25 maggio 2012

Le voci

Anche per averlo citato e, dunque, per quel che mi riguarda, “immortalato” in Nascar, non ho mai scordato il primo titolo di Paolo Nori, Bassotuba non c'è. Ora lo ricorda Andrea Cortellessa in Narratori degli anni zero, antologia da lui curata per l’ultimo numero dell'Illuminista diretto da Walter Pedullà. Mi ha fatto piacere trovare Bassotuba inserito tra i migliori romanzi degli esordienti italiani del primo decennio. Di seguito riporto un'ampia citazione che ben delinea il carattere dell'indimenticabile protagonista. (Gli altri 24 esordienti entrati nell'antologia che per sua natura si lascia alle spalle una strage sono: Tommaso Pincio, Ugo Cornia, Antonio Pascale, Francesco Permunian, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Leonardo Pica Ciamarra, Laura Pugno, Franco Arminio, Paolo Morelli, Emanuele Trevi, Giorgio Falco, Giuseppe A. Samonà, Eugenio Baroncelli, Ornela Vorpsi, Luca Ricci, Luca Rastello, Roberto Saviano, Babsi Jones, Andrea Bajani, Francesco Pecoraro, Giorgio Vasta, Gabriele Pedullà, Gilda Policastro.)

"Fin da quand'ero piccolo, ci sono delle voci che stanno sulla mia testa e vanno avanti e indietro, e volano su tutta la superficie della mia testa che va dalla fronte alla nuca e girano, girano, ogni tanto picchiano e provano a entrare, cercando un passaggio attraverso la scatola cranica. E dicono, fin da quand'ero piccolo. Sei una merda! Sei una grandissima merda che non vali niente!
Io ci rispondo, fin da quand'ero piccolo, ci dico Non è vero, siete voi delle merde. Andate via, Ci dico Basta. Non avete nient'altro da fare che stare qui a picchiare sulla scatola cranica, andate via, andate da un'altra parte a far confusione. Proprio qui, ci dico, dovete venire a portare scompiglio, che la gente si sta riposando? Non avete cognizione, ci dico, alle voci.
E loro Sei una merda! Sei una merda secca! Sei una merda che non è più buona neanche per concimare! mi dicono. Sei una merda letale! dicon le voci che stazionano nella mia testa.
Io ci dico Vi divertite? ci dico. Brave, andate avanti, continuate pure, ci dico. Tanto non me la prendo, ci dico.
Merda, merda, merda, continuano loro, si mettono anche a cantare, e picchiano sempre più forte, cercano di entrare nel mio cervellino.

[…]

Se venisse l'angelo della devastazione e mi dicesse Learco! io ci direi Ecco, ci siamo.
Lui mi direbbe, l'angelo dell'apocalisse, Learco! Perché ti sei ridotto così? Angelo, gli direi, non lo so.
Lui mi direbbe Learco! Cosa ne hai fatto dei talenti che ti abbiamo dato? Io gli direi Boh.
Learco! mi direbbe l'angelo della fine del mondo. Oh, gli direi. Learco, spiegami cosa ti è successo. Spiegami perché non hai sviluppato i talenti che ti abbiamo dato. Io gli direi Mah, ci dovrei pensare, gli direi.
Ecco, mi direbbe l'angelo, pensaci. … ".
Paolo Nori, Bassotuba non c'è, DeriveApprodi, Roma 1999, pp. 23-25.

Foto di Ed Templeton

22 maggio 2012

La zona infiammata

"Sarà per deformazione professionale, o forse soltanto per via di una casuale fortuna dentaria, ma insomma di fronte all’espressione «la lingua batte dove il dente duole» non ho mai pensato a bocca e gengive. Piuttosto, in maniera più o meno istintiva, mi ha sempre fatto venire in mente la letteratura (e dunque la lingua) e la sua vocazione a raccontare il dolore dell’uomo. La lingua batte dove il dente duole, per me ha sempre significato quell’inesausta ricerca di dare una forma linguistica a una lotta, a una contraddizione. Significa che la letteratura va a cercare, si immerge, là dove un’epoca soffre, dove l’uomo si dibatte tra la ricerca istintiva della felicità e la miseria del tempo in cui vive, che è un tempo particolare, specifico, con contraddizioni e conflitti suoi propri. La lingua batte là dove l’uomo soffre, dove è malato. Perché dietro la malattia c’è un corpo che patisce, che dentro combatte per debellare il suo male. Quando il dente duole lo si sente pulsare, segno di un lavoro che si agita dietro, in mezzo alla carne. Così quando duole ogni zona infiammata, quando arriva la febbre.
Da bambino non avevo particolari fastidi ai denti, ma ciò nonostante mi ammalavo lo stesso. Ogni volta che succedeva mi colpiva la spiegazione che mi veniva data a proposito delle malattie, e soprattutto a proposito della febbre: era la conseguenza e la manifestazione di una battaglia che infuriava nel corpo. Più era accesa quella lotta intracorporea, più la febbre saliva, la faccia sudava e i brividi mi inchiodavano al letto. Così, afflitto nel buio della stanza, pensavo a questo incrociarsi di spade che si agitava sottopelle, da qualche parte dentro di me. Nel silenzio cercavo di sentire l’affilarsi dei ferri sui ferri, le urla di chi partiva all’assalto, e quelle di chi, colpito, si accasciava per terra. Non so come mai ma quelle battaglie le pensavo sempre come battaglie di antichi romani, gli avambracci infilati dentro gli scudi, gli spadoni sollevabili soltanto da uomini muscolosi e i pugnali che spuntavano fuori quando la spada cadeva. La battaglia che avveniva dentro di me, quella lotta che portava la febbre, la immaginavo così. Però non tutte le malattie erano uguali, e quindi non erano uguali tutte le febbri. Il dolore al dente è diverso dal dolore alla pancia, anche se entrambi possono portare la febbre. Mi dicevano che per ogni malattia infuria una lotta diversa, che dunque ogni dolore sembra uguale a quell’altro ma in realtà è un dolore che deriva da un diverso incrociarsi di spade.
Ecco, quando sento dire «la lingua batte dove il dente duole» penso esattamente a questa ricerca, della letteratura, di andare là dove infuria il dolore di un’epoca, di andare a capire quali spade si stanno incrociando. Penso a quest’inesausto battere della lingua, che è al tempo stesso una discesa sotto la pelle del tempo, e però anche un battere del tempo alla ricerca di quel ritmo, quella cadenza, quel suono, con cui ogni epoca fa mostra di sé, si affaccia alla storia. Ogni volta che si manifesta la febbre, la febbre sembra sempre la stessa ma non è così. Allo stesso modo io credo che ogni epoca abbia un suo proprio dolore, che nasce da un conflitto tutto differente dal conflitto delle epoche che l’hanno preceduto e da quelle che la seguiranno. Nei Quaderni dal carcere Gramsci scrive che «un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista 'personalità', è un ‘momento’ dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una 'punta' storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta». Ecco, è quella la lotta che fa il dolore di un’epoca, in cui ci si addanna sugli scudi e le spade, al ritmo dei fendenti menati. La letteratura va a toccare quel ventre molle che fa soffrire uomini e donne in un momento specifico della storia. Credo ci sia una disgregazione tutta particolare, nell’epoca in cui viviamo, uno sfaldarsi del tessuto sociale, un creparsi delle superfici che prima tenevano insieme cose e persone. È una disgregazione che lascia soli gli uomini in una maniera diversa: più sfiancata, più arresa e più rassegnata che mai. C’è un modo di essere soli inedito, perché è una solitudine che non cerca più un balsamo nei legami con le persone ma con gli oggetti che le circondano. È una solitudine del tutto funzionale a una società che vuole solitudini arrese, persone sfiancate. Ecco, è quello, mi sembra, il dente che duole in quest’epoca, ed è lì che la lingua prova a infilarsi. È quello il dolore che tenta di sillabare, a cui cerca instancabilmente di dare una forma. Ma quella forma non può che essere una visione, del dolore, una sua percezione alterata. Quando il dente duole la lingua lo tocca, e poi ne riporta indietro un’immagine abnorme. Il dolore al dente fa immaginare a chi lo patisce una bocca esplosa, fa pensare a un dente mostruoso. Così per ogni altro dolore del corpo, che infiamma, che porta la febbre, che fa sentire uno sferragliare di spade, una battaglia, una lotta. È lì che la lingua tocca, per paura di trovarlo ancora e, forse irrazionalmente, per il bisogno di sapere che c’è."
Andrea Bajani, La zona infiammata, contenuta nell’antologia "Narratori degli anni zero", a cura di Andrea Cortellessa, in  L’Illuminista. Rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà, numero 31-32-33, gennaio/dicembre 2011, pp. 577-578.

21 maggio 2012

No more fuffa


Pane nostru de ogni die,
no manches mai a mie,
no manches a perunu.
Mai connoscat jeunu
sa zente venturera.

Pane nostro quotidiano
mai tu mi manchi
non mancare a nessuno.
Mai conosca il digiuno
la gente che va alla ventura.

Augurio col quale si accompagna la distribuzione del pane benedetto fatta ai poveri nella ricorrenza della festa d’un Santo che abbia dato assistenza e consolazione nelle malattie, nei dissesti, nelle sventure.
Salvatore Cambosu, Miele amaro, Ilisso, Nuoro 2004, p. 142. 

18 maggio 2012

Little bittern

Negli anni '30 – mi raccontavano ieri sera –, prima che le paludi venissero bonificate, ogni venerdì all'imbrunire si sentivano le urla rauche dei tarabusi. Il verso dell'uccello (boi forraiu in sardo, bos taurus in latino) è simile a un impressionante muggito, tant'è vero che il bestiame nell'udirlo fuggiva spaventato, e così gli uomini e le donne che si trovavano nei paraggi. La gente credeva che le urla del tarabuso appartenessero alle anime in pena, possedute dal demonio, e che gli uccelli sostassero nelle paludi per espiare le loro colpe. A me non è mai capitato di vedere un boi forraiu, così mi sono voluta togliere la curiosità cercando qualche foto. E ho scoperto che si tratta di un uccello bellissimo.

10 maggio 2012

Alla forma che ti chiude


Con un cenno della fronte respinge
lungi da sé ogni vincolo, ogni limite
perché per il suo cuore passa alto e immenso il ciclo
degli eventi che ricorrono eterni.
Nei fondi cieli scorge una folla di figure
che lo chiamano: riconosci, vieni.
Ciò che ti pesa, perché lo sostengano,
non affidarlo alle sue mani lievi.
Verrebbero nella notte a provarti nella lotta,
trascorrendo la casa come furie,
afferrandoti come per crearti
e strapparti alla forma che ti chiude.
Rainer Maria Rilke, "L'Angelo"

8 maggio 2012

Mah

Strano giorno di sorrisi e di mosche, mentre tu stavi al solito là, immobile, nella concentrazione della solita fatica. Per un attimo sei tentata di accettare gli uni e le altre, da una uguale mitezza.
Un momento però: tu sei sempre la stessa persona, non hai la marmellata sul naso, e ormai è da giorni, mesi, anni che non ti sei mossa di un millimetro dal solito posto… E allora? Cos’è quella mosca sul naso? 
Non lo sai e nemmeno sei certa di voler provare a capire. Se non c’è niente da capire, cosa vuoi provare a fare, cosa?
Per un attimo prendi a vagare sull'eterno ritorno delle mosche e poi, con un piccolo "mah!", risprofondi la testa nel solito giorno. 

5 maggio 2012

E le donne sui marciapiedi a lanciargli fiori

 di José Saramago
"Vedo dai sondaggi che la violenza sulle donne è l’argomento numero quattordici tra le preoccupazioni degli spagnoli, nonostante si contino tutti i mesi sulle dita delle mani, e  sfortunatamente non ci sono sufficienti dita, le donne assassinate da quelli che credono essere i loro padroni. Vedo anche che la società, nella pubblicità istituzionale e in singole iniziative civili, anche se un po’ alla volta, si rende conto che è un problema degli uomini e che solo gli uomini lo devono risolvere. Da Siviglia dall’Estremadura spagnola ci è giunta notizia, qualche tempo fa, di un buon esempio: manifestazioni di uomini contro la violenza. Fino ad oggi erano soltanto le donne a scendere in piazza per protestare contro i continui maltrattamenti subiti dalle mani dei mariti e compagni (compagni, triste ironia), che, mentre in moltissimi casi prendono la forma di fredda e deliberata tortura, non disdegnano l’assassinio, lo strangolamento, la pugnalata, lo sgozzamento, l’acido, il fuoco. La violenza da sempre perpetrata sulle donne ha trovato nel carcere in cui si è trasformata il luogo della coabitazione (ci rifiutiamo di chiamarla casa), lo spazio per eccellenza per l’umiliazione quotidiana, per il maltrattamento abituale, per la crudeltà psicologica come strumento di dominio. Il problema è delle donne, si dice, e questo non è vero. Il problema è degli uomini, dell’egoismo degli uomini, del malato sentimento possessivo degli uomini, della pigrizia degli uomini, questa miserabile codardia che li autorizza a usare la forza contro un essere fisicamente più debole e a cui è stata sistematicamente ridotta la capacità di resistenza psichica. Qualche giorno fa a Huelva, applicando le regole dei più grandi, alcuni adolescenti di tredici e quattordici anni hanno violentato una ragazza della loro stessa età affetta anche da una deficienza psichica, forse perché pensavano di aver diritto al crimine e alla violenza. Diritto a usare quello che consideravano loro. Questo nuovo atto di violenza di genere, più quelli avvenuti questo fine settimana, a Madrid una ragazzina assassinata, a Toledo una donna di trentatre anni uccisa davanti a sua figlia di sei, avrebbero dovuto far scendere in piazza gli uomini. Forse 100mila uomini, solo uomini, manifestando per le strade, mentre le donne sui marciapiedi a lanciargli fiori, questo sarebbe potuto essere il segnale di cui la società ha bisogno per combattere, dal suo interno e senza scrupoli, questa insopportabile vergogna. E la violenza di genere, con o senza la morte, cominci a essere uno dei primi dolori e preoccupazioni dei cittadini. È un sogno, è un dovere. Può non essere un’utopia."