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29 settembre 2017

L'attrice

L’identità è un tema difficile da affrontare quando le radici si mischiano sempre di più. Eppure proprio ora che risorge la domanda di riconoscimento dei piccoli paesi e dei diritti delle minoranze, ora che esplodono guerre religiose ed etniche, ora che si sprecano le conferenze sul multiculturalismo – si parla spesso di identità. Io non posso essere una persona sola. Trovo le mie radici che si dirigono verso le stelle e verso diversi continenti, e vivo con diversi visi. Il teatro mi permette questa vita.
Julia Varley, attrice icona dell'Odin Teatret, nell'introduzione ai testi dello spettacolo intitolato Doña Musica's Butterflies (prima performance: Holstebro, Danimarca, settembre 1997).

23 settembre 2017

Odino nelle terre del rimorso

Il 29 settembre, alle ore 18, ci incontriamo nell'auditorium della biblioteca comunale di Orgosolo per presentare il bellissimo libro di Vincenzo Santoro dove sono raccolti diversi contributi atti a ricostruire la sperimentazione artistica e politica che nei primi anni settanta investì anche le popolazioni di Orgosolo e San Sperate. Parleremo in modo più esteso del senso che all'epoca avevano le interazioni tra gli artisti e i locali in una dimensione di scambio, che il nostro presente indica, oggi più che mai, come una strada su cui ritornare.
Sarò con l'autore, con Antonello Zanda, direttore della Cineteca Sarda/Società Umanitaria, che ha contribuito alla pubblicazione, e con l'editore di Squilibri.
Durante l'incontro sarà proiettato un estratto del film sull'Odin "In cerca di teatro", del 1974. Il giorno dopo, a San Sperate, verranno esposte anche 7 fotografie scattate da Antonio Cabiddu nel 1974.

2 agosto 2017

Inoke, un'idea diversa

Inoke, un’idea diversa da’ ssustànzia/ assu biver dess’òmine. E peri in sa malidade/ dessa pèyur miseria, inoke, s’òmine/ non perde’ ddinnidade; finzas si a bbortas/ sa bida tendet assu lìmine estremu/ okros assa morte. Tottu, inoke,/ nos pode’ ggalu nòkere, e ttottu/ galu podet esser fattu,/ si kreska’kkada kosa assa misura ’ess’òmine.
Qui il senso delle cose dà sostanza/ agli umani rapporti. E perfino nella disgrazia/ della miseria nera qui l’umanità /non perde dignità; anche se a volte/ la vita tende al limite estremo/ verso la morte. Tutto, qui,/ ancora ci può nuocere, e tutto/ ancora può essere fatto, se cresca/ ogni cosa all’altezza dell’uomo.

Sono alcuni dei tanti versi che Antonio Mura, figlio di Maria Antonia Bande Ticca e di Pietro, ramaio di Isili e poeta tra i più grandi del Novecento sardo, scrisse negli anni Sessanta, dunque in un arco di tempo segnato dalle grandi trasformazioni di quei luoghi del Sud Italia e della Sardegna (ma non solo) in cui, in effetti, troppe erano le cose mancanti; ma altrettante – come anticiparono diversi e inascoltati intellettuali dell'epoca – erano quelle inerenti la cosiddetta cultura popolare che rischiavano di essere perdute per sempre nel passaggio alla modernità, perciò considerato anche violento. E chissà se non sia stata la stessa intuizione contenuta nei versi di Mura a guidare Eugenio Barba e l'Odin Teatret nel Salento (a Carpignano, un piccolo paese sulla strada tra Lecce e Otranto) e in Sardegna. Il collettivo multiculturale dei teatranti «indifesi nella piazza della vita», fondato da Barba a Oslo nel 1964 e trasferitosi in Danimarca nel 1966, si spostò a più riprese anche a Orgosolo e a San Sperate con l'idea di portare l'arte «in luoghi senza teatro», a stretto contatto con gli abitanti dei piccoli centri della Barbagia e del Campidano.
Vincenzo Santoro – responsabile dell'Ufficio cultura dell'A.N.C.I., impegnato da anni nell'organizzazione di iniziative sulle musiche e culture popolari del Mezzogiorno – ricostruisce la straordinaria vicenda artistica e politica dell'avanguardia teatrale in un volume appena dato alle stampe dall'editore romano Squilibri, realizzato d'intesa con la Cineteca Sarda-Società Umanitaria di Cagliari, nelle librerie dal 1° settembre: Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975). Il libro, che con la citazione del capolavoro di Ernesto De Martino nel titolo espone subito il tenore della ricerca antropologica oltre che estetica del collettivo danese, esce con sostanziosi apparati: la prefazione di Eugenio Barba, 53 foto in b/n e a colori di Tony D’Urso, gli scritti di Antonio D’Ostuni e Antonello Zanda e un DVD allegato, contenente il meraviglioso documentario di Ludovica Ripa Di Meana, In cerca di teatro, e il film di finzione di Torgeir Wethal, Vestita di bianco, entrambi girati nel corso dell’esperienza salentina dell’Odin.
Durante la residenza sarda la compagnia imposta per la prima volta un'autentica interazione con gli abitanti dei paesi ospitanti, ovvero un genere di relazione che più tardi andrà definendo come “baratto culturale”: a ogni sua performance, infatti, i locali – uomini, donne, bambine, bambini e persone anziane – presero a rispondere con un canto tradizionale, un ballo, una festa, aprendo agli attori le case e i cortili durante i lavori quotidiani (nel libro anche una tavola fotografica che ritrae alla stessa altezza un teatrante seduto con un tamburo tra le ginocchia nella cucina dove una donna, anche lei seduta, inforna il pane) o nel tempo del riposo. In tal senso è particolarmente significativo il racconto della vicenda orgolese, durante la quale Eugenio Barba ebbe l'insight: alla fine della prima rappresentazione («in una scuola protetta dai carabinieri» perché il numero consentito di partecipanti era di 60, ma vollero entrare tutti!) di Min Fars Hus (La casa del padre) così disse agli attori un anziano presente allo spettacolo: «Era molto interessante, non abbiamo capito, siamo pastori... Voi cantate bene, adesso vi facciamo sentire come cantiamo noi». Si realizzò in quel frangente il prototipo del cosiddetto “baratto” (portare qualcosa ma per ricevere qualcosa), una tecnica che prese a essere considerata dal gruppo come fonte primaria di nutrimento, generatrice di nuove iniziative, progetti e imprese il cui centro erano sempre le donne e gli uomini incontrati nel proprio cammino, sino a fare dell'incontro l'essenza stessa del lavoro teatrale. Tante e diverse sono le testimonianze che il libro di Santoro riporta attingendo a fonti dell'epoca e a documenti d'archivio, restituendo l'emozione di un'esperienza destinata a lasciare un segno profondo nei protagonisti che ebbero la fortuna di fruirla.
Bastiana Madau, Storia della residenza sarda e salentina dell'Odin Teatret, in Il manifesto sardo, 1 agosto 2017.
Una delle immagini di Toni D’Urso contenute nel libro.