatto scoprire Pour Sergio...