25 maggio 2011

Il cattivato

"Chi è in preda all'allucinazione non vede il tempo scorrere o lo vede correre caoticamente, non è in grado di smascherare l'inganno che l'ha cattivato, e incattivito. Vive come il popolo imprigionato nei sotterranei del film di Kusturica: sulla superficie la terra è cambiata, il Muro è caduto. Underground, sottoterra, è sempre Stalin contro Hitler, e guerra fredda infinita. Il cattivato voterebbe perfino Jack lo Squartatore, se gli dicessero che in cambio non ci saranno Zingaropoli, centri sociali, Stalingrado."
Da "Propaganda tossica" di Barbara Spinelli, oggi.

"Il cattivato", ovvero l'elettorato cattivo, incattivito, male informato, ignorante, dice. Che poi mi capita, invece, di chiedermi se a sinistra (per semplificare), non si parli troppo di questa umanità e troppo poco, invece, di quell'altra. O di noi, se vogliamo, e del nostro fare. Anche qui, ovviamente, per semplificare, ché a me la lavagna dei buoni e cattivi non è mai piaciuta, anche perché è falsa. Voglio solo dire che non si parla abbastanza di una umanità più evoluta, dove i temi dell'antirazzismo, della multicultura, dell'anticlassismo  e quant'altro, sono introiettati e vissuti nella quotidianità e già tradotti, direi "istituzionalmente", in civiltà e servizi. Ora, ad esempio, guardo i frutti (convertiti in un video) del mio e nostro ultimo lavoro in un liceo, con ragazzi dai 16 ai 18 anni, proprio sui temi dell'accoglienza legata all'immigrazione e alle diversità culturali affrontati nei laboratori di scrittura e di costruzione di strumenti musicali e produzioni rap e posso dare testimonianza della ricettività e creatività di tutte le persone coinvolte, dagli studenti ai docenti, che fa ben sperare che la società futura possa comunque avere dei buoni costruttori. Potremmo parlare per ore, guardandoci intorno, di una realtà che, nonostante tutto, va. E allora, come si suol dire, un dubbio mi assale: riferirsi qualche volta di più anche ad essa, non sarebbe a tutto vantaggio numerico del "buonato"? 
 

21 maggio 2011

No data

"Non bisognerebbe raccontare mai niente, né dare dati né tirare in ballo storie né fare in modo che la gente ricordi degli esseri che non sono mai esistiti né hanno mai messo piede su questa terra né attraversato il mondo, o che invece ci sono passati ma erano già in salvo nell'orbo e incerto oblio. Raccontare è quasi sempre un regalo, compreso quando porta e inietta veleno il racconto, è anche un vincolo e un concedere fiducia, e rara è la fiducia che prima o poi non si tradisca, raro il vincolo che non si aggrovigli o si annodi, e perciò finisca per stringere o si debba tirare di coltello o di lama per reciderlo. Quante delle mie rimangono intatte, delle molte fiducie concesse da chi tanto ha creduto nel suo istinto e non sempre ha fatto attenzione ed è stato ingenuo per troppo tempo? (Sempre meno, sempre meno, ma la diminuzione di questo è molto lenta)."
Javier Marías, Il tuo volto domani, vol. I: Febbre e lancia, traduzione di Glauco Felici, Einaudi, Torino 2003, [p. 5, non num.].

15 maggio 2011

ISBD (A)

"La storia appartiene ... in secondo luogo a colui che sa conservare e venerare, a colui che considera con amorosa fedeltà le sue origini, il mondo da cui è nato; con questo amore egli paga il suo debito di riconoscenza verso la vita. Curando con mano delicata ciò che l'antichità ci tramanda, egli vuole conservare immutate le condizioni in cui è nato per coloro che verranno dopo di lui, e in questo modo egli paga il suo debito verso la vita. Un'anima simile, piuttosto che proprietaria, sarà proprietaria del patrimonio degli avi. Ciò che è piccolo, limitato, tutto ciò che è invecchiato e decrepito trae la sua dignità e inviolabilità dal fatto che l'anima conservatrice e veneratrice dell'uomo antiquario si trasferisce in quegli oggetti e se ne fa un intimo nido. La storia della sua città diventa per lui la sua storia; quelle mura, quella porta turrita, le ordinanze municipali, le feste popolari, sono per lui come un diario illustrato della sua giovinezza e in tutto questo egli trova se stesso, la sua forza, la sua energia, le sue gioie, le sue opinioni, e anche la sua follia e i suoi disordini. Qui si vive, egli dice, perché si è vissuti in passato; qui continueremo a vivere perché noi siamo tenaci, e non ci possono sradicare in una notte...".
Friedrich Nietzsche, Considerazioni sulla storia, traduzione di Lia Pinna-Pintor, Torino, Einaudi 1943, pp. 27-28.

14 maggio 2011

10 vittime, 10 milioni di vittime




"Dieci vittime. Dieci milioni di vittime. La nostra comprensione del conflitto è spesso nient'altro che una manciata di cifre: più è precisa, meno ci appare significativa. Il tono di chi le annuncia, nei diversi media, rimane lo stesso quando si parla di grandi guerre o scoppi isolati di violenza. L’orrore rimane nascosto sotto la rigidità dei numeri. Le cifre ci danno la conoscenza, non il significato. Abbiamo voluto mettere una foto su queste cifre. Una foto scioccante e cruenta, come la realtà della guerra. Abbiamo voluto dare un contesto, una scala sulla quale possiamo visualizzare ogni conflitto accanto agli altri. … Non siamo storici e le nostre scelte sono state, in parte, affidate solo al nostro giudizio. È ovviamente impossibile riuscire a visualizzare tutti i conflitti o concordare sul quando o dove un conflitto inizia e finisce. Concentrarsi sul numero dei morti non dovrebbe farci dimenticare i sopravvissuti attraverso la mutilazione, l’esilio o lo stupro. Questo progetto rimane in ambito artistico e non mira ad alcuna scientificità. Vuole gettare un altro tipo di luce e, forse, restituire un po’ di significato." 
Clara Kayser-Bril, Nicolas Kayser-Bril, Marion Kotlarski


12 maggio 2011

Petì nostalgì

Saez Castan, Javier
Bestiario universale del professor Revillod : mirabolante almanacco della fauna mondiale / con tavole di Javier Saez Castan e commentarii di Miguel Murugarren
Modena : Logos, c2010
1 v. (senza paginazione) : ill. ; 15x18
V. a spirale
ISBN – 9788857601021
ANIMALI MITICI – Libri per ragazzi
CDD 398.46 (19.) MINERALI, PIANTE, ANIMALI LEGGENDARI
ITALIA
ITALIANO

10 maggio 2011

Memorie di O.

‎Vorrei essere una pianta,
anche un’erba,
una vite,
meglio sarebbe un olivo,
magari un melograno.

Poter restare fermo
e immobile,
in un cortile del Campidano,
in un orto in Baronia,
in una vigna a Dorgali.
Sapere la storia di una casa,
conoscere gli umori delle stagioni.
Fare ridere scioccamente
anche i più saggi del mio villaggio.


C. Nivola

Ho visto Ramallah

"È già mezzogiorno. Man mano che passano i minuti la tensione aumenta. Mi daranno il permesso di attraversare il fiume? Perché ci mettono tanto? A questo punto sento qualcuno pronunciare il mio nome!
– Prendi la borsa e attraversa il fiume.
Finalmente! Eccomi, con la mia sacca, a camminare sul ponte di legno, lungo appena pochi metri e trent’anni di ghurba. Come hanno potuto, questi pochi metri di legno scuro, separare un’intera nazione dai suoi sogni? Impedire a intere generazioni di prendere un caffè in case che prima appartenevano a loro? Come hanno potuto darci tutta questa pazienza e questa morte? Come hanno potuto dividerci tra espulsioni, tende, partiti politici, sussurri impauriti?
Io non ti ringrazio, piccolo ponte senza importanza. Non sei un mare né un oceano da poter giustificare il nostro terrore. Non sei una catena di monti abitati da bestie feroci e da mostri fantastici da dover far affidamento ai nostri istinti per difenderci da te. Ti avrei ringraziato, ponte, se fossi stato su un altro pianeta, in un luogo che una vecchia Mercedes non avrebbe potuto raggiungere in mezz’ora. Ti avrei ringraziato se fossi stato creato da un vulcano, terrore color arancio, ma sei stato costruito da miseri falegnami, con i chiodi infilati tra le labbra e la sigaretta sull’orecchio. Non ti dico grazie, piccolo ponte. Dovrei sentirmi a disagio di fronte a te? Sei vicino come le stelle di un ingenuo poeta, lontano come il passo di un paralitico. Perché questo imbarazzo? Io non ti perdono e tu non perdoni me.
Il legno scricchiola sotto i miei piedi.
Fairuz lo chiama il ponte del ritorno. I giordani lo chiamano il ponte di re Hussein. L’Autorità Palestinese lo chiama il passaggio di al-Karama. La gente, gli autisti dei bus e i tassisti lo chiamano il ponte di Allenby. Mia madre, e prima di lei, mia nonna, mio padre e Umm Talal, la moglie di mio zio, lo chiamano semplicemente “il ponte”.
Lo attraverso ora per la prima volta dopo trent’anni. L’estate del 1966 e immediatamente dopo, senza esitazione, l’estate del 1996. Qui, su quelle assi di legno proibite, cammino e racconto a me stesso tutta la mia vita. La racconto, senza emettere un suono e senza interruzioni. Momenti, come fotogrammi, appaiono e scompaiono incoerentemente. Scene di una vita dispersa. La memoria sfreccia come una navetta spaziale e riporta alla mente immagini che si oppongono a un montaggio che potrebbe dar loro una forma definitiva. La loro forma è il caos.
Un’infanzia lontana. Volti di persone amate e di nemici. Sono quella persona che proviene dai continenti degli altri, dalle loro lingue e dalle loro frontiere. Quella persona con gli occhiali e una piccola sacca sulla spalla. E queste sono le assi del ponte. E questi i miei passi. Vado verso la terra della poesia. Sono un turista? Un rifugiato? Un cittadino? Un ospite? Non lo so. È un momento importante dal punto di vista politico? Affettivo? Sociale? È un momento reale? Surreale? Fisico oppure intellettivo? Il legno scricchiola.
La vita passata è ridotta a un’oscurità che nasconde e svela allo stesso tempo. Perché vorrei liberarmi di questa sacca? L’acqua del fiume è poca sotto il ponte. Acqua senz’acqua. Come se volesse scusarsi della sua presenza in questo luogo limite tra due storie, due fedi, due tragedie. Quello che vedo è roccia, calce, soldati, deserto. Doloroso come un mal di denti. Qui, la bandiera giordana con i colori della rivoluzione araba: rosso, bianco, verde e nero. Poco più in là quella israeliana, azzurra, del colore del Nilo e dell’Eufrate, con al centro la stella di Davide. Un alito di vento le muove entrambe. Bianche le nostre gesta, nere le nostre battaglie, verdi le nostre terre… poesia nella mente.
Ma ciò che vedo è concreto come un conto da pagare. Le assi di legno scricchiolano sotto i miei piedi. L’aria di questo giugno è bollente come quella del giugno di tanto tempo fa. Ponte di legno… e la voce di Fairuz è immediatamente lì. Diversamente dalla maggior parte delle sue canzoni, i versi di questo brano sono molto più efficaci di quanto uno vorrebbe. Come hanno fatto a fissarsi nei cuori degli intellettuali, dei contadini, degli studenti, dei militari, dei giovani, degli zii e dei rivoluzionari?
Forse la gente ha bisogno di ascoltare i propri sentimenti attraverso una voce diversa dalla propria? Ha bisogno di attaccarsi a una voce che viene dal di fuori per ascoltare ciò che si ha dentro?
Chi rimane in silenzio delega qualcun altro a rappresentarlo in un immaginario parlamento proibito. La gente si affida alla poesia che si esprime in maniera diretta in tempi di ingiustizie e di mutismo collettivo, quando non può parlare e agire. La poesia che sussurra e allude può essere compresa solo da uomini liberi, da cittadini che possono parlare e non devono incaricare nessuno di farlo al loro posto. Mi vengono in mente i nostri critici letterari, che copiano le teorie occidentali a occhi chiusi, indossando cappelli da cowboy sopra i loro teschi devoti all’arabismo. (La metafora del cappello è talmente stereotipata e non so perché mi venga in mente ora). Ecco il primo soldato israeliano con in testa la kippa. È un’immagine reale e non un concetto letterario. Il fucile sembra più alto di lui. Si appoggia alla porta della sua stanza isolata sul lato occidentale del fiume, dove inizia l’autorità dello Stato di Israele. Non posso dire niente riguardo al suo stato d’animo, dall’espressione del volto non si indovina nulla dei suoi pensieri. Lo guardo come si può guardare una porta chiusa.
Ora i miei piedi sono sulla sponda occidentale del fiume. Il ponte è dietro di me. Rimango un attimo sulla polvere, sulla terraferma. Non sono un marinaio di Cristoforo Colombo che grida, quasi in punto di morte, «Terra, terra, terra!». Non sono Archimede che grida «Eureka!». Non sono un soldato vittorioso che bacia la terra. Non bacio la terra. Non sono triste e non piango.
Eppure la “sua” immagine appare e scompare in questa landa desolata. Il suo sorriso che proviene da quella tomba, dove lo sotterrai con le mie stesse mani. Lì lo abbracciai per l’ultima volta prima che mi trascinassero via, per lasciarlo da solo sotto una lapide su cui è scritto: «Munif ‘Abd al-Raziq al-Barghuthi, 1941-1993»."
Mourid al-Barghuti, Ho visto Ramallah, prefazione di Edward W. Saidtraduzione di Monica Ruocco, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 18-21.

9 maggio 2011

Avviso agli elettori

«Nel filmato futuro che dirà il nostro oggi saranno convocati gli storici. Potranno imitare Benedetto Croce, quando nei Diari, il 2-12-’43, si mise nei panni di Mussolini e scrisse: "Chiamato a rispondere del danno e dell’onta in cui ha gettato l’Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze […] rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: "E voi, perché mi avete creduto?"». (Barbara Spinelli, qui.) 


8 maggio 2011

I lampi della magnolia

Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d'acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all'imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l'olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che dev'essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell'oleandro,
i lampi della magnolia.

Franco Fortini, Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984, p. 9.

6 maggio 2011

Te recuerdo Amanda

Habemus

La generosità si manifesta tanto nel saper dare quanto nel saper prendere. Dunque continua da qui, se vuoi.

"Io credo che quello che impedisce a molte persone di vedere cosa dice il film è quello stesso velo di incoscienza che in altre forme m’è occorso di descrivere a lungo: una sorta di forma mentis scettica, uno scetticismo pratico che si risolve – prima di diventare vero e proprio cinismo - nell’incapacità di prendere sul serio alcunché – ma in particolare l’esperienza morale, l’esperienza del bene e del male, e più in generale l’esperienza di ogni tipo di valori e disvalori, o meglio di quella loro massiccia obiettività che ancora nel secolo scorso faceva apparire un ghiacciaio come qualcosa di maestoso o sublime, e un gestaccio, tanto più se esibito da un uomo con qualche ruolo istituzionale, tipo un ministro, come una gaffe atroce e imperdonabile. Ecco: questo velo di incoscienza o indifferenza che avvolge la mente e il cuore della maggior parte delle persone – forse dovremmo dire: di tutti noi? – conferisce un aspetto piuttosto banale alla maggior parte delle cose."

Grazie a Dust della segnalazione

5 maggio 2011

Un appunto

"Io, nella carta d'identità, voglio ci sia scritto Pastore
Io sono un valore economico. Io sono un valore sociale."



4 maggio 2011

Foto finish



"Il terrorismo islamico si è sempre nutrito di una comunicazione in cui l’immagine, per la sua alta capacità emotiva ed evocativa, aveva un ruolo determinante. L’attacco alle Torri Gemelle, gli attentati di Madrid e Londra, si sono svolti sotto una copertura mediatica impressionate. Il mito di Bin Laden è cresciuto a dismisura con i video registrati nelle montagne afgane, trasmessi da Al Jazira e poi ripresi dalle tv e dai giornali online di tutto il mondo. Ora manca il degno finale. La sottrazione del corpo del nemico alimenterà e non ce n’è bisogno, tutte le teorie del complotto, dello scetticismo, dell’essere vittima di manipolazione.
'Anche l’assenza genera miti e simbologie; è l’assenza del corpo di Gesù Cristo, in fin dei conti, ad aver creato il paradigma di ogni morte mitica' afferma Franca D’Agostini, docente di filosofia della scienza al Politecnico di Torino, in una sua intervista alla Stampa del 4 di maggio. Osama il sunnita, diventerà come l’imam nascosto dello sciismo, scomparso nel 874 e destinato a tornare alla fine dei tempi? Di sicuro chi predica l’islamismo radicale lo utilizzerà con la stessa efficacia dell’icona del Che, non avrà però la corrispondente fotografia di Ernesto Guevara adagiato sul lavatoio di Vallegrande in Bolivia.
Il decennio di Bin Laden cominciato con la diretta video dello schianto degli aerei sulle Due Torri si chiude con un’altra immagine, quella di Barak Obama con lo staff del Consiglio di sicurezza nazionale riunito nella Casa Bianca. Quella fotografia ha una potenza evocativa senza pari.  È una immagine che racconta una tensione fortissima, la esprimono i volti concentrati e tesi, la mano di Hillary Clinton sulla bocca, quasi a chiedersi 'Che cosa abbiamo fatto?' In ultima fila una giovane donna che sbircia, tentando di superare il muro di spalle di uomini che si immaginano alti. Una costruzione iconica perfetta, degna di un quadro del Caravaggio. 



Quella fotografia rivela la potenza disponibile a quel governo. La possibilità che le tecnologie moderne danno nel poter seguire, in diretta, l’operazione di un piccolo reparto militare dall’altra parte del mondo. Il centro di commando e controllo diretto in mano alle massime autorità. A differenza di tante altre, questa è un’immagine priva di retorica, di eroismo. Eppure resterà come testimone di un tempo, delle tremende responsabilità del politico, di una democrazia che anche nelle scelte più dure non si nasconde, non nega, non dissimula." 
Nicolò Migheli, "L'immagine che resterà", Sardegna Democratica, 6 maggio 2011.

Vivo o morto. Vivi

"I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l'America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro."
Barbara Spinelli, "Il Mostro di Al Qaeda", La Repubblica, 4 maggio 2011.

My name is Lukashenko

Cult!

Deficit

Domani ricomincio la corsa.

3 maggio 2011

"Giustizia è fatta"

Dal discorso della cerimonia funebre officiata da Tex: "Ovunque tu sia Mefisto, che sia dannato in eterno! Che le tue ossa possano essere trastullo per i cuccioli di coyote e che la tua anima possa bruciare nel profondo degli inferi. Da oggi il mondo sarà un posto migliore."

2 maggio 2011

Apostrofe

Fermi! Tanto
non farete mai centro.


La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro.


Giorgio Caproni, "Saggia apostrofe a tutti i caccianti".