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16 maggio 2023

Maestre dell'università sconosciuta (saggio)

Maestre dell’università sconosciuta
di Bastiana Madau
Soter editrice, Villanova Monteleone 2023
2a ed. Isolapalma, Cagliari 2024


Non si hanno notizie di “maestre”, a tutt’oggi, nell’ambito maiuscolo dell’università. Altre e molte donne hanno fatto e fanno quotidianamente parlare di sé, all’interno dell’istituzione, nel ruolo di brillanti studentesse, ricercatrici, professoresse, addirittura rettrici. Le maestre no: la loro qualifica, se ci si attiene all’interpretazione professionale del termine, esprime, di norma, una possibilità di docenza che si ferma alla scuola della primissima e prima infanzia, non più oltre. Come se avere a che fare con la fascia d’età ultraminorenne non fosse, del resto, il colpo di diapason più importante; quello che, se bene assestato, saprà produrre musiche di cui beneficerà l’udito futuro del mondo, o che, viceversa, batterà sordo, invano, un’eco vuota del passato. Sarà per questo che, nella volontà di contravvenire a ogni protocollo gerarchico e di restituire a questa parola la sua valenza etimologica, le magistrae di cui parla Bastiana Madau nel suo ultimo libro appena pubblicato da Soter editrice operano al meglio in un’accademia, per così dire, ignota e non riconosciuta come tale, laddove l’assenza di un’identità e di un’ufficialità non si associa certo alla mancanza di valore; figure capaci di insegnare in quel modo gentile e transitivo – e spesso anche non consapevole e non intenzionale – che induce gratitudine e affetto oltre che autorevolezza e rispetto, e che scelgono come teatro (o semplicemente e spontaneamente le agiscono) le sedi di una consuetudine domestica e sociale, privata come pubblica, fatta di saperi antichi, acquisiti o innati, che ancora, e con tutta evidenza, non hanno smesso di insegnare qualcosa.

Chi sono, dunque, le Maestre dell’università sconosciuta a cui si fa riferimento nel testo? [...]     

Libro tanto piccino quanto politico, libro di ricordi e di riepilogo, libro in cui si dichiarano con orgoglio le fonti intellettuali, etnografiche e antropologiche del proprio personalissimo romanzo di formazione […]. 
Testimonianza di un passato non ancora remoto, Maestre dell’università sconosciuta viene pubblicato in un presente caratterizzato da sovrabbondanza degli stimoli formativi, agonismo dei titoli di studio, virtualità dell’apprendimento, preoccupanti derive tecnologiche e mediatiche del sapere: lo si potrebbe pertanto travisare e classificare come testo nostalgico, addirittura come testamento poetico (con tutte le possibili sfumature che l’autrice attribuisce e riconosce a questo termine). Ma sarebbe un errore: non solo perché non di mera adorazione delle ceneri, bensì di alimentazione della viva fiamma che vi cova sotto, si tratta, ma perché il richiamo all’ignoto che vi campeggia nel titolo suona come un’esortazione a fare in modo che ignoto, per l’appunto, non resti. Oltre ogni aula, cattedra e banco, nell’educazione alla lettura di ogni bambino e ogni bambina, nell’interazione tra chi racconta e chi ascolta, nella consapevolezza di come ogni scambio inteso in questi termini sia cosa concreta, “fatta” in quanto “poetata” e dunque “poetica”, Maestre dell’università sconosciuta è un libro futuro, del domani, che si consegna e si offre, come un dono, a chi saprà contraccambiarlo con l’azione, fosse anche solo l’azione della memoria e del ricordo; con quella, insomma, che l’autrice definirebbe – e a ragione – l’investigazione inesausta dello spazio deputato all’incontro della parola con il gesto, della frase con il verso, del componimento con la direzione – certamente “ostinata e contraria” (per citare un cantautore che scelse la Sardegna come seconda casa) rispetto a uno status quo di silenzio e di oblio.

Cecilia Mariani, da «Una parola che si pronuncia con gratitudine e affetto»: le "Maestre dell'università sconosciuta" di Bastiana Madau, in: CriticaLetteraria, 30.3.23.
Foto di Elena Mereu

2 agosto 2017

Inoke, un'idea diversa

Inoke, un’idea diversa da’ ssustànzia/ assu biver dess’òmine. E peri in sa malidade/ dessa pèyur miseria, inoke, s’òmine/ non perde’ ddinnidade; finzas si a bbortas/ sa bida tendet assu lìmine estremu/ okros assa morte. Tottu, inoke,/ nos pode’ ggalu nòkere, e ttottu/ galu podet esser fattu,/ si kreska’kkada kosa assa misura ’ess’òmine.
Qui il senso delle cose dà sostanza/ agli umani rapporti. E perfino nella disgrazia/ della miseria nera qui l’umanità /non perde dignità; anche se a volte/ la vita tende al limite estremo/ verso la morte. Tutto, qui,/ ancora ci può nuocere, e tutto/ ancora può essere fatto, se cresca/ ogni cosa all’altezza dell’uomo.

Sono alcuni dei tanti versi che Antonio Mura, figlio di Maria Antonia Bande Ticca e di Pietro, ramaio di Isili e poeta tra i più grandi del Novecento sardo, scrisse negli anni Sessanta, dunque in un arco di tempo segnato dalle grandi trasformazioni di quei luoghi del Sud Italia e della Sardegna (ma non solo) in cui, in effetti, troppe erano le cose mancanti; ma altrettante – come anticiparono diversi e inascoltati intellettuali dell'epoca – erano quelle inerenti la cosiddetta cultura popolare che rischiavano di essere perdute per sempre nel passaggio alla modernità, perciò considerato anche violento. E chissà se non sia stata la stessa intuizione contenuta nei versi di Mura a guidare Eugenio Barba e l'Odin Teatret nel Salento (a Carpignano, un piccolo paese sulla strada tra Lecce e Otranto) e in Sardegna. Il collettivo multiculturale dei teatranti «indifesi nella piazza della vita», fondato da Barba a Oslo nel 1964 e trasferitosi in Danimarca nel 1966, si spostò a più riprese anche a Orgosolo e a San Sperate con l'idea di portare l'arte «in luoghi senza teatro», a stretto contatto con gli abitanti dei piccoli centri della Barbagia e del Campidano.
Vincenzo Santoro – responsabile dell'Ufficio cultura dell'A.N.C.I., impegnato da anni nell'organizzazione di iniziative sulle musiche e culture popolari del Mezzogiorno – ricostruisce la straordinaria vicenda artistica e politica dell'avanguardia teatrale in un volume appena dato alle stampe dall'editore romano Squilibri, realizzato d'intesa con la Cineteca Sarda-Società Umanitaria di Cagliari, nelle librerie dal 1° settembre: Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975). Il libro, che con la citazione del capolavoro di Ernesto De Martino nel titolo espone subito il tenore della ricerca antropologica oltre che estetica del collettivo danese, esce con sostanziosi apparati: la prefazione di Eugenio Barba, 53 foto in b/n e a colori di Tony D’Urso, gli scritti di Antonio D’Ostuni e Antonello Zanda e un DVD allegato, contenente il meraviglioso documentario di Ludovica Ripa Di Meana, In cerca di teatro, e il film di finzione di Torgeir Wethal, Vestita di bianco, entrambi girati nel corso dell’esperienza salentina dell’Odin.
Durante la residenza sarda la compagnia imposta per la prima volta un'autentica interazione con gli abitanti dei paesi ospitanti, ovvero un genere di relazione che più tardi andrà definendo come “baratto culturale”: a ogni sua performance, infatti, i locali – uomini, donne, bambine, bambini e persone anziane – presero a rispondere con un canto tradizionale, un ballo, una festa, aprendo agli attori le case e i cortili durante i lavori quotidiani (nel libro anche una tavola fotografica che ritrae alla stessa altezza un teatrante seduto con un tamburo tra le ginocchia nella cucina dove una donna, anche lei seduta, inforna il pane) o nel tempo del riposo. In tal senso è particolarmente significativo il racconto della vicenda orgolese, durante la quale Eugenio Barba ebbe l'insight: alla fine della prima rappresentazione («in una scuola protetta dai carabinieri» perché il numero consentito di partecipanti era di 60, ma vollero entrare tutti!) di Min Fars Hus (La casa del padre) così disse agli attori un anziano presente allo spettacolo: «Era molto interessante, non abbiamo capito, siamo pastori... Voi cantate bene, adesso vi facciamo sentire come cantiamo noi». Si realizzò in quel frangente il prototipo del cosiddetto “baratto” (portare qualcosa ma per ricevere qualcosa), una tecnica che prese a essere considerata dal gruppo come fonte primaria di nutrimento, generatrice di nuove iniziative, progetti e imprese il cui centro erano sempre le donne e gli uomini incontrati nel proprio cammino, sino a fare dell'incontro l'essenza stessa del lavoro teatrale. Tante e diverse sono le testimonianze che il libro di Santoro riporta attingendo a fonti dell'epoca e a documenti d'archivio, restituendo l'emozione di un'esperienza destinata a lasciare un segno profondo nei protagonisti che ebbero la fortuna di fruirla.
Bastiana Madau, Storia della residenza sarda e salentina dell'Odin Teatret, in Il manifesto sardo, 1 agosto 2017.
Una delle immagini di Toni D’Urso contenute nel libro.

23 novembre 2016

La costruzione di una morale per la felicità

Gli anni che vanno dal 1930 al 1970, oltre all’esperienza orrenda del nazi-fascismo e della II Guerra Mondiale, sono stati il tempo che ha rivelato tre filosofe che segnano profondamente il nostro tempo. Simone Weil e la sua ispirazione etico-religiosa; il suo gnosticismo la porta verso una ricerca dell’Assoluto che non può esprimersi se non nella vicinanza agli ultimi. Hanna Arendt che indaga la trasformazione plebiscitaria delle democrazie e il male come comportamento banale della specie umana, che aspetta solo le condizioni di giustificazione per rivelarsi in tutto il suo potere terrorifico.
Simone de Beauvoir, che esperisce il tentativo di creazione di una nuova morale che parta dalla certezza che le morali tradizionali non superino la consapevolezza della limitatezza dell’essere umano. Tre pensatrici che fanno del Da-sein heiddeggeriano più che una chiave interpretativa, una condizione.
L’essere gettati nel mondo obbliga. Hanna Arendt rifiuterà l’ultima filosofia di Heiddegger, privilegiando l’agire come essere per gli altri, ritornando sui passi di Husserl e Kant. Il 14 aprile del 1986 a Parigi decedeva Simone de Beauvoir. Bastiana Madau con il suo Simone, le Castor. La costruzione di una morale non si limita a celebrarla, ma con un saggio filosofico intenso ricostruisce il suo pensiero e la sua ricerca. La costruzione morale, che a suo dire, attraversa l’intera opera: dai saggi ai romanzi alla sterminata autobiografia. [...] 
Continua nel sito del periodico Sardegna Soprattutto cliccando sul titolo dell'articolo di Nicolò Migheli: Simone de Beauvoir e la costruzione di una morale per la felicità 
Robert Doisneau, Simone De Beauvoir al Deux Magots, Saint-Germain Des Pres, Parigi 1944.

25 ottobre 2016

Recensione di Maria Paola Masala al libro di Bastiana Madau "Simone, le Castor. La costruzione di una morale"


Desiderare aspramente la felicità, e su questo desiderio fondare una morale. Lo ha fatto Simone De Beauvoir, declinando a suo modo un tema assai caro alla tradizione letteraria francese, le bonheur, e riuscendo a costruire intorno ad esso un progetto di vita, dove il cambiamento, la messa in discussione del presente, l’accettazione di un avvenire aperto sono la strada per afferrare il mondo. 
A disegnare un ritratto, denso di pensiero e di empatia, della grande filosofa e romanziera francese, voce tra le più significative della filosofia e della letteratura impegnata, è l’intellettuale oranese Bastiana Madau, scrittrice, operatrice culturale di valore ed editor. Il suo interesse per lei viene da lontano. 
Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera. Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-Paul Sartre divise vita, pensiero, impegno politico. 
Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro) [Ora anche in edizione cartacea, a 14 euro. N.d.blogger], Simone, le Castor. La costruzione di una morale percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile. 
Scrivere di Simone De Beauvoir, ci dice Bastiana Madau, significa confrontarsi con un’intellettuale non ignora mai il mondo reale, e non trascura lo smacco: la sua scrittura e la sua riflessione sono sempre divise tra individuo e collettività, rivolte alla condizione umana, fatta di uomini e donne che fanno i conti con un corpo, un tempo, un luogo, una condizione sociale. La sua figura segna così il passaggio a un modello innovativo di intellettuale, che non può più permettersi di scrivere per sé, ma deve approdare a un impegno “militante”, accettare il rischio di vivere «la grande avventura di essere me stessa».
Il saggio di Bastiana Madau riattraversa tutti i temi beauvoiriani segnati dalle contraddizioni dell'esistenza: lo smarrimento dell'essere umano di fronte alla mancanza di valori assoluti, Dio su tutti; la superiorità della coscienza, unico giudice a cui rispondere; l'impegno per una morale basata su principii indiscutibili ma sulla consapevolezza del limite comune a tutti gli esseri umani. Particolare attenzione è dedicata anche alla condizione della donna, che De Beauvoir affronta nel suo capolavoro, Il secondo sesso, testo imprescindibile della storia del pensiero femminile. Quanto al titolo del saggio di Bastiana Madau – che sarebbe davvero bello e utile poter leggere anche in versione cartacea – Castor era il nomignolo con cui Sartre chiamava la sua compagna. A idearlo fu René Gabriel Eugène Maheu, alias Herbaud, professore di filosofia a Londra e amico di entrambi (e di Paul Nizan), che giocò con il cognome Beauvoir e il termine inglese beaver, castoro. Ma a renderlo vivo e pregnante fu il filosofo esistenzialista. Lo racconta l’interessata in Memorie di una ragazza per bene, e più tardi ne L’età forte. «Un giorno scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali: BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore».
Maria Paola Masala, De Beauvoir, ovvero il progetto della felicità, L’Unione Sarda, venerdì 2 settembre 2016. (Riproduzione riservata)
Bastiana Madau, Simone, le Castor. La costruzione di una morale, con una nota introduttiva di Alessandra Pigliaru, Cuec, Cagliari 2016. (Immagine di copertina)

17 settembre 2016

Lorenzo, tra satira e cinesica


Immaginate di essere nel clou del "bombardamento" estivo di una delle campagne mediatiche per la prevenzione degli incendi boschivi dell'isola: se ne sono susseguite diverse, negli anni, come, ad esempio, quella denominata "Accendi la tua coscienza"; in generale tali campagne sono basate su sofisticati messaggi di condanna delle sottoculture, tuttora considerate a monte della piaga irrisolta. Ecco, immaginate che, in tutto questo, all'improvviso faccia capolino nei giornali e nelle televisioni la vignetta di un leccio semi carbonizzato e piegato dal maestrale, dolente ma furioso, che maledice in sardo il piromane in fuga: "Sos luminos in c..." (I fiammiferi in c...). Bene, il geniale disegno politically incorrect passò veramente durante una di quelle temperie: l'estate del 1994 L'Unione Sarda pubblicò l'originale disegno satirico, destando un certo scalpore. L'autore era un architetto, Lorenzo Vacca, che allora aveva 38 anni, oggi ne ha quasi 60. Nato a Ovodda, lasciò il paese per motivi di studio, liceo artistico a Cagliari e università a Roma, dove conseguì la laurea; poi mise su casa e studio a Grotte di Castro, nell'Alto Lazio, dove tutt'ora vive, con un intervallo di lavoro quadriennale in Bolivia e un altro, più breve, in Maghreb, ai confini tra Algeria e Tunisia. 
Nel frattempo, il tema privilegiato di Lorenzo continuò a essere la Sardegna, e il leit motiv dei suoi disegni la donnina (Sa tzia) e l'omino (Su massaiu) di Ovodda. La figura femminile è principalmente presentata nell'essenziale scambio verbale all'incrocio con qualcuno nelle stradine del paese, nel reciproco modo di salutarsi, ripetitivo come in un rituale che voglia dirsi tale. Nei disegni le donne si susseguono frettolose, indaffarate, rappresentate con il mucadore (fazzoletto dell'abito tradizionale femminile le cui bende sono legate sotto il mento), la cui punta Lorenzo arriccia in un guizzo, a dare movimento all'attività di cura o ai frenetici lavori domestici legati a un'economia di sussistenza. Il mucadore di volta in volta è abbandonato, morbido, oppure vivacissimo, espressivo: parlante. 

Esilaranti le vignette con la sequela cantilenata di domande che non attendono risposta, da cui si evince l'attimo appena di attenzione per l'altra, o meglio, per l'attività dell'altra  "Assoliande...? (Sotto il sole?); Arresonande...? (Ragionando...?); A cresia...? ([Andando] in chiesa?); Mundande...? (Spazzando?), ecc. , volendo ironizzare, Lorenzo, sull'aspetto quasi compulsivo del saluto, calcando la mano su una cinesica minimale, ma vibrante. C'è persino un disegno con un surreale "Morinde...?” (Morendo...?). Tuttavia le rappresentazioni appaiono come derivate dalla profonda e limpida tenerezza dell'autore verso quel mondo, che poi è quello della gente semplice che abitava sino a poco tempo fa negli antichi paesi dell'interno.
Pinuccio Sciola, Ottavio Olita, Nanni Pes, Enrico Piras, Franco Putzolu, tutti componenti della Giuria alla prima edizione del Premio olzaese della grafica e fotografia satirica “Carmelo Floris” assegnarono a Lorenzo Vacca, già nel 1982, il primo premio (secondo ex equo a Gef Sanna e Giuseppe Fadda, all'epoca entrambi vignettisti ufficiali della Nuova Sardegna) perché l'artista«mostra con l'opera complessiva un contributo assolutamente originale, proponendo considerazioni antiche sulla realtà sarda, della quale dimostra una conoscenza profonda, e proprio in merito di questa conoscenza è stato in grado di proporre interpretazioni critiche e autocritiche del modo di essere dei sardi […], capacità di guardarsi intorno, di criticarsi e proporsi ironicamente». Dopodiché, dell'estroso e colto disegnatore si sono ufficialmente perse le tracce, pur non avendo smesso la frequentazione di Ovodda e della Sardegna anche dalla sua professione di architetto, che mai, comunque, ha smesso di disegnare e dipingere.
Lo abbiamo ritrovato quest'ultima estate a Lodine, con una mostra antologica di disegni voluta dal Comune e dalla locale Consulta Giovanile, allestita nella panoramica piazza San Giorgio. Osservando i suoi lavori abbiamo visto quanto anche l'esperienza umana vi sia stata trasferita, a livello grafico come anche pittorico. Qualche settimana dopo abbiamo incontrato Lorenzo nel suo paese natale, dove nella splendida corte di un'antica dimora parentale inaugurava la seconda esposizione estiva. Alto, elegante, la lunga barba quasi bianca e ben curata sul viso sorridente, aperto; occhi neri e vivaci, i modi pacati e la voce calma; l'aurea inconfondibile del ragazzo saggio, insomma, e solo appena invecchiato. Così, tra un bicchiere di moscatello di Atzara e due risate meditabonde davanti ai disegni esposti nella grande corte, è nata questa intervista, voluta da chi scrive con l'idea di mettere in luce un artista tanto interessante quanto estremamente riservato, e forse è proprio questa sua qualità umana che, sin qui, ha consentito la conoscenza della sua opera solo a una ristretta cerchia di estimatori.
Lorenzo, quando e perché hai lasciato la Sardegna, poi l'Italia, e perché hai scelto un paese dell'America latina?
Nel 1977, per studiare. Dopo la laurea in architettura sono partito con mia moglie Laura in America Latina, entrambi impiegati come volontari in un progetto di cooperazione. Destinazione: Bolivia, dove Laura lavorò con le donne Aymara (etnia prevalente della zona andina), e io lavorai in una ONG su progetti integrati in zone rurali, e nel tempo libero appuntavo il mio viaggio, soprattutto con il disegno.
In cosa consisteva esattamente la tua attività lavorativa in Bolivia?
Le mie funzioni erano quelle di logistica e seguivo il recupero di abitazioni in terra cruda, materiale di costruzione che ho scoperto prima lì che in Campidano. [E sorride.]
Questa esperienza ha condizionato il tuo modo di disegnare?
Mi ha influenzato molto sul colore. All'epoca il personaggio femminile, icona dei miei racconti illustrati, la tziedda ovoddese, vestiva i costumi e i colori della Bolivia. La parte grafica è rimasta quasi uguale, ma sul colore la mia ricerca si è approfondita, anche con lo studio degli aguayos, i tappeti tessuti dalla donne boliviane. 
Cosa raccontavi all'epoca? In particolare ho realizzato per una casa editrice, la Hisbol (Historia de Bolivia), delle cartoline illustrate un po' satiriche proprio sulla realtà della cooperazione. Lavorando sul campo coglievamo tante contraddizioni. Paradossalmente i progetti che funzionavano meglio erano quelli realizzati con pochi soldi, ma che vedevano tanta partecipazione delle comunità. Noi eravamo a La Paz, dove aveva sede la nostra ONG, ma io viaggiavo presso diverse comunità rurali, sia dell'Altipiano sia nelle valli tropicali.

Il ritorno alla Sardegna nell'arte?
Mai andato via, in quel senso, anche se la gran parte delle opere più importanti le ho fatte fuori di qui, indubbiamente legate alla nostalgia. Un discorso che con il distacco riesci a elaborare anche in forma più profonda, cedendo meno al folklore.
Quando hai iniziato con la satira?
L'ho scoperta tra la fine del liceo e l'inizio dell'università, nel periodo d'oro delle riviste satiriche italiane [Il Male, Cuore, Ranxeros, Mucchio Selvaggio, Linus, ecc. N.d.B.M.]. Non sono mai stato un appassionato di fumetti, ma in quel periodo chi come me amava il disegno non poteva non essere attratto dal Male o da Cuore, per stare a due esempi della satira dell'epoca. Ma la mia curiosità più grande è e resta legata alla satira di costume: alla cinesica, all'animazione degli oggetti della cultura pastorale, tipo i gioghi dei buoi (juvales), che sono diventati icona dei personaggi maschili nei miei ultimi lavori.
Tuttavia, la grande parte dei tuoi disegni, anche ma non solo per quanto concerne la satira di costume, sono al femminile: esiste un motivo?
Il mondo femminile forse è la Sardegna. Questa ricerca (donne del pane, donne che giocano con i bambini, ecc.) è derivata soprattutto da avvenimenti autobiografici, legati alla mia infanzia a Ovodda. Sin da bambino ho percepito molta più comunicazione diretta nel mondo femminile. I sottintesi, i silenzi, i modismi erano propri del mondo maschile.
Come continua la tua ricerca?
Attualmente sono concentrato nello studio dell'architettura vuota, come hai visto, determinato dal fenomeno che ormai tutti chiamiamo “spopolamento”. Ci sono architetture che resistono e intorno alle quali non vediamo più delle attività, nel senso reale delle abitazioni, ma anche in senso estetico. Nel vuoto individuo l'architettura, anche questa in via d'estinzione. In Sardegna si fanno i murales perché non c'è più architettura. Ecco, i miei ultimi lavori sono frutto di una ricerca del vuoto applicata all'architettura. A me piace il lavoro "a fil di ferro", pertanto mi concentro molto sul bianco, e poi sul nero, sul pieno e sul vuoto, per essere molto incisivo nel mettere in luce la forma.
Nelle due mostre estive, a Lodine e a Ovodda, hai riscontrato curiosità? Sì, ho sentito molto interesse per le mie opere e anche attrazione per il disegno leggero, ironico, e anche i più giovani mi hanno fatto domande attente, puntuali. Ad esempio sono rimasti incuriositi dal rametto che hanno in bocca sos juvales, le figure maschili, e restavano stupiti quando gli raccontavo che era la cosa più naturale del mondo, un tempo, andare in campagna e mettere tra i denti un filo di fieno, un ago di pino, e dunque io ho voluto vederci anche qualche foglia di ghianda, per esagerare un po'. [E ride]. B.M.

7 settembre 2016

Un canto per Aldianoa

Aldianoa. Un nome la cui sonorità è lieve e forte a un tempo. E ha un colore: bianco; arvu, arvéschia, alba, un'alba sul mare... O forse è Ardia quel suono? Ardimento? È coraggio? Oppure è Algìa, algos, dolore, tristezza? Il nostos, allora, ossia il ritorno al paese natale – ché questo è il plot di Se ascolti il vento di Franco Mannoni – provoca di per sé nostalgia? Nostalgia di cosa, se il ritorno si verifica? È una nostalgia nuova? La nostalgia di un futuro che non si è mai avuto, ad Aldianoa? «Se non dovessi tornare,/ sappiate che/ non sono mai partito – scrive Giorgio Caproni –. Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua dove non fui mai».
Aldianoa, che ha quel suffisso, noa, che evoca una promessa, come di promesse ha sapore il vento che arriva dal mare... Non lo so, ma so che intorno all'onomastica fantastica si possono organizzare tante suggestioni, ragioni e sentimenti che premono e rendono necessaria l'invenzione di una parola nuova. Così, nel romanzo di Franco Mannoni, il nome prende il posto di quello del paese natale dell'autore, Santa Teresa di Gallura, luogo che nel libro viene presentato innanzitutto nel suo profondo legame con il mare e i venti, nominati a uno a uno, dandogli anche una psicologia e dedicando ai loro nomi belli alcuni dei capitoli più significativi del libro: “Maestrale”, “Tramontana”, “Libeccio”, “Grecale”. 
Il primo dei 28 brevi capitoli del romanzo, “Arrivo”, dice del ritorno al punto da cui il protagonista, Attilio Serra, è partito; l'ultimo, intitolato “Partenza”, in verità è una ripartenza: d'altronde non è già Eliot a indicarci che «ritorna solo colui che non è mai partito»? Il libro racconta il ritorno di un uomo al suo paese d'origine e il ritorno si tramuta in un'autentica ricerca che esplora il noto e il consueto con occhi nuovi. Ed è sorprendente, come stavolta insegna Proust, la quantità e la qualità di nuova memoria che può scaturire dalla riflessione condotta attorno a cose che a suo tempo sono passate inosservate. Quindi la ricerca riguarda soprattutto (anche se non espressamente) il proprio sguardo sul presente, il sé, il punto a cui si è giunti e perché. E ciò avviene attraverso il confronto costante dei ricordi del passato con quel che di essi resta nel presente del punto da cui si è partiti: il paese natale. È ancora Eliot, in Quattro quartetti, che scrive mirabilmente l'effetto di questo genere di ricerca rappresentato dai ritorni: «Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta». 
Il protagonista del romanzo di Mannoni attiva la conoscenza del proprio presente misurandola con la memoria, che talvolta è lieve – come nel caso dei ricordi portati dalle canestre, i dolci galluresi che ancora resistono nello stesso profumo, riportando a certe atmosfere dell'infanzia, come sa fare un vento buono ; altre volte è inquieta, come un maestrale d'inverno; altre ancora è dolorosa, come una tramontana che spazza il mare mettendo a rischio la vita dei pescatori di Aldianoa. Ciononostante, da parte di Serra, è una memoria voluta, cercata: un esercizio utile a comprendere cos'è diventato il luogo da dove si è partiti. E ciò accade tramite una riflessione condotta per tutto il libro, che coerentemente rinvia dalla propria personale intimità alle considerazioni che riguardano un'intera collettività. Così accade al personaggio protagonista del romanzo, dirigente scolastico alle soglie del pensionamento, reduce da un problema di salute, che si concede un lungo intervallo per esplorare geografie a lui note. I ritorni ad Aldianoa si sono succeduti negli anni, soprattutto in estate, ma questa lunga pausa non è una vacanza, ancor meno lo è da se stesso, nascendo, anzi, dal «desiderio» di una maggiore «prossimità» con le cose, i paesaggi, la gente che si vuole riconoscere, riavere come comunità di appartenenza; dal bisogno umanissimo «di risentire voci, parole, di riappropriarsi di scorci di luce, di avvertire ancora familiari rumori e odori, di verificare quanto l'immaginario possa essere ritrovato e rivissuto e quanto invece si sia smarrito, disperso».
Insomma, è un ritorno progettuale, ed effettivamente per Attilio Serra diventa l'occasione per riallacciare i fili avviluppati della sua famiglia; rievocare storie semplici e struggenti, drammatiche e sentimentali, tutte significative e tuttavia, sin qui, dimenticate; diventa l'occasione per riscoprire la lingua gallurese, realizzata come elemento di commossa partecipazione affettiva alla memoria della figura materna; ricostruire la storia con la esse maiuscola, che a tutti appartiene e che tutti ha toccato, anche nel microcosmo di Aldianoa: le due guerre, il fascismo, la ripresa (notevole il capitolo intitolato “Boom”, che arrivando già da pagine critiche, suona curiosamente ironico), il segno della cosiddetta Rinascita sarda, la crisi, lo sradicamento a cui segue un enorme spaesamento. E sì che già ci aveva messo sull'avviso Cesare Pavese, in La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Così, all'incanto del tempo intimo, personale, «ritrovato», per dirla ancora con Proust, fa da contraltare il disincanto nella constatazione che nulla è come prima. Il cemento ha cancellato persino il canneto dell'infanzia, che ascoltava il vento e lo registrava nei suoi movimenti, e il paese di vento e di mare è stato piegato dal degrado delle cose e, sostanzialmente, dell'intera piccola comunità. Tristissimo e feroce è il racconto delle disavventure dell'ortolano dandy Vensà e del suo inquieto compare Mimì, cacciati a malo modo dal Marylin Bar per la loro esuberanza: strafatti di Cuba Libre, scocciatori di Ella Bolkan, alias Stella, ragazza cubo, «metafore di un microcosmo che si era girato da un'altra parte, buttando via quanto di bello e poetico c'era stato ad Aldianoa, solo per uniformarsi alla volgarità imperante in tutto il resto del globo». 
Ma ciò che maggiormente rende efficace l'opera letteraria di Mannoni, secondo me, è che in essa si annuncia e si tiene fede al patto stabilito con il lettore sin dalle prime pagine: l'autore non abdica mai al timore che con circospezione avverte nella trappola nostalgica, in cui ben sa quanto sia facile cadere andando a vivere per un lungo periodo accanto ai «fantasmi» di giovinezza. Quei fantasmi sono vivi: «Viviamo con e fra i fantasmi./ Fantasma è l'immagine, l'evocazione, il richiamo di chi non c'è più./ Fantasma è ciò che non si è più perché ci si è evoluti, diventati nuovi e diversi da quel che non si è più ma si è cristallizzato nella memoria./ […] Viviamo fra persone e fantasmi, dove le persone prendono vita attraverso l'attività del pensiero./ Ma anche le persone sono fantasmi». Ecco, nonostante il livello introspettivo e la profondità dell'attraversamento di ciò che Serra nomina come «fantasmi», e nonostante essi vengano evocati e convocati progettualmente dal «cercatore di memorie», nel romanzo non sussiste la banale nostalgia, il sentimentalismo, l'eccesso di debolezza spirituale. Chiaro, si tratta anche di una ricerca sentimentale, ma in senso nobile, spiritualmente forte, e ciò traspare dalla scrittura di Mannoni, di cui Serra è evidentemente alter ego, la quale – e spero che la mia considerazione non sembri un paradosso – è sempre estremamente razionale. L'autoanalisi è al limite della spietatezza, la scrittura è vigilata, direi anzi governata da un certo pudore estetico, che arriva a chi legge non già come freno all'immaginazione, bensì come un valore di altri tempi. Non è facile scrivere così, cioè riuscire ad esprimere esattamente quel che s'intende, toccando corde anche intime, ma conservando alta la consapevolezza che le trappole del sentimentalismo possono tendere agguati micidiali all'autenticità. 
Dunque cosa fa Serra ad Aldianoa? Cosa cerca? Cosa scopre? Soprattutto cosa rivela di nuovo a chi legge, compresi coloro che pensano di conoscere il luogo, e magari, anche, lo abitano?
Vagabonda per le stradine del borgo; si ferma ad ascoltare gli uomini e le donne, le loro storie o anche solo un episodio che ne caratterizza le personalità; sosta nelle stanze della sua casa natale, catalogando gli oggetti come ricordi di umanità, che donano a ogni «fantasma» carne e spessore; ripercorre la storia della sua stirpe, in zona realtà come in zona mito. Ma, soprattutto, Serra attraversa la storia di Aldianoa adottando il punto di vista del gabbiano, cioè conservando uno sguardo esterno, non frontale, obliquo come quello dei piloti di volo durante un atterraggio, lontano dalla stucchevole sequela di elementi che segnano “i bei tempi andati”, ossia non contrapponendo il presente a un passato in cui (Mannoni lo sa e racconta anche di questo) la gente di Aldianoa, alias Santa Teresa di Gallura, viveva faticosamente di un'economia di sussistenza. Attraverso lo sguardo del gabbiano (nel libro c'è davvero il paesaggio costiero gallurese osservato da un immaginifico gabbiano), il cercatore di memorie evita quell'autoreferenzialità che spesso troviamo nelle opere dei nostri contemporanei, e che un po' ci disturba. Con sobrietà riesce a trasmettere in chi legge il proprio amore per le geografie fisiche e umane ripercorse, suscitando la tenerezza che è la sua stessa tenerezza, stuzzicando il pensiero critico; fa percepire il senso di perdita e la nostalgia per un futuro che non si è osato disegnare come differente, in quei luoghi, così evocativi anche di altri luoghi. La rende dolente, quella tenerezza, allorché il punto di vista del gabbiano, sin lì concentrato sull'eterno splendore dei paesaggi di una natura arcaica sopravvissuta ai secoli, si sposta in quelli urbani, nelle strade e negli edifici dei centri abitati, facendo arrivare violentemente un presente che, in fondo, ha tradito per modo di dire il futuro, ché del futuro sembra si sia diventati consapevoli soltanto una volta che se ne è afferrata la sua sottrazione. Lancinante è l'umanità – raccontata con pietas – che mai ha avuto il coraggio di immaginare veramente. Inflessibile è la cronaca dello scacco esistenziale di una società – quella gallurese e sarda – che ha commerciato e sostituito il proprio decoro con un pacchiano abusivismo, condizionata nelle architetture e nei comportamenti dall'avere seguito le orme nazionali, intese come il peggio che arrivava dal Belpaese. E buonanotte alla comunità, alla bellezza, all'etica, al senso di tutto.  

In conclusione, Attilio Serra non è un uomo baciato da ottimismo, ma sa che senza la speranza non si può vivere: non ce la farebbe lui, non ce la faremmo noi. Il personaggio costruito da Mannoni, nonostante tutto, riesce a conservarla, e nei suoi «appunti» (diversi capitoli si chiamano così) scrive spesso dei bambini. Mi è difficile restituirla senza banalizzarla, la speranza di Serra, così provo a dirne con le parole di una canzone:
«Separazione,/ gli Uccelli in partenza ci chiamano,/ ma noi rimaniamo qui/ sposati con la paura di volare./ Via terra/ i venti del cambiamento consumano la terra,/ mentre noi rimaniamo nelle ombre delle estati passate./ Quando tutte le foglie/ sono cadute e trasformate in polvere,/ noi rimarremo incatenati alle nostre vie./ Indifferenza,/ la piaga che si muove in questa terra./ Oscuri segni nel disegno delle cose che verranno./ Il domani del bambino è l'unico bambino». 
Bastiana Madau per Se ascolti il vento di Franco Mannoni, Arkadia, Cagliari 2016, 132 pp.
Foiso Fois, Il canneto (particolare). Dall'immagine di copertina del libro di Franco Mannoni Se ascolti il vento.

4 settembre 2016

Il progetto della felicità

Recensione di Maria Paola Masala al saggio Bastiana Madau Simone, le Castor. la costruzione di una morale (Cuec, Cagliari 2016).

Desiderare aspramente la felicità, e su questo desiderio fondare una morale. Lo ha fatto Simone De Beauvoir, declinando a suo modo un tema assai caro alla tradizione letteraria francese, le bonheur, e riuscendo a costruire intorno ad esso un progetto di vita, dove il cambiamento, la messa in discussione del presente, l’accettazione di un avvenire aperto sono la strada per afferrare il mondo.
A disegnare un ritratto, denso di pensiero e di empatia, della grande filosofa e romanziera francese, voce tra le più significative della filosofia e della letteratura impegnata, è l’intellettuale oranese Bastiana Madau, scrittrice, operatrice culturale di valore ed editor. Il suo interesse per lei viene da lontano.
Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera.
Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-Paul Sartre divise vita, pensiero, impegno politico.
Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro), “Simone, le Castor. La costruzione di una morale” percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile.
Scrivere di Simone De Beauvoir, ci dice Bastiana Madau, significa confrontarsi con un’intellettuale non ignora mai il mondo reale, e non trascura lo smacco: la sua scrittura e la sua riflessione sono sempre divise tra individuo e collettività, rivolte alla condizione umana, fatta di uomini e donne che fanno i conti con un corpo, un tempo, un luogo, una condizione sociale. La sua figura segna così il passaggio a un modello innovativo di intellettuale, che non può più permettersi di scrivere per sé, ma deve approdare a un impegno “militante”, accettare il rischio di vivere «la grande avventura di essere me stessa».
Il saggio di Bastiana Madau riattraversa tutti i temi beauvoiriani segnati dalle contraddizioni dell'esistenza: lo smarrimento dell'essere umano di fronte alla mancanza di valori assoluti, Dio su tutti; la superiorità della coscienza, unico giudice a cui rispondere; l'impegno per una morale basata su principii indiscutibili ma sulla consapevolezza del limite comune a tutti gli esseri umani. Particolare attenzione è dedicata anche alla condizione della donna, che De Beauvoir affronta nel suo capolavoro, “Il secondo sesso”, testo imprescindibile della storia del pensiero femminile.
Quanto al titolo del saggio di Bastiana Madau che sarebbe davvero bello e utile poter leggere anche in versione cartacea Castor era il nomignolo con cui Sartre chiamava la sua compagna. A idearlo fu René Gabriel Eugène Maheu, alias Herbaud, professore di filosofia a Londra e amico di entrambi (e di Paul Nizan), che giocò con il cognome Beauvoir e il termine inglese beaver, castoro. Ma a renderlo vivo e pregnante fu il filosofo esistenzialista. Lo racconta l’interessata in “Memorie di una ragazza per bene”, e più tardi ne “L’età forte”. «Un giorno scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali: BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore». 

Maria Paola Masala, De Beauvoir, ovvero il progetto della felicità, L’Unione Sarda, venerdì 2 settembre 2016. (Riproduzione riservata)

17 novembre 2015

Fole di viaggio in ordine di arrivo

I sardi raccontati da chi li osserva dall'esterno, dagli “altri”, i non-sardi. Una prospettiva che a suo tempo appassionò Sergio Atzeni, attratto dallo studio delle “fole”, che lo scrittore provò a smontare in un libro uscito postumo con un titolo di presentazione programmatica: Raccontar fole (Sellerio, 1999). Interessante la lettera che presentava il testo al suo primo destinatario, l'allora direttore de “L'Unione Sarda” Massimo Loche: “Acclusa troverai la follia – descrizione della vita sarda a cavallo fra Sette e Ottocento, quando altrove si facevano Rivoluzione industriale e Rivoluzione Francese – costruita usando soltanto scrittori non sardi: italiani, tedeschi, francesi, inglesi. I sardi del passato non raccontati da se stessi ma da un occhio esterno: un po’ perché a quel tempo da sé non si raccontavano – chi scriveva preferiva inventare storie giudicali –, un po’ perché gli stranieri sono talvolta divertenti, un po’ perché l’occhio esterno vede con più freddezza, con meno affetto”.
L'attenzione verso gli elementi del vero e del falso nella descrizione della Sardegna ritorna oggi nel bel volume Viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna (Alfa Editrice, 2015) a opera dello storico della letteratura sarda Francesco Casula, che arriva in libreria subito dopo il varo di due preziosi tomi, a firma dello stesso autore, riuniti sotto il titolo Storia della letteratura e della civiltà in Sardegna, proseguendo, quindi, l'importante intrapresa dello studioso nella costruzione di compendi di taglio critico e didattico. Convince subito la sapiente struttura del libro: Casula presenta il singolo “viaggiatore”; espone il motivo del suo soggiorno nell'isola; riassume i punti salienti del resoconto di viaggio, mettendolo anche a confronto e in contraddizione con altri coevi; informa sui pareri critici di autorevoli analisti in merito ai resoconti dei viaggiatori (talvolta non concordanti, come nel caso, ad esempio, delle osservazioni di Giulio Angioni e Sergio Atzeni in merito alle descrizioni di Joseph Fuos in Notizie sulla Sardegna, edito a Lipsia nel 1780, tradotto e pubblicato in Italia nel 1899); espone, da storico, la sua analisi (sul “viaggiatore” citato, ed esempio, esordisce: “Certo è che Fuos scopre il contrasto tra un territorio bellissimo e dalle ricchezze inesauribili e le sue difficili condizioni sociali ed economiche...”); riporta tutte le edizioni e riedizioni dei singoli resoconti, nonché i titoli dei saggi che li riguardano, e l'insieme bibliografico è dato in maniera discorsiva nel corpo del testo, interno ai contenuti riguardanti le descrizioni dei viaggi, sicché pregio dell'opera è anche l'avere evitato un numero considerevole di note, senza nulla togliere alla profondità dello scavo; infine, propone significativi stralci di lettura del resoconto del “viaggiatore”, per cui il risultato è straordinariamente interessante anche per la varietà dello stile linguistico e letterario dei molteplici autori. ... [Continua aprendo il link] Bastiana Madau, I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna, Il manifesto sardo, 16 novembre 2016. 
Fonte immagine: La Sardegna di Thomas Ashby. Fotografie 1906-1912, Carlo Delfino, Sassari 2014.

13 novembre 2015

Tipi, stili, tipi-tiponi, tipi così così

«[In] quest'epoca che rimbomba dell'orribile sinfonia dei fatti che producono notizia e delle notizie che sono colpevoli dei fatti [...]. Nei regni della povertà della fantasia, dove l'uomo muore di carestia spirituale senza accorgersi della sua fame spirituale, dove le penne sono intinte nel sangue e le spade nell'inchiostro [...]. Chi ha qualcosa da dire si facciavantietaccia.» Così Karl Kraus, uno dei principali autori satirici e critici del linguaggio del XX secolo, citato da Alfonso Berardinelli nel saggio dal titolo “Tipi, stili, poteri intellettuali”, contenuto nel pamphlet recentemente pubblicato dall'editore Enrico Damiani 12 apostati, 12 critici dell'ideologia italiana. L'aforisma di Kraus rende bene l'idea su cui Filippo La Porta, curatore del volume, ha chiamato a riflettere 12 autori e autrici sul tema dell'attuale produzione editoriale italiana. Ciascuno di essi lo ha fatto con il proprio stile e da una particolare prospettiva, facendo emergere la generale assenza di testi intellettualmente “disturbanti” e piuttosto appiattiti sui fatti, con esiti consumabili e consumati nel giro di una stagione di mercato. I brevi saggi che compongono il volume sono scritti da Paolo Morelli, Guido Vitiello, Camilla Baresani, Matteo Marchesini, Massimo Onofri, Vittorio Giacopini, Daniela Ranieri, Silvia Perrella, Paolo Febbraro, Franca D’Agostini, Alfonso Berardinelli, Giuseppe Samonà, più il curatore Filippo La Porta. Particolarmente interessanti sono i saggi di Onofri – che tramite l'analisi di alcuni autori italiani di successo, si interroga su ciò che “la funzione D’Annunzio” continua a rappresentare, in relazione a ciò che chiama “dannunzianesimo degradato di massa, che di quella specie di «superuomo» rappresenta, forse, la declinazione più replicata” –, di Samonà – scrittore che ha ormai trascorso quasi tutta la vita all'estero e che propone una bella riflessione sul laboratorio “transnazionale e transculturale”, dove la lingua italiana si traduce e autotraduce in costante confronto con le altre lingue del mondo –, di Vitiello – che, a partire da un volume fotografico contenente 99 ritratti di scrittori e scrittrici italiani d'oggi, parla di una mera "fiera della vani", estranea, dunque, alla scrittura che lascia un segno. Insomma, 12 apostati 12 critici dell'ideologia italiana – insolito nella sua forma collettiva e, dunque, tutt'altro che uniforme in quanto a punti di vista – è un cahier de doléances che sta facendo discutere, a sua volta sottoposto a giudizi critici, in quanto non esente da qualche eccesso di saccenza. D'altra parte, visto il progetto rivelato già nel titolo, se non facesse discutere si rivelerebbe come un libro inutile, no? Leggetelo.
Bastiana Madau