5 dicembre 2008

Dedicato



I film incantavano e nel contempo mettevano paura. Passavano per una strada piena di polvere che brillando danzava o squarciavano il buio con la spada di luce. Chissà da dove arrivavano, e dove facevano ritorno, dopo aver sostato nel muro davanti a noi.
Più alcuna polvere lucente, ora, ma lo stupore si rinnova, negli occhi dei bambini. E nell'attesa che ritorni anche nei nostri, continuiamo al portarli al cinema, i bambini, gli occhi.

18 ottobre 2008

Benvenuti a Puntabuia (appunti di onomastica)

Organizzato dalla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Sassari, nei giorni 8-10 ottobre 2008 si è tenuto il XIII° Convegno Internazionale di Onomastica & Letteratura, dedicato principalmente all’onomastica letteraria negli scrittori sardi e nel romanzo poliziesco. La scelta dei nomi nei romanzi non è mai casuale e riflette spesso l’intento dell’autore di disvelare al lettore ulteriori significati, fornendo così un’utile chiave di lettura del testo. La prima giornata si chiusa con la tavola rotonda, coordinata da Simonetta Sanna, “Scegliere il nome del personaggio”, a cui ho partecipato con Giulio Angioni, Alberto Capitta, Salvatore Mannuzzu, Salvatore Pinna (assente invitata Milena Agus). Le giornate successive sono state riservate all’analisi di questioni onomastiche nella letteratura italiana e straniera del ’900 e nel romanzo poliziesco. Di seguito il mio intervento. (b.m.)


APPUNTI SUL TOPONIMO NASCAR E SUOI NOMI DEL ROMANZO

Nascar è uno di quei misteriosi toponimi preromani della Sardegna dall’etimo sconosciuto: lo si può trovare nel Condaghe di San Pietro di Silki, datato sino al 1200. È attribuita al territorio di Usini la chiesa di Santa Maria di Nascar o Mascar – citata più volte nel condaghe – che doveva trovarsi annessa al villaggio scomparso di Mascar; con ogni probabilità fu edificata nella zona oggi denominata Santa Maria, nei pressi della stazione ferroviaria di Tissi-Usini, sulla riva sinistra del riu Mascarí… Ma, a dire il vero, questo con il mio romanzo intitolato Nascar, c’entra poco, anzi: niente.
Ho scelto questo nome innanzitutto per il suono, e da subito immaginando il suo significato come “luogo in cui si nasce”, e avente la stessa forma anche al plurale. Io cercavo un plurale.
Nascar non è solo il luogo natale: è anche molti e diversi luoghi, è ogni luogo in cui nasciamo, considerando suggestivamente come nascita/ri-nascita ogni esperienza di vita dove siamo riavvolti dallo stupore, persi nella meraviglia, coinvolti nella scoperta e nel movimento costante della ricerca di identità.
Così ho scelto Nascar perché il toponimo ha una radice che ricorda nàschida (nascita), naschìre (nascere), ma contiene in sé anche il verbo nàrrere, naràre (raccontare, narrare), e contiene interamente nas, la seconda persona singolare del presente indicativo (tue nas), e contiene un progetto: raccontare i luoghi in cui si nasce, lo stupore che nel vivere ci accompagna, tenere una sorta di diario di bordo collettivo, testimoniare dei “viaggi” da un’isola all’altra dell’arcipelago di Barbarìa
Il libro – sospeso fra prosa e lirica – è infatti ambientato in un paese plurinsulare – una sorta di terra dei destini incrociati – e di volta in volta le isole sono nominate come Lorìga e Lassaiàd, Jacca e Bitudes, Oreus, Puntabuia, ecc. Altri toponimi: il Monte di Nostra Signora, Benedictus e la Contea di Serralucente, Locoe… E la Porta d’Argento, che, più che una montagna, è un’altissima parete di ghiaccio che riflette tutti i colore del mare, ma che dal mare separa le isole, esposte così a un orizzonte limitato e tuttavia fecondo, immaginifico. Ecco, i luoghi di Nascar  sono le isole che formano l’arcipelago di Barbarìa.
Con Barbarìa, più o meno consapevolmente, volevo far cadere l’antica solidità del nome di Barbagia, facendone appunto ‘vacillare’ scherzosamente l’impalcatura fonetica, reinventandola con la caduta della G, lo spostamento dell’accento sulla I, con la sostituzione della G alla R. Questo spiega la leggera punta di humor nelle sostituzioni, così come anche in altri casi (ad esempio: ziu Bonucoro, la direttrice della biblioteca Anghèla de Corfù, la Bibliotheca Magna, ecc.). Mi interessava creare denominazioni di entità che associassero la veridicità del referente, la realistica fedeltà del vissuto (il mio, il nostro) e la forma evocativa fiabesca (l’organo di Barberìa, ad esempio, in questo caso), l’erranza tra il realismo dell’aneddoto e la fantasia del romanzesco. Con la desinenza al plurale di isole, volevo anche togliere la rigida attribuzione che avrebbe l’automatica identificazione con il mio paese natale, che non andava bene, per almeno due motivi: 1) non parlavo soltanto di quello; 2) volevo allontanarmi dall’ego chiamando a raccolta una “comunità”, per quanto dispersa, accomunata da una vertigine di soffocamento e – paradossalmente – di spaesamento per eccesso di identità. Un’esperienza semi-patologica condivisa con tanti della mia generazione, ma forse soprattutto con quella precedente la mia («La ricerca dell’identità? Il terrore di averne una, invece …», p.71). Così ho provato a trasformare quel sintomo, la vertigine, nel paesaggio di Nascar, con frasi-immagine in cui manca, quasi, la presenza dell’autrice – la mia presenza –, che si ritira come soggetto, a favore delle cose, subito messe in primo piano. Oltretutto si tratta di “cose” modeste, povere, proprie di un valore conosciuto da altre civiltà, l’esistenza minima delle cose del mondo.
Franzisca, la protagonista, l’unica volta che appare come Io, sarà una voce che parla dall’alto:
Si avvisano i signori passeggeri che in questo momento stiamo sorvolando, da est verso l’interno, il meraviglioso arcipelago di Barbarìa.
Tra qualche minuto atterreremo all’aeroporto di Puntabuia. Il clima è splendido, lo è sempre qui. Concentratevi su un’altra meteorologia.
Avete fatto tutti i vostri esercizi di ragione?
Saranno necessari molta bontà, astuzia, tonnellate di ironia – forse anche un po’ di vino rosso – senso del dovere e del diritto verso la felicità. La felicità di tutti, non dimenticatelo.
Quando vi sentirete pronti slacciate pure le vostre cinture di sicurezza.
Sguardo non frontale per sopravvivere alle espressioni di bruttezza e crudeltà.
Solo l’obliquità c’impedirà di schiantarci sulle rocce del Corrasi…
Benvenuti a Puntabuia. (p. 28)
Strategia di sdoppiamento per scrivere senza ego, se vogliamo; non a caso lo stesso “appello” è dato a p. 30 in lingua inglese.
I lettori, non solo sardi, di Nascar, credo abbiano compreso che andare per le isole dell’arcipelago di Barbarìa è anche un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami e di corrispondenze. Per le situazioni che vi si raccontano, certo, ma anche per i nomi dei paesi, delle strade, delle piazze, delle persone menzionate, insieme a poeti, a scrittori e agli artisti amati. Nel libro, infatti, c’è anche un pullulare di personaggi, anche solo accennati: Franziska, Juan, Marcos, Agostino, Mallèna, Ignazio, Giulia, Andrìa, Anghèla De Corfù, Esther e Ines Dessanay.
Ecco, anche attraverso i nomi si dà conto della vertigine identitaria (chiamiamola così) e della rappresentazione del sentimento della ricerca di sé come tratto vitale: le partenze, gli arrivi, le diaspore di cui è continuamente questione, pongono infatti anche l’emigrazione nella sua dimensione ontologica, appartenente in quanto tale alla condizione umana.
*Bastiana Madau, Nascar, Poliedro, Nuoro 2004

12 settembre 2008

Siamo venuti a dormire

"La luna cade sui piatti, sui libri chiusi, sul pavimento. Cade piena, senza ombra, come se per un momento fermasse la necessità e l'orrore del mutamento e il bianco assorbisse nel suo cerchio l'oscurità degli addi, la sosta nell'angustia degli spazi e il lacerarsi che ci rende vivi. Ora è l'unica luce sulla ninnananna che canto alla bambina ricordando le parole senza mai pronunciarle. A bocca chiusa, a occhi chiusi, ascoltando il suono dell'acqua che si muove e impercettibilmente sale, più forte del mutamento, degli addii, del sonno che ci confonde...".

(Antonella Anedda, La luce delle cose, Feltrinelli, Milano 2000, p.179)

"Partì il giorno dopo per un'altra isola. Nel battello finì di leggere un ultimo libro, e arrivò il conforto delle parole, vicinissime, della ninna nanna corsa ricordata dall'autrice nell'ultima pagina:
Siamo venuti a dormire,
siamo venuti a sognare.
Non è vero, non è vero
che siamo venuti a vivere sulla terra."

(Nascar, Poliedro, Nuoro 2003, p. 52)