25 giugno 2017

Nelle terre del mito

Nelle terre del mito – conosciute più per le narrazioni che si sviluppano nel tempo che per la realtà quotidiana dei suoi abitanti – un fatto tragico può incidere in modo molto doloroso su intere comunità reali, anche quando mai si sono rassegnate al mito della cattiva stella, al complesso dei malfatati o ad altri poco dissimili luoghi comuni, e anzi sono da tempo immemore interamente e convintamente impegnate nella costruzione di un abitare civile e segnato dal benessere, in ogni senso.
Con lo sgomento per la morte violenta di una persona appartenente a una determinata comunità impegnata, la delusione (anche) che si vive in quei momenti, appresa la notizia, è feroce: il paesaggio comunitario reale, insieme ai progetti a cui si sta lavorando nel presente, sembra affondare. A governare la realtà sembra ritornare una forza sovrastante, che per un tempo non misurabile fa chinare la testa, interrompere la festa, vivere un'amarezza sorda e opaca. Vorrei dire “capisco”, mentre invece nemmeno io, come credo la gran parte di noi, l'ho mai potuta capire ed elaborare sino in fondo quella sensazione che sembra riportare per un attimo alla notte dei tempi, ma ciò perché diventa davvero difficile capire qualcosa che non si accetta dal profondo del cuore e della mente. Purtroppo la violenza (che puntualmente ritorna nelle nostre comunità e che troppo spesso resta impunita) ferisce tutti, anche quando è distante anni luce da noi, dai nostri amici, dai nostri cari, per fortuna. Perciò mi ritrovo a rifletterne, anche se non vorrei, anche senza dire nulla che già non sia stato detto. Non la capisco, la violenza, mi è intollerabile il pensiero che una parete di ghiaccio possa interrompere la strada a una vita umana, e profondamente la rifiuto, ma so anche una cosa, ed è la sola che conti davvero: anche se toglie tanta energia agli abitanti delle comunità che ne vengono colpite, la violenza non ha mai vinto, non vincerà; anche se fa chinare la testa, interrompere la festa, piangere e guardarsi smarriti... Abbraccio con grande affetto le amiche e gli amici fonnesi, la loro operosissima comunità, tutte le persone in gamba che ho la fortuna di conoscere e che mai si arrenderanno ai miti della cattiva stella.

23 giugno 2017

Raccontino senza fine

Il tedio si aggrumava come afa, non un alito di vento. Da qualche giorno era nell'aria già satura del nulla un'altra guerra piccina quanto chiassosa, ed era tornata la paurina. Per me, che avevo fifa da sempre e lo sapevo, l'estate non esisteva, e ogni stress finiva nel pozzo dove l'assenza di cobalti si era trasformata in cristallo. Elena, invece, che non aveva mai avuto paura, si ostinava a vivere l'estate come la stagione più bella e più attesa, ignorando il tedio, respirando nell'afa, intanto che tutti o quasi tutti erano accaldati nella fittizia battaglia.
L'avevo incontrata un'ultima volta nel grande vivaio sulla strada che da Hanging Rock porta a Calagì, notando subito la sua presenza nella zona degli alberelli, già animata dai visitatori del sabato mattina. Aveva parcheggiato la macchina a lato di un'enorme pila di vasi vuoti. Osservando intorno con circospezione, era entrata nel recinto degli agrumi e scorreva con sguardo lento le piante, passandole in rassegna a una a una. Poi tornava indietro e ricominciava a esaminarle, come a ripetere una danza.
Uscì dall'agrumeto, finalmente, ed entrò in un altro recinto.
La studiavo dalla mia automobile, parcheggiata a lato dell'area degli ortaggi. Il suo sguardo si arrestò per un attimo nella mia direzione, e vedendomi fece cenno con la mano destra come a dire "finisco e ti raggiungo". Riprese la sua danza. Guardò oltre il gabbiotto del guardiano e più in alto, sulla montagna, risalendo per il bosco ceduo sino al cielo e... non una nuvola, pensai, ma cosa guarda?
Ritornò dentro il recinto del vivaio e indicò al ragazzo nove alberelli: un arancio, un limone, un mandarino, una noce, due abeti, un cachi, un ulivo, un ginepro.
Tornata a casa, mi disse poi, li avrebbe sistemati tutti intorno al suo letto. Voleva dormire in una stanza piena di alberi, almeno per un notte.
Lei, non io.
Io voglio solo cambiare status.

9 giugno 2017

Ricordando Egi

La mia ombra fugge da se stessa,
lungo la scala di pietra, al cancello, per incontrarvi.
Qui, rifuggendo dal deserto,
avete trovato acque pulite.
Avete trovato facce belle,
lavate con la rugiada della sera.
Tra i campi ubertosi, avete raccolto
la lavanda...

Egi Volterrani, "La tavola rotonda", in Frattaglie. Ricette dell'amor perduto, Blu, 2009.

Soltanto oggi ho saputo che qualche settimana fa è morto un uomo a cui volevo tanto bene: Egi Volterrani, architetto, traduttore, scenografo, profondo conoscitore del mondo arabo, oltre che delle culture africane, raffinato traduttore. Una persona davvero cara, disponibile, generosissima. Ed è incredibile questa cosa: da qualche giorno era spesso nei miei pensieri, e oggi a tavola, tra un pesce e una pesca, raccontavo proprio di lui, di quella volta che a Scicli, in una tavolata serale bellissima, tra amici scrittori arrivati al convegno siciliano da ogni sponda del Mediterraneo, mi disse “Non toccare le orate, seguimi...”, e io mangiavo solo le cose che lui metteva nel mio piatto. Una cena indimenticabile, anche per i sapori. E ricordo le cene nella sua casa torinese tappezzata di libri, con cui concludevamo le giornate passate al Salone (l'ultima, a base di pollo all'afgana e una salsa strana, molto aromatizzata ma buona, preparata dal suo giovane ospite originario della Mancia) o di come sapeva infondermi coraggio al telefono nel periodo in cui i progetti comuni presentavano delle difficoltà: “Stai su, Madau”, mi salutava con dolcezza. L'unica persona al mondo che mi abbia sempre chiamata per cognome, ma in un modo che mi faceva arrivare ancora di più il suo affetto. Tanti i ricordi nelle ultime fiere del libro insieme, a presentare opere e autori e autrici in cui credevamo entrambi. E l'ultima lettera agli amici, che vorrei abbracciare tutti, conosciuti e sconosciuti: la mappa dettagliata della sua casa, con anche il punto in cui teneva le sue medicine, e la posologia, nel caso fossimo entrati che lui dormiva già un sonno incosciente. Una lettera colma d'amore per la vita in tutte le sue sfumature, un omaggio all'amicizia in cui sapeva materialmente credere e che viveva, semplicemente viveva.
(Vorrei tanto poterti dire arrivederci, caro Egi...)

Giacomo Frullani, "Il vecchio marinaio"

8 giugno 2017

Salva con nome

"Siamo mortali, mortalmente spaventati
tremiamo come volpi e cani
diventando la muta di noi stessi.
Basta un sogno sbagliato
e la luce rode dove non c’è riparo.
Sbandiamo tra gli oggetti sperando siano veri.
Stringiamo gli occhi provando a dormire in pieno giorno
dicendo: qui e pensando là
offrendo sacrifici mentre spostiamo i mobili [...]"


2 giugno 2017

Sanvean

Il polso di Sting

Che giornata strana, almeno mi fosse venuto il desiderio di fotografare una pianta, un ciottolo, la pagina di un libro, la scogliera, una stupida vela, il bicchiere sul tavolino della terrazza di Sting. La chiamiamo così, la terrazza di Sting, da quel giorno di tanti anni fa che v'incontrammo Sting, nella terrazza di Sting, e incontrandolo un'altra volta, in una giornata così, forse, almeno, fotograferò di nascosto il bracciale d'argento indiano che porta al polso. Un polso abbronzato, quello destro, un po' più del sinistro, o è l'effetto dell'argento sulla pelle ramata. Anche a me piace sempre, in estate, portare bracciali d'argento, ma sempre e soltanto al polso sinistro. Oggi niente bracciali, nessuna foto. Certo, i polsi sono abbronzati quasi tutto l'anno, ma non tutti i giorni sono strani come questo: le cose, tutte mi sono scivolate tutte addosso. Forse avrei voluto due parole per poterne sentire lo spessore, qualcosa tipo ciao, come stai?, ma non sono arrivate e credo mai, perché oggi, finalmente, realizzo che non sono le cose a non avere più spessore: sono io che scompaio.