10 maggio 2011

Ho visto Ramallah

"È già mezzogiorno. Man mano che passano i minuti la tensione aumenta. Mi daranno il permesso di attraversare il fiume? Perché ci mettono tanto? A questo punto sento qualcuno pronunciare il mio nome!
– Prendi la borsa e attraversa il fiume.
Finalmente! Eccomi, con la mia sacca, a camminare sul ponte di legno, lungo appena pochi metri e trent’anni di ghurba. Come hanno potuto, questi pochi metri di legno scuro, separare un’intera nazione dai suoi sogni? Impedire a intere generazioni di prendere un caffè in case che prima appartenevano a loro? Come hanno potuto darci tutta questa pazienza e questa morte? Come hanno potuto dividerci tra espulsioni, tende, partiti politici, sussurri impauriti?
Io non ti ringrazio, piccolo ponte senza importanza. Non sei un mare né un oceano da poter giustificare il nostro terrore. Non sei una catena di monti abitati da bestie feroci e da mostri fantastici da dover far affidamento ai nostri istinti per difenderci da te. Ti avrei ringraziato, ponte, se fossi stato su un altro pianeta, in un luogo che una vecchia Mercedes non avrebbe potuto raggiungere in mezz’ora. Ti avrei ringraziato se fossi stato creato da un vulcano, terrore color arancio, ma sei stato costruito da miseri falegnami, con i chiodi infilati tra le labbra e la sigaretta sull’orecchio. Non ti dico grazie, piccolo ponte. Dovrei sentirmi a disagio di fronte a te? Sei vicino come le stelle di un ingenuo poeta, lontano come il passo di un paralitico. Perché questo imbarazzo? Io non ti perdono e tu non perdoni me.
Il legno scricchiola sotto i miei piedi.
Fairuz lo chiama il ponte del ritorno. I giordani lo chiamano il ponte di re Hussein. L’Autorità Palestinese lo chiama il passaggio di al-Karama. La gente, gli autisti dei bus e i tassisti lo chiamano il ponte di Allenby. Mia madre, e prima di lei, mia nonna, mio padre e Umm Talal, la moglie di mio zio, lo chiamano semplicemente “il ponte”.
Lo attraverso ora per la prima volta dopo trent’anni. L’estate del 1966 e immediatamente dopo, senza esitazione, l’estate del 1996. Qui, su quelle assi di legno proibite, cammino e racconto a me stesso tutta la mia vita. La racconto, senza emettere un suono e senza interruzioni. Momenti, come fotogrammi, appaiono e scompaiono incoerentemente. Scene di una vita dispersa. La memoria sfreccia come una navetta spaziale e riporta alla mente immagini che si oppongono a un montaggio che potrebbe dar loro una forma definitiva. La loro forma è il caos.
Un’infanzia lontana. Volti di persone amate e di nemici. Sono quella persona che proviene dai continenti degli altri, dalle loro lingue e dalle loro frontiere. Quella persona con gli occhiali e una piccola sacca sulla spalla. E queste sono le assi del ponte. E questi i miei passi. Vado verso la terra della poesia. Sono un turista? Un rifugiato? Un cittadino? Un ospite? Non lo so. È un momento importante dal punto di vista politico? Affettivo? Sociale? È un momento reale? Surreale? Fisico oppure intellettivo? Il legno scricchiola.
La vita passata è ridotta a un’oscurità che nasconde e svela allo stesso tempo. Perché vorrei liberarmi di questa sacca? L’acqua del fiume è poca sotto il ponte. Acqua senz’acqua. Come se volesse scusarsi della sua presenza in questo luogo limite tra due storie, due fedi, due tragedie. Quello che vedo è roccia, calce, soldati, deserto. Doloroso come un mal di denti. Qui, la bandiera giordana con i colori della rivoluzione araba: rosso, bianco, verde e nero. Poco più in là quella israeliana, azzurra, del colore del Nilo e dell’Eufrate, con al centro la stella di Davide. Un alito di vento le muove entrambe. Bianche le nostre gesta, nere le nostre battaglie, verdi le nostre terre… poesia nella mente.
Ma ciò che vedo è concreto come un conto da pagare. Le assi di legno scricchiolano sotto i miei piedi. L’aria di questo giugno è bollente come quella del giugno di tanto tempo fa. Ponte di legno… e la voce di Fairuz è immediatamente lì. Diversamente dalla maggior parte delle sue canzoni, i versi di questo brano sono molto più efficaci di quanto uno vorrebbe. Come hanno fatto a fissarsi nei cuori degli intellettuali, dei contadini, degli studenti, dei militari, dei giovani, degli zii e dei rivoluzionari?
Forse la gente ha bisogno di ascoltare i propri sentimenti attraverso una voce diversa dalla propria? Ha bisogno di attaccarsi a una voce che viene dal di fuori per ascoltare ciò che si ha dentro?
Chi rimane in silenzio delega qualcun altro a rappresentarlo in un immaginario parlamento proibito. La gente si affida alla poesia che si esprime in maniera diretta in tempi di ingiustizie e di mutismo collettivo, quando non può parlare e agire. La poesia che sussurra e allude può essere compresa solo da uomini liberi, da cittadini che possono parlare e non devono incaricare nessuno di farlo al loro posto. Mi vengono in mente i nostri critici letterari, che copiano le teorie occidentali a occhi chiusi, indossando cappelli da cowboy sopra i loro teschi devoti all’arabismo. (La metafora del cappello è talmente stereotipata e non so perché mi venga in mente ora). Ecco il primo soldato israeliano con in testa la kippa. È un’immagine reale e non un concetto letterario. Il fucile sembra più alto di lui. Si appoggia alla porta della sua stanza isolata sul lato occidentale del fiume, dove inizia l’autorità dello Stato di Israele. Non posso dire niente riguardo al suo stato d’animo, dall’espressione del volto non si indovina nulla dei suoi pensieri. Lo guardo come si può guardare una porta chiusa.
Ora i miei piedi sono sulla sponda occidentale del fiume. Il ponte è dietro di me. Rimango un attimo sulla polvere, sulla terraferma. Non sono un marinaio di Cristoforo Colombo che grida, quasi in punto di morte, «Terra, terra, terra!». Non sono Archimede che grida «Eureka!». Non sono un soldato vittorioso che bacia la terra. Non bacio la terra. Non sono triste e non piango.
Eppure la “sua” immagine appare e scompare in questa landa desolata. Il suo sorriso che proviene da quella tomba, dove lo sotterrai con le mie stesse mani. Lì lo abbracciai per l’ultima volta prima che mi trascinassero via, per lasciarlo da solo sotto una lapide su cui è scritto: «Munif ‘Abd al-Raziq al-Barghuthi, 1941-1993»."
Mourid al-Barghuti, Ho visto Ramallah, prefazione di Edward W. Saidtraduzione di Monica Ruocco, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 18-21.

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