25 ottobre 2009

Sa gherra es tonta


Nella nostra società ipertecnologica organizziamo incessantemente enormi depositi di memoria, impauriti, forse, dal rischio di perdersi in un presente divenuto infinito, globalizzato, eterno e che sempre di più sembra minare la capacità e la volontà di ricordare il passato. Tuttavia ci sono società per le quali la memoria resta soprattutto una ferita cruenta della mente e per le quali la rimozione potrebbe sembrare l'unico rimedio efficace al dolore. Ma non è così. Bene lo sa, ad esempio, lo scrittore e poeta palestinese Ibrahim Nassrallah, che nel suo romanzo intitolato Dentro la notte (Ilisso, 2004), scrive: «Dimentichiamo per sopravvivere. Ma per non morire non dimentichiamo mai del tutto».
In Italia lo slogan “per non dimenticare” caratterizzò una miriade di iniziative che nel corso di lunghi decenni riproponevano la memoria di quel 12 dicembre in cui il terrore indiscriminato entrò nella storia del Paese: per non dimenticare la violenza, per non dimenticare l’ingiustizia di non poter far valere la verità. Così è stato sia per le vittime della guerra invisibile chiamata strategia della tensione, così per le tante vittime di mafia e per i loro parenti, condannati a essere per sempre testimoni della vita e della violenza che l’ha spezzata.
«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta», dichiarò Nuto Revelli nel 1999, nel suo discorso per in conferimento della laurea honoris causa.
Così anche Luigi Pintor nel suo libro del 1991 intitolato significativamente
Servabo, parola latina che condensa il senso profondo della memoria nel suo valore civico: conserverò, terrò in serbo, terrò fede, ma anche servirò, sarò utile. A dispetto dei depistaggi del tempo e dell’anima, solo la memoria può impedire l’insediarsi di allarmanti processi storiografici: dal revisionismo storico grande – sul passato remoto del fascismo, il nazismo, la Shoah – a quello piccolo sul passato prossimo della vicenda italiana, l’eversione, le stragi.
“Per non dimenticare” sono anche le parole con cui Giacomo Mameli chiude il suo ultimo libro
La ghianda è una ciliegia (Cuec, 2006), ed è appunto nel solco di questo lungo grido della storia contemporanea che nasce un'opera che straordinariamente ci costringe ancora a riflettere sul passato per comprendere ancor di più l'assurdità di quelle attuali. Mameli infatti – senza mai minimizzare o reificare il dolore del singolo uomo ma, anzi, trasmettendolo al lettore con grande pietas – trascende la realtà individuale per raccontare la tragica esperienza collettiva della seconda guerra mondiale con le rievocazioni dei soldati di Perdasdefogu (oggi più che novantenni) e delle loro peripezie in Russia, in Albania, in Grecia, nei campi di concentramento tedeschi e degli anni passati in India e in Sudafrica.
L’opera – pur rielaborata nella finzione del romanzo – si fonda sulle testimonianze reali degli anziani che, oltre sessant’anni fa, furono improvvisamente strappati dall’operoso e agreste microcosmo per essere catapultati in un mondo dilaniato dalla sofferenza.
La guerra non è mai giusta e ancor meno intelligente. La guerra è «tonta», come dice Peppino Carta fu Giovanni e di fu Puddu Doloretta (p.54) e «stupida» come dice quel Vittorio Tegas (p.307) che sa delle tre Italie perchè ha letto Chabod… Stupida la guerra, e le ragioni per farla, quelle di ieri in nome del fascismo, quelle di oggi in nome di una presunta democrazia. Ragioni irragionevoli, soprattutto se la si guarda, la guerra – com’è giusto che sia – dalla parte di tutte le genti che l’hanno subita anche quando erano convinte di combattere una causa giusta. Il libro di Mameli è vicino anche a Emilio Lussu, che in
Un anno sull’altipiano (1938) propone una realtà feroce e cruda dimenticando per sempre il mito romantico della morte eroica; qui la guerra «stupida e tonta» dei soldati di Perdasdefogu è quella «degli ordini sbagliati, delle scarpe di cartone, dei sacrifici umani a scopo dimostrativo».
In
La ghianda è una ciliegia Pietrino-Strìa (chiamato come il fratello maggiore morto sul Carso) racconta a pagina 122:
«A me – come a quasi tutti i miei amici di Foghesu – il fascismo piaceva davvero, lo sentivo dentro il cuore e dentro l’anima e mi entusiasmava… Mi sembrava che dovevo ringraziare il fascismo se avevo lavorato a Carbonia, se avevo visto il Duce, se avevo conosciuto il continente. Senza fascismo io sarei rimasto o contadino o pastore. Soldato è meglio. Sì, ragionavo così». Pietrino Civetta viene catturato dagli inglesi, deportato da Alessandria al Cairo, fino al Sudafrica in un campo di concentramento dove, non essendoci niente da fare, si mette a contare le spine del reticolato: «Contavo quelle spine rivolte in su. Il rettangolo lo avevo chiamato “Su campu” e gli avevo dato per confini i nomi dei paesi. Il lato lungo di nord era Ulassai, il lato lungo di sud Escalaplano. Il lato corto di nordovest Esterzili e il lato corto di nordest Tertenia. La gara l’aveva vinta Ulassai con 11.245 spine mentre Escalaplano si era fermato a 10.387. I vincitori erano quindi Ulassai ed Esterzili. Vincitori di che cosa?» (p.134). Domanda retorica che vale per Ulassai ed Esterzili, per quella guerra e per tutte le guerre del mondo.
Ci sono dunque anche qui i volontari, i fascisti convinti, gli ammiratori del duce, che partiranno entusiasti per ritornare atrocemente delusi dal dramma della sconfitta e dalla lancinante consapevolezza dei falsi miti del regime – come anche Orazio Mameli (padre dell’autore e alla cui memoria il libro è dedicato) che «dalla fede cieca del fascismo era passato a quella ragionata del sardismo».
Ma la maggior parte di coloro che partirono non lo fecero per eroismo, non per fascismo, come un dice un altro personaggio-testimone, Mario Casu, parlando di sé come di un disgraziato mandato a fare la guerra da un paese dove «la guerra si chiamava fame».
Una miriade di trame legano le narrazioni dei poveri soldatini di Foghesu ai personaggi dell’indimenticabile
Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi: sono le vicissitudini che brutalmente tolgono ogni senso all’essere catapultati in una guerra inappartenente, in condizioni disumane. Nel primo bellissimo racconto intitolato La penna di asfodelo così ricorda Vittorio Palmas il lungo viaggio per fare la guerra: «Parto di notte a piedi, da solo, a far la guerra, io che non conoscevo una cartuccia se non quella che aveva ucciso la martora. Tutto quello che possedevo l’avevo addosso, né sacco né scatola di cartone, neanche un soldo in tasca … avevo una camicia, mamma l’aveva chiesta al figlio di suo cugino Fracànzu, un paio di pantaloni e una giacchetta che sembrava rubata a un bambino di dieci anni. Calze non ne indossavo». E il racconto prosegue raccontando le ore di camminate a piedi sino ad arrivare a Serra Longa, poi a Seui che per contrasto con il villaggio ricco solo di pietre sembra una grande città, e da lì il treno per Cagliari e poi la nave per Civitavecchia: Roma, Torino, e sempre il freddo, la fame, la stanchezza, gli incontri con altri diseredati, ma anche la solidarietà (bella in questo senso quella prima figura: una donna emigrata a Torino incontrata sulla nave, che al giovane di Foghesu compra pane e acciughe). Via via che i racconti si succedono cambiano i nomi delle persone e dei paesi di provenienza dei soldati, e cambiano le guerre, ma le storie si assomigliano tutte perché tutte si assomigliano le guerre: «Arriviamo in Russia – racconta Monni Pierino, classe 1920. – Arriviamo in Russia e neanche un albero, neanche una casa e una strada che non fosse bianca. E comprendo che quella di Foghesu non era neve ma schiuma di latte, perché la neve vera uccide per il freddo e per il gelo che ti crepa i piedi e le mani. Nei primi giorni di Russia a me e ai miei compagni di sventura il gelo aveva crepato anche la suola degli scarponi» (p.275).
Il libro raccoglie anche le diverse interessanti testimonianze delle anziane che ricordano la loro guerra quotidiana contro la fame, i durissimi lavori, l’attesa del ritorno casa dei fratelli. Per tutte ricordo la cernitrice dello struggente racconto
Italia è morta, che lavora alla miniera di carbone in fondo alla valle del fiume, e di quel lavoro morirà. E ricordo le donne del rosmarino, nel racconto omonimo, dove la protagonista, Luigina, racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la loro drammaticità infatti i racconti degli anziani sono spesso carichi di humor e di ironia, ovvero della leggerezza di cui sono capaci solo coloro che hanno attraversato un oceano di dolore.
Bastiana Madau

21 ottobre 2009

Decrescita felice

ALTRI SCENARI: Nuoro, sabato 24 ottobre 2009 alle ore 10:00, Auditorium Biblioteca S. Satta. Proseguono gli incontri sul tema “Verso il distretto dell’economia sociale nel centro Sardegna”, con la lectio magistralis sull’economia sociale di Maurizio Pallante sul tema dell’imprenditoria sociale e dei processi di decrescita sostenibile. Coordina Pino D’Antonio.

17 ottobre 2009

La letteratura non conta niente






"A volte, quando bevo più di quanto dovrei, mi viene voglia di maledirli tutti, lui e i letterati che mi hanno dimenticato e gli assassini che mi tendono i loro agguati nel buio e perfino i linotipisti perduti nella gloria e nell’anonimato, ma poi mi calmo e mi viene da ridere. La vita bisogna viverla, in questo consiste tutto, semplicemente. Me lo disse un barbone che incontrai l’altro giorno uscendo dal bar La Mala Senda. La letteratura non conta niente."
Roberto Bolaño, I detective selvaggi, traduzione di Maria Nicola, Sellerio, 2003, p. 416


O God che sei nei cieli, sia fatta la tua volontà, ma dimmi: prevedi che un giorno su questo pianeta periferico la maggioranza degli animali che sanno dire mamma e babbo possano incarnare la letteratura universale e smetterla di essere cattivi coglioni capaci solo d'odio, livore e sofferenza?
(commento anonimo a un toccante post dei G.o.D.)


16 ottobre 2009

Esplorazioni inutili


Vi sono mesi in cui
non nasce un granello di poesia.
Il male scaccia le metafore,
l’analogia boccheggia.


Angelo Maria Rippellino, da Versi inediti e rari

10 ottobre 2009

Silicon Burqa*

I processi educativi determinano l'ordine simbolico che sta alla base della costruzione delle relazioni, dei patti sociali, della politica, della società. Per dirla con Karl R. Popper, "i cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente, non sono il risultato del caso, ma sono il risultato di un processo educativo." Oggi più che mai – in una ossimorica situazione di reale liberà apparente – credo non sia facile analizzare e intervenire sull'ordine simbolico sistematicamente costruito dalla caja tonta italiana degli ultimi trent'anni, che sembra aver cancellato con un colpo di spugna decenni di battaglie di liberazione verso un pensiero civile, libero, rispettoso della dignità e integrità delle persone, e delle donne in primis. Più precisamente, non sarà facile rendere consapevoli di quanta falsità e violenza è contenuta nella gran parte dei format televisivi italiani, ma bisognerà pensare seriamente che il problema è basilare e non più rinviabile. Per questo voglio indicare un lavoro che mi ha molto colpito e che – in un contesto molto complesso da trattare – ha il merito di riuscire a essere limpido. Si tratta di un documentario intitolato Il corpo delle donne e affronta proprio il tema dell'uso del corpo della donna in tv. Andrebbe proposto anche nelle scuole, secondo me, e non soltanto per le risposte che dà, ma per le domande che pone, o per quelle potenziali che potrebbe a ragione suscitare.


* Ho intitolato il post in un modo piuttosto duro, perché, in realtà, l'ho scritto circa un mese fa, quando una delle nostre eccelse ministre ha violentemente strappato il velo a una donna musulmana, cosa che mi ha fatto arrabbiare e vergognare. Sono tempi in cui in Italia delle donne se ne parla soltanto come escort o come poltiche isteriche. Terribile.
Vorrei scrivere cose buone e belle, che so? intitolare questa nota Dalla parte delle bambine, ad esempio, e così ricordare Elena Giannini Belotti, una delle maestre che, quand'eravamo ragazzine e ragazzini, ci ha aperto gli occhi, con fermezza e con dolcezza, resi maggiormente consapevoli della costruzione dei ruoli e dell'inautenticità. C'è bisogno di riprendere certi discorsi, di una maggiore informazione e di un approccio verso le culture differenti dalle nostre assolutamente meno rozzo di quello proposto dalle "avanguardie" italiane. Velate o no – come ci ha mostrato anche Fatema Mernissi nel suo bellissimo saggio intitolato L'harem e l'Occidente –, le donne musulmane sono per le strade a milioni. Con l’istruzione pubblica hanno riacquistato le ali, e gli estremi casi di violenza nelle strade algerine o afgane contro le donne non velate sono il segno della fine del dispotismo maschile. Sono una forza civile imponente che lotta per la democrazia e l'emancipazione. Non hanno bisogno dell'aiuto di ministre manesche.

8 ottobre 2009

Mexican standoff

"Si ammirano i Re Magi!", disse una volta la buonanima di mio nonno, poco tempo prima di lasciarci. E a me che non avevo mai incontrato un re in vita mia e nemmeno un piccolo principe, sembrò finalmente chiaro perché non sapessi cosa fosse l'ammirazione. Ancora oggi non lo so. E anche altre cose, non me le spiego. Ma bando alle ciance, che oggi son contenta: ho vinto a una corsa di cavalli puntando su Damasceno Monteiro.
Dejo esta cabeza a Aldo Raine por sus cien años.


2 ottobre 2009

La festa è finita


"Gli skyline nel cuore della notte, gli impianti di climatizzazione che rinfrescano alberghi vuoti nel deserto e la luce artificiale in pieno giorno hanno in sé tutti qualcosa di demente e allo stesso tempo ammirevole: il lusso incurante di una civiltà ricca, ma forse spaventata di veder spegnersi le luci tanto quanto lo era il cacciatore nella notte primigenia." (Jean Baudillard, 1989)

In esergo a: Richard Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le nuove guerre, il futuro dell'energia; traduzione dall'inglese di Nazzareno Mataldi. Fazi, Roma 2004, p. 3.

1 ottobre 2009

Uscita dal cinema

Luccicavano di sogni sulla tela bianca.
Due ore di scaglie lunari.
C'era l'amore su una triste melodia
c'era il ritorno felice dal vagare.


Il mondo dopo una fiaba è bruma.
Con visi e ruoli incolti.
La ragazza le sue pene intona
e il soldato quelle del partigiano.


Torno a voi, nel mondo vero,
colmo di fato, fitto e fosco –
ragazzo monco sotto il portone,
ragazza dagli occhi vani.

Wisława SzymborskaDiscorso all'ufficio oggetti smarriti. Poesie 1945-2004; traduzione dal polacco di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2004, p.16