31 gennaio 2011

Cartoline dall'Egitto

Ma perché anticipare i fatti? Shagar non ha ancora visto il cordone di sicurezza intorno all’università, i manganelli, i lacrimogeni, il fumo e il fuggifuggi generale. 
Né ha notato quel contadino olivastro, povero e giovanissimo che indossava la divisa militare e stava in piedi fuori del recinto, con la canna del fucile infilata tra due sbarre, per puntarla pazientemente verso i manifestanti, quasi avesse imparato il mestiere andando a caccia di capriolo con un nobile europeo del Medio Evo. Lei non è stata ancora colpita da un manganello che le avrebbe lasciato un segno blu sul braccio destro. Quella Shagar viene dopo. La Shagar di adesso ha diciassette anni ed è una matricola del Dipartimento di Storia.
Si era davvero iscritta a quel corso di studi, solo perché era stata influenzata in tal senso dal professore che aveva avuto a scuola per tre mesi? Difficile stabilirlo: tante cose possono succedere in pochi giorni, quindi figuriamoci in cinque anni di vita di una ragazzina che era cresciuta amando i libri come un topolino di biblioteca. Un giorno, mentre stava in quella della sua scuola, le era capitato tra le mani un volume sulle leggende egiziane antiche. Da lì era passata a tutti gli altri testi disposti nella stessa fila e, alla fine, aveva scelto di studiare Storia all’università.
Agosto 1967. A tavola, durante il pranzo, suo padre avrebbe annunciato la notizia, ridendo:
– Una laurea con la lode e la menzione di merito.
Lei non rise. Senza dire niente, andò a rinchiudersi nella sua stanza.

Anno accademico 1967-1968. Shagar era tutta concentrata sugli studi dell’anno preparatorio del magister, il titolo per l’abilitazione alla docenza universitaria. Andava e veniva dalla sua facoltà. Frequentava le lezioni e la biblioteca. Leggeva, riempiva le schede di citazioni e note, consegnava la ricerca che le era stata assegnata, puntuale ed efficiente come una macchina. Ma la sua anima che fine aveva fatto? Se ne era andata via alla chetichella per appartarsi in un posto lontano. Lei non si arrabbiava, non piangeva, né prendeva una pausa. Nei giornali, alla radio e sulle bocche dei parenti e dei vicini circolavano tanti discorsi sul Sinai e sui soldati dispersi in mezzo al deserto. Lei captava tutto e tirava avanti per la sua strada, come se nulla fosse.
– Perché hai cambiato idea? – le avrebbe chiesto il suo professore, aggiungendo: – Hai sempre voluto specializzarti in storia faraonica. Che cos’è successo di nuovo?
Gli avrebbe semplicemente risposto:
– Studierò Storia Moderna. Credo che sia quello che voglio.
Qualche anno dopo, Shagar avrebbe indicato quella svolta con l’espressione ‘inversione a U’: era un cambiamento netto e integrale, come quando, in macchina, sterzi tutto a sinistra per percorrere la stessa strada in senso contrario. Si era procurata tre scatoloni di cartone per riporvi i testi di storia, mitologia e architettura dell’antico Egitto che avrebbe tolto dagli scaffali: vi erano quelli dello studioso egiziano Salìm Hassan, con le copertine sbiadite che riportavano soltanto il nome dell’autore; quelli francesi e inglesi, con le copertine lucide decorate da perfette riproduzioni di particolari delle Valli dei Re e delle Regine; quelli che aveva comprato da quando aveva undici anni; quelli che aveva fotocopiato dalla biblioteca dell’università e poi rilegato con delle copertine rigide di color verde oliva, confezionate da un artigiano della zona di al-Azhar, vecchio amico di suo nonno ‘Abd al-Ghaffàr che glielo aveva indicato. Sistemati tutti quei libri negli scatoloni, lei si era guardata intorno. Missione non ancora compiuta: restavano da sistemare i quadri. Erano delle semplici riproduzioni su carta che aveva fatto incorniciare. A questo scopo lei le aveva arrotolate e legate con un nastro sottile per portarle in un negozio del centro. Dopo quindici giorni le aveva riprese in consegna: erano quattro grandi quadri, ognuno racchiuso in una cornice e protetto da un vetro. Li aveva portati a fatica fino alla via principale, dove le erano passati davanti tre tassì, con gli autisti che rifiutavano di tirarla su insieme a quel carico. Finalmente, ne era giunto uno di buon cuore che aveva accettato di accompagnarla e quindi l’aveva anche aiutata ad arrivare con i quadri fino alla porta di casa.
Sopra il letto, proprio di fronte alla porta della stanza, aveva appeso l’immagine di Maat, la signora con la bilancia, dea della verità e della giustizia. Quella figura femminile guardava alla propria destra. Seduta alla scrivania, Shagar riusciva, con una piccola rotazione a manca, a vedere il viso di Maat che, rivolto tutto in una direzione, lasciava in mostra solamente il profilo sinistro. La lunga piuma di struzzo, messa in posizione verticale, era tenuta ferma da un nastro rosso legato intorno alla testa della dea, all’altezza della fronte. Iscrizioni geroglifiche apparivano sullo sfondo.
Sulla parete a sinistra, proprio dietro di lei quando stava alla scrivania, si trovavano altri due quadri: il primo raffigurava Iside. Lo sfondo era celeste, la dea aveva i capelli crema e azzurro, mentre la sua corona, formata dal disco solare e dalle corna di Hathor, era parzialmente dipinta di un giallo ocra misto al colore del legno di rosa, usato anche per il viso, le spalle e le braccia. Iside reggeva lo scettro reale con la mano destra. Accanto alla sua immagine era appesa quella della dea vacca, Hathor, raffigurata insieme al faraone bambino Amenhotep II. Entrambi i loro corpi erano color ocra. I capelli di Amenhotep II e le macchie del manto della vacca – macchie a foggia di stelle rappresentanti le anime dei morti – erano verdi. Seduto sulle ginocchia sotto l’arco formato dal ventre e dalle zampe di Hathor, il piccolo faraone stava su uno sfondo azzurro chiaro, con la testa alzata nell’atto di allattarsi alla mammella. Sopra la sua scrivania Shagar aveva messo l’immagine di Nut, la dea del cielo. Era una donna che toccava la terra, da un lato, con le punte delle mani, e dall’altro, con quelle dei piedi. Le gambe, le braccia e il fusto decorato da stelle formavano un arco, circondato dal corpo del suo fratello e sposo, Geb. Dio della terra, quest’ultimo le giaceva nel grembo, mentre le piante gli crescevano sulla schiena.
Shagar tirò giù i quadri, li avvolse in un lenzuolo e li legò insieme. Prese la copia del papiro di Ani che teneva sempre sulla scrivania, e la buttò in uno dei tre scatoloni. Chiese a sua madre di aiutarla a spostarli fuori della stanza. Poi si procurò una scala, per portarli uno a uno nel solaio. Sua madre le domandò allora perché stesse facendo tutto ciò, lei borbottò delle parole incomprensibili. Tornata nella sua camera, si guardò in giro: ormai non vi era rimasto più niente, eccetto gli scaffali con sopra qualche vocabolario, la piccola libreria completamente vuota, la scrivania, il letto e la toeletta. La stanza sembrava spoglia, misera e fredda. Lei si sdraiò sul letto e si addormentò.

Una cartolina colorata, grande quanto il palmo di una mano, infilata sotto il vetro della scrivania: raffigurava l’enorme bilancia con i due piatti che Thot, il dio della scienza, era fermo in piedi a osservare, tenendo i suoi fogli nella mano sinistra e la penna nella destra. Shagar si accorgeva ora di avere dimenticato di togliere quell’immagine il giorno prima. La guardò e decise di lasciarla lì.
Radwa Ashur, Atyàf. Fantasmi dell’Egitto e della Palestina, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanelli, Ilisso, Nuoro 2008, pp. 43-46.


30 gennaio 2011

Umm

Significa madre, lo sanno tutti. In senso proprio come in Umm Muhammad, la madre di Maometto o in senso figurato come in Umm Kalthum, la madre dalle guance paffute, la donna dal viso rotondo. Ma poche sono le persone che conoscono la sua vera origine, Amma, dall'aramaico, sopraggiungere, iniziare, guidare. Un'intera famiglia di parole derivanti l'una dall'altra, Oumma (la comunità, la nazione), Iman (lo sceicco che è in prima fila tra i fedeli), Ima (la donna venale dei tempi degli Abbasidi, l'equivalente arabo della geisha), e altri. Per me significava quell'originario sentimento che ci ha dominati per un intero secolo: appartenere a uno stesso ventre impossibile da lasciare.
La notte si è allungata / La notte si è allungata / E la ferita si è aperta...
Non aveva ancora venticinque anni quando cantava questa canzone, la notte, la ferita, già. Ma come si proiettava verso il futuro! Lo si sentiva nella voce, lo si sente ancora. Provava una voce tutta nuova, meravigliandosi. E anche questo si sente chiaramente, la sua meraviglia. ...
O viaggiatore sul Nilo, portami. Il disco gira mentre ti scrivo. Canzone di viaggio, canzone beduina, tenere gli occhi chiusi, nessuna amarezza, nessun rancore, la musica mi trascina. Tra dieci anni, tra venti, basterà accendere la radio a qualsiasi ora, su qualsiasi frequenza, da Baghdad a Casablanca, il mondo arabo continuerà a vivere sotto il suo impero. Diranno che è una bella voce, niente di più, resterannno affascinati senza capire perché. Io lo so. In quel palazzo di sogno che abbiamo costruito con le nostre mani, ci abbiamo vissuto, era il nostro tempo, l'umore del nostro mondo. Lo sappiamo noi di cos'è fatto, di quale vero amore. Accenderanno le radio, crederanno di sentire un'unica canzone.
Sélim Nassib, Ti ho amata per la tua voce, traduzione di Barbara Ferri, e/o, Roma 1997., pp. 248-250.

Lev R., bibliotecario catalogatore

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57.
E trema la pistola da duello nella mano dell'ufficiale zoppo.

58.
E trema il romanzo francese aperto a metà nella mano della giovane dama.

59.
E trema la tabacchiera d'argento nella mano del giovane pallido.

60.
E trema la croce di peltro nella mano del soldato ubriaco.

61.
E trema il grande samovar d'argento nelle mani del medico militare ubriaco.

62.
E scuote leggermente il becco lucido il grande uccello nero immobile sul busto di gesso di un'antica dea.

63.
Questo sono sempre io.


. . .

sabato poesia, da mirumir

27 gennaio 2011

A marzo, pecore e agnelli troppo lenti…



Qui puoi vedere integralmente la diretta dello spettacolo andata in onda ieri sera sulla 7. Poi, se ti va, dai anche un’occhiata a quel che scrive Strel.

Ricordatevi di Hurbinek

"Lossa è finito in manicomio perché non c'erano insegnanti di sostegno", dice Marco Paolini raccontando di un bambino con "disturbi mentali" internato in un ospedale nazista e cavia delle sperimentazioni psichiatriche. Una frase potente che, in perfetto stile del teatro paoliniano, impone la ricostruzione del processo da cui quella figura di insegnante è scaturita. Processo di cui "come italiani, una volta tanto dobbiamo essere molto orgogliosi" – dice Paolini, alla fine di  Ausmerzen – e che tuttavia, oggi, è fortemente minato dagli ultimi provvedimenti che limitano il sostegno ai disabili e alle famiglie, minacciando il ritorno all'istituzione totale, leggi: al manicomio. L'insegnante di sostegno è uno dei tanti e più importanti punti d'arrivo dell'"avanguardia" della psichiatria italiana, una figura (ignorata in altri paesi europei) che ha determinato la fine di quelle che, con espressione ipocrita, venivano chiamate "classi differenziali". Questo processo porta il nome di Franco Basaglia, e di tanti che hanno creduto e che ancora credono in una società libera, antitetica a qualsiasi forma di segregazione e di razzismo. La memoria è anche l'invito a continuare a perseguire quel possibilissimo sogno.

26 gennaio 2011

Vita e destino

In quella babele di lingue non ci si capiva, ma si era comunque uniti da un medesimo destino. Esperti di fisica molecolare e di antichi manoscritti dividevano il pancaccio con pastori croati e contadini italiani che non sapevano scrivere nemmeno il proprio nome. Chi, a suo tempo, era solito ordinare la colazione al cuoco o angustiava la governante con la propria inappetenza, ora andava a lavorare fianco a fianco con chi mangiava solo baccalà, l'uno e l'altro in ciabatte di suole di legno, sbirciando angosciati l'arrivo del  Kostträger, il "kostrìga", come lo chiamavano gli inquilini russi delle baracche, il portasbobba.
Nelle sorti della gente del lager la somiglianza nasceva dalla differenza. Un giardino lungo una polverosa strada italiana, il cupo fragore del Mare del Nord, un coprilampada di pergamena arancione in casa di un dirigente alla periferia di Bobrujsk: il loro passato poteva avere poco in comune, ma non c'era detenuto per cui non fosse meraviglioso.
E più era stata dura la vita prima del lager, più ci si ostinava a mentire. Una menzogna priva di finalità pratiche che era piuttosto un inno alla libertà, perché fuori dal lager non si poteva essere stati infelici.
Vasilij Grossman, Vita e destino, traduzione di Claudia Zanghetti, Adelphi, Milano 2010, p. 15. 
 

22 gennaio 2011

Nive 2

Ci lasciamo alle spalle le secche di quest'altro gennaio. Piante innevate oggi, al risveglio. Leggo.

21 gennaio 2011

Al terzo livello dell'incubo

Sino a quando durerà? E chi ce ne tirerà fuori? Possiamo anche urlare nelle piazze – facciamolo – ma se non interviene sa justissia siamo definitivamente spacciati.

Mario Delitala, La cacciata dell'arrendatore [part.], 1926.

20 gennaio 2011

Fuga dei figli unici*

Ouvertures (a). Gli inafferrabili.
Gianni Casagrande’s Photostream. 


Gianni Casagrande, pittore, vive a Nuoro, dove è nato nel 1963. 
Nei suoi dipinti il titolo è una parte essenziale e funge da mappa o, se vuoi, da segnale stradale, come se da un determinato punto in poi ci si debba aspettare qualcosa, senza mai avere la certezza dello spazio in cui potrà accadere. Al centro della sua poetica c'è l’esperienza della vita quotidiana, ridotta e ritratta in frammenti, e questi ultimi analizzati fino al disvelmento che in essi non vi è mai nulla di ovvio e di scontato.
* Il titolo del post si riferisce a quello di un'opera dell'artista.

Fuori tempo


– Hey, why so serious?
– Come?... No, no, sono contenta. E smettila però, ho un attacco di anglofobia.
– E tando no ses alligra…
– Eja, t'appo nau. 
– Es caduto el gubierno en Ytaglia, cica?
– No. Ma sono contenta, punto.
– Porque tu es alligra, cica?
– Ma porc…! Non sai niente, scusa? 
– Nada de nada.
– Eheheh, ho le mie soddisfazioni, che ti credi. 
– Ah, visto. Y a ora è per quelo chi tu no es contenta! 
– Eja, t'appo nau, tanto più siamo costretti a sostare in quest'incubo, quanto più dobbiamo coltivare la gioia senza motivo.
– Ahahah!
– Tz, riso sardonico. E faveddha in italiano, chi s'ispagnolu no l'ischis.
– No, scusa, dove l'hai sentita questa scemenza marzulliana.
– E duas. Ite cheret narrer "marzulliana"?
– No ischis ite chere' narrere?!
– Non l'isco.
– Sei fuori dal mondo.
– No, ci sono dentro sino al collo. Ma deo non bjo televisione, ja l'ischis.
– Ok. E allora chi lo dice?
–  Lei.

Lamentation

Adios nae mia, adios mare,
reposu cherent sos trabaglios mios,
adios nae mia, mare adios,
seguru atera olta non m’ingabbas.
Adios nae mia, adios abbas,
ecco s’ultim’adios, s’ultim’ia
chi miro sa nae mia, non pius mia,
pro chi nd’hapo sas velas denunziadu:
d’unu turbulu mare tempestadu
non cherzo sos insultos pius proare.

Non timo pius su furore ’e s’entu
ne impetu de tant’ateras undas
chi gasi finzas a su firmamentu
s’alzaiant in attu furibundas,
s’ultimu de su mare fundamentu
reparesi, abbassendesi profundas,
e de torrare a terras sitibundas
disperaia essende in tal’istadu. (1)



1. Non ricordo il nome dell'autore del testo, che io conosco dal cd dei Pater Mediterraneo (titolo omonimo), per la voce di Pina Muroni, di cui possiedo l'originale ma senza la copertina. Quest'ultima era dentro la macchina che ci rubarono nel '99, vecchia automobile comprata di seconda mano mano,  tanto che oggi, a pensarci (ma non ci penso mai) rimpiango solo il contenitore di quel cd, un paio di libri, una biciclettina e vari giocattoli che erano dentro il portabagagli.

19 gennaio 2011

Pitzinnas / Ragazze

E mentre perdura il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, mentre si continua a rappresentare un'Italia ridotta a bordello… (Concita, oggi imperdibile.)

Berlino, estate 2010. In attesa del concerto.

G. e M. – 20 anni nel 2011 – studiano, partecipano alle attività delle rispettive università, si divertono, viaggiano, ogni tanto già lavoricchiano, hanno interessi e cose da raccontare, idee e domande su temi e problemi. Probabilmente la maggior parte delle ragazze gli somigliano, ma di loro non si parla mai nell'Italia di oggi. La misconoscenza e rimozione dell'universo femminile giovanile fa parte dell'assurdo in cui è avvolto il paese, rendiamocene conto.

17 gennaio 2011

Ni una más

Susana Chávez, 36 anni, poeta e militante messicana per i diritti delle donne, barbaramente assassinata a Ciudad Juárez il 12 gennaio 2011.


15 gennaio 2011

U samogo sinyego morya

Ad A.
Vola più veloce, gabbiano...
sul mare azzurro cala la notte...


Non ci siamo dimenticati. Come promesso, anche a noi stessi, abbiamo festeggiato questo giorno, iniziato con la nebbia e via via diventato bellissimo, con le secche di gennaio che illudono la natura, i mandorli e i perastri già fioriti, tra Dorgali e Baunei, e il mare salvo e salvifico di Santa Maria Navarrese. 
Ciao, bella.

Mare nighèddu





 Zaccadebòndhelu a culu, su catrame, miserabiles.
(foto di Paola Rizzu)

14 gennaio 2011

Angie



Per ascoltare Polisnauta Z (un testo bellissimo, secondo me) e Barbarico Yawp!, due pezzi scritti, musicati e suonati da Elias – e cantati insieme a Michela –, vai qui. Ogni tanto si sente anche la batteria di Vassili, eh.
Ancora Elias, con i Grey Summer, puoi ascoltarlo qui.

13 gennaio 2011

Me ne tekel ufares

Guardai Hrabal, volevo congedarmi da lui. La sua espressione era la stessa di un attimo prima, di una durezza ostentata ma assolutamente innocua. Mi venne in mente un celebre quadro di Rembrandt che raffigura il re dei babilonesi a cui appare sul muro la scritta di fuoco “Me ne tekel ufares” (“Sei stato pesato e trovato leggero” o qualcosa del genere). Il re è al centro di una tavolata, ha la corona un po’ a sghimbescio sulla testa. La sua espressione da ubriaco è di un vuoto stupore, di una sostanziale ignoranza del proprio destino; quel re apparve come simbolo di tutta l’umanità, disarmata e stupida di fronte al mistero. Avrei voluto abbracciare Hrabal ma non trovavo il modo di avvicinarmi a lui, tanto era stipato di bevitori quel locale. Mi inchinai, gli sorrisi e me ne andai.

Giorgio Pressburger, da: Dopo Hrabal, una rumorosa solitudine, Il manifesto, 17 aprile 1998.

8 gennaio 2011

Noi due saremmo

"Oh, Jake. Noi due saremmo stati bene assieme", fa dire Hemingway a Brett, alla fine di Fiesta
La prendo un po' alla larga per scrivere del ricordo di un viaggio di tanti anni fa. O meglio, di un unico ricordo di quel viaggio.
1984, credo, quando ancora le estati erano interminabili e i viaggi, anche con poche lire, duravano a lungo, e si tornava a casa solo per resa alla stanchezza. Quella volta girammo in lungo e in largo i Paesi Baschi. Nella tasca dello zaino avevo l'ultima edizione dell'epoca di un Oscar Mondadori che usavo come fosse una guida del Touring Club: Fiesta, appunto, con cui tracciammo le nostre tappe sino ad arrivare puntuali anche alla fiesta di San Fermín, a Pamplona, dove sostammo per una settimana divertendoci come "i pazzi" - direbbero oggi i nostri ragazzi (con l'articolo, chissà perché). 
E tutto ciò solo per dire che fu proprio a Pamplona che vidi il mio primo funambolo, e mi affascinò. Non è più capitato di incontrarne un altro uguale, però di sognarlo sì. Anche stanotte.  


6 gennaio 2011

Sopruso

Presepe al porto

Adesso, a parte tutto, i pastori sardi sono ancora oggi stanziali, anche nel senso che non sono esattamente dei "viaggiatori" e dubito che siano in tanti quelli che si concedono vacanze turistiche extraterritoriali, per così dire. Ora, il vero viaggio per chi abita in un'isola è la traversata marina, da un proprio porto all'altra sponda. E nella fattispecie, il vero viaggio è dentro la pancia della nave, tratta Olbia-Civitavecchia. Al termine, essere accolti da una selva di manganellate nel tentativo (riuscito) di non farti mettere piede a terra, è davvero una pessima idea, per non dire un'autentica, inaudita azione liberticida.

4 gennaio 2011

Winter holidays

Un vecchio dall'aria folle con un colletto da prete mi disse che la ragazza era stata punita da Dio perché Leimert Park aveva votato per i democratici nelle elezioni del '46. Un ragazzo mi mostrò la fotografia di Lon Chaney Jr e mi disse che il lupo mannaro assassino era lui. Soggiunse che in uno dei terreni fra la Norton e la Trentanovesima c'era un razzo spaziale sul quale Lon avrebbe preso il volo. Un tifoso di boxe mi riconobbe e mi chiese l'autografo, poi mi assicurò che il responsabile era il cane bassotto del vicino. Perché non andavo a sparare un colpo a quella bestiaccia? Dai sani di mente non ricavavo niente di interessante, dai matti solo fantasie. Cominciavo a sentirmi vittima di una mostruosa routine.
James Ellroy, Dalia nera, traduzione di Luciano Lorenzin, Mondadori, Milano 2001, pp. 103-104.

1 gennaio 2011

Rivolgersi alla terra

In questa intervista, Vandana Shiva* sintetizza alcune tematiche centrali del suo studio e del suo impegno: il diritto ai semi, la biopirateria, la non-brevettibilità della vita - leggendole sotto una luce nuova, quella che mette al centro della rinascita dell'agricoltura, non solo nei Paesi del terzo mondo ma anche nei centri sviluppati del pianeta, il recupero dei saperi e del ruolo delle comunità locali per creare un rinnovato rapporto fra l'uomo e la terra, basato sul rispetto reciproco e su un'idea di futuro possibile. 
Intervista di Marco Noferi.


* Fisica quantistica ed economista, dirige il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India. È la teorica più nota dell'ecologia sociale.