29 novembre 2013

Vigilanza, inquietudine, manutenzione

"... E l'ho visto bene, questo paese pieno di olivi belli e improduttivi, macerie e vestigia archeologiche, strade romane, boschi e paesi abbandonati, persiane di legno che sbattono al vento, sapori di una volta e tanti ristoranti con la cucina della nonna. Tutto bello e statico: tradizione, vecchi miti, rendita di posizione. Sarà che il peso del passato offende il presente, sarà che siamo vecchi e il cuore batte per la vita già andata, sarà per questo o altro ma di sicuro per fare la manutenzione bisogna essere vigili e inquieti. Niente secondo atto. Se il passato è ideale, ogni analisi del presente risulterà, al confronto, perdente. Quindi è meglio mettere su un'espressione melodrammatica. Chi possiamo accusare della nostra sventura? Noi stessi? Meglio tirare in ballo l'ultima calamità, quella pioggia così battente che mai a memoria d'uomo...". 
Antonio Pascale, Le attenuanti sentimentali, Einaudi, Torino 2013, p. 131
Cagliari, Poetto, 20 nov. 2013. Lo scatto è di Compy Marco 

28 novembre 2013

Orgoglio e pregiudizio

Non c'è giorno, ormai, che non capiti di leggere di questo strano fenomeno che si chiama "orgoglio di essere sardi". Ma orgoglio di cosa? Di essere nati per puro caso in una terra di strepitose bellezze naturali e un interessante patrimonio culturale avuto in dono (sprecato) dagli avi? Ma per favore. Allora, di contro, chi è nato a Cinisello Balsamo dovrebbe vergognarsi? (Un esempio a caso, me ne scuso, mai stata a C.B., magari è migliore dell'Atene dei Sardi, chi lo sa.) Orgogliosi di un bel nulla guardiamoci intorno veramente , se non, al limite, di quello che possiamo essere riusciti a costruire col sudore della nostra fronte o di ciò che con molto impegno siamo riusciti a salvare, in quest'isola bellissima dove solo per caso siamo nati.

24 novembre 2013

Cento e cento case di canne, paglia e fango

Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L'alta zicura di limo e tronchi al limite dell'acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all'altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
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Il vento calò. La nave si fermò, il mare era immobile. Non sapendo che fare guardammo M'u il saggio. Disse: «Preghiamo elencando le sillabe del creatore e le loro distanze. Er, otto piedi celesti da Uh. Uh, sedici piedi celesti da Is. Is, nove piedi celesti da Om. Om, nove piedi celesti da Is, da El, da Un, da Se, da Af, da En, da Mi, da Uv, da Ja». Cantando danzavamo. Un fulmine squarciò il cielo. 
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Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare.
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Alcune donne lasciarono i villaggi e andarono a vivere nei nuraghe, aiutavano le madri a partorire e portavano loro cibo e acqua nei trenta giorni di buio. Le chiamammo donne di Is, vivevano dei doni delle genti. Nella stagione del caldo danzavano per invocare pioggia.
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Ci moltiplicammo in numero e in valore. Per dimostrare il valore ogni gente uccideva le genti dei villaggi vicini almeno una volta l’anno, dopo la festa, nel mese del vento che piega le querce.
Umur disse: «Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori».


Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori.


Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.


Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata
dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. 
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.


Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.
...
Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici.
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Il musico suonò tutta la notte e all’alba sollevando gli occhi vide il mare e il cielo specchiarsi nelle lacrime che colavano sulle guance di una donna sdraiata a occhi chiusi ai suoi piedi, bella più dell’alba, capelli neri uniti in cento trecce lunghe fino alle caviglie e bocca intagliata in polpa di jerejia. La musica tacque, Aràr aprì gli occhi e vide Eloe di Lo.
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Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell’isola.
I romani ci chiamavano pelliti perché indossavamo il cappotto di pelli di pecora. Chiamavano barbara la nostra terra e barbarici i nostri costumi. Non riuscirono in mille anni a conquistare tutta l’isola.
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Piedi scuri, quasi neri, nella pianta non protetta da suola, mai il bambino aveva messo scarpe. Correva senza rumore, come danzasse. Ascoltava il vento che arrivava da oriente, cercava l’eco di galoppo di cavalli.
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Il giudice viaggiava accompagnato da un volo di falchi.
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I falchi impararono a riconoscerla. Prese gusto alla caccia col falco. Un falco la elesse a propria nutrice. Lei lo chiamò Vento.
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Parlare. Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. 
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Carezze d’occhi. Labbra, lingua, pelle, nell’acqua fredda del torrente, sull’erba umida schiacciata dai corpi e morbida, sulle foglie cadute pungenti e calde di sole, sotto il leccio, sotto la sughera, sotto l’arancio.
La bontà del Creatore acceca gli amanti?
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Il profumo dei capelli di Eleonora, erba fresca, arance mature, vento del mese di fiore d’asfodelo.
«Hai gambe di cerva giovane alla fonte, seno bello come colli del Mandrolisai».
«Hai occhi di velluto, braccia forti, denti sani».
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La cavalletta lasciò l’isola. Il giudice prese a vestirsi la domenica per andare a messa. La capra in giacca e pantaloni ascoltava tutto il rito in silenzio e prima dell’Ite fuggiva saltando. L’acqua e il sole si alternarono secondo giuste stagioni. Il grano era grosso e pieno. L’uva asciutta e carica. Pani profumati. Vini inebrianti.
L’isola rivisse. L’olio di quell’anno fu il migliore a memoria d’uomo.
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Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro.
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Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.
Da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni 

23 novembre 2013

I tempi del disastro

«Il tempo reale delle notizie più o meno tediose, opportune, futili, oscene ci sta alle costole, quando addirittura non ci precede. Vibrano gli smartphone, notificano i computer, impazzano le app. Con difficoltà si distinguono le notizie dalle chiacchiere. La nostra disponibilità a partecipare al gioco della comunicazione tecnologica è proporzionale solo all’illusione di essere parte del mondo con un click. La cartografia dovette fare un effetto simile, ai sovrani cinquecenteschi, restringendo il campo dell’inconcepibile a raffigurazione che rendeva gestibile il pensiero di lunghe e lontane campagne di conquista.
Ma l’illusione arriva, prima o poi, a fare i conti con la realtà. Nel giorno in cui l’acqua ha fatto strage, spazzato via asfalto e cemento, inondato campi e cantine il sistema dell’informazione-comunicazione si è inceppato. Se la notizia dell’allarme è stata lanciata, è lecito chiedersi dove sia naufragata. Perché l’unica certezza è che non è arrivata a destinazione. Videolina mostra e commenta un fax della Protezione civile con “pochi dettagli”, specifica il direttore Emanuele Dessì; i sindaci dei comuni rivendicano di aver ricevuto comunicazioni non diverse da decine di altre.

Di certo il sito istituzionale della Regione Sardegna ignora completamente quanto sta per accadere e così la pagina on line della Protezione civile, ferma e retrodatata all’emergenza incendi. Come si sarebbe potuta diffondere tra la gente la percezione del pericolo, se è mancata persino ai siti istituzionali, alle agenzie di stampa, ai professionisti dell’informazione, ai redattori? Chi dall’alto ha gestito la comunicazione, l’ha fatto in maniera ordinaria, ignorando che l’eccezionalità richiede mezzi diversi affinché una notizia non si confonda tra centinaia di altre e anzi, diventi prioritaria.
Forse sarebbe bastata una telefonata. Forse sarebbe bastato affiancare una voce, in quella comunicazione spedita solo via fax. Come fa un qualsiasi ufficio stampa quando vuole essere certo che la notizia che trasmette sia presa nella giusta considerazione. Poi, a disastro compiuto, è accaduto che la Sardegna sia stata inondata da inviati speciali. Ma come non notare la differenza da quando, nel 2008, la redazione di Radio Press raccoglieva telefonate e messaggi in diretta “a microfono aperto” e creava un ponte tra le persone dando informazioni in tempo reale sulla viabilità, sui bisogni, sulla situazione. Invece, “non uno straccio di una radio privata, indipendente o libera che abbia allestito una diretta-non stop dai luoghi del disastro” scrive Cicci Borghi su questo sito.
E se Videolina si è spesa ovunque sul territorio, come ignorare quanto scrive sulla sua pagina facebook la giornalista di Sardegna 1 Stefania De Michele? «Avvilita e impotente perché non abbiamo potuto fare il nostro lavoro come avremmo voluto. Non abbiamo più a disposizione mezzi per le dirette. Siamo a orario ridotto e settimana corta. La buona volontà di tutti anche non pagati serve a poco in certi casi (…) avremmo voluto esserci di più e meglio dove c’era bisogno anche di raccontare con una voce in più. Non molliamo però, non mollate…”. “Dieci anni fa avremmo potuto fare una diretta satellitare” commenta il collega Gianni Zanata. “Oggi non siamo in grado neanche di una diretta streaming”.
L’informazione locale è ridotta ai minimi termini. Lo sa chi lavora nelle redazioni delle agenzia di stampa, sottodimensionate nonostante passi da lì la gran parte delle notizie che rimbalzano nei media. La chiusura della redazione cagliaritana della Nuova Sardegna è passata quasi sotto silenzio, con l’eccezione di una nota del sindaco di Carbonia, perché la Nuova per il polo industriale del Sulcis ha sempre dimostrato grande attenzione. L’informazione on line cresce invece, ma che fatica reperire le risorse per stipendi e collaborazioni.
Però non si può mollare, perché l’informazione locale è preziosa. Lo dimostra il tentativo scandaloso della censura dell’intervista – recuperata in extremis dal vice direttore di Rai 2, dopo che il caso è finito sul blog di Beppe Grillo – al direttore dell’Unione Sarda Anthony Muroni, forse perché osa additare al “mostro burocratico degli appalti che gestisce il sistema Italia”.
Adesso che inizia la ricostruzione, per evitare cose già viste da ultimo a L’Aquila, sarà bene vigilare con cura; così come è opportuno verifica cosa è accaduto al bacino al cianuro di Furtei, ai bacini dei fanghi rossi a Portovesme e in tutti i luoghi “critici” della Sardegna. Roba scomoda, certo, ma che molti giornalisti farebbero con zelo e passione, se potessero. Se con la ricostruzione si mettessero in moto le migliori professionalità in tutti campi, informazione compresa.»
Giulia Clarkson, L'informazione ai tempi del disastro, sardegnasoprattutto

20 novembre 2013

S'abba tenet memoria*

La riflessione di Luigi Ghirri sul tema del paesaggio culmina sul finire degli anni Ottanta con la realizzazione dei volumi Paesaggio italiano e II profilo delle nuvole, entrambi del 1989. Le immagini della prima ricerca erano esposte quasi tutte nell'allestimento ospitato all'Arsenale denominato "Viceversa" (Palazzo Enciclopedico, Biennale di Venezia 2013). Tra le tante ammirate nella mostra, l'immagine che pubblico qui non mi aveva convinta (se così si può dire, dato che è bellissima) proprio a partire dalla considerazione che Ghirri lavora sulla massima astrazione dai contesti specifici e che la sua osservazione della natura non è mai troppo caratterizzata localmente. Ecco invece che, paradossalmente (ma l'avverbio è già a posteriori...), trovavo questa meno "sintetica", già troppo collocabile geograficamente e dunque non assimilabile in un concetto astratto come "paesaggio italiano". 
Stasera mi è tornata in mente, non a caso, e l'ho cercata. Rivedendola ho subito realizzato di avere cambiato idea...
Un amico dice che Ghirri "ha preso una bastonata in testa da Lucio Fontana". A parte l'espressione un po' così, io non so, salvo una suggestione, ora, circondati dall'acqua come siamo... Ciò che "Ghirri" non riesce a sublimare nel "suo" magnifico paesaggio sono le voragini spalancate all'improvviso su ponti come quello che da Hanging Rock porta a Calagì... Forse ha pure provato a farlo, ma poi ha cambiato idea "lui", quella volta, l'astrazione era troppo complicata.


*Antico detto sardo. L'acqua ha memoria, ossia non dimentica i suoi corsi naturali sulla superficie terrestre.