24 novembre 2013

Cento e cento case di canne, paglia e fango

Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L'alta zicura di limo e tronchi al limite dell'acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all'altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
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Il vento calò. La nave si fermò, il mare era immobile. Non sapendo che fare guardammo M'u il saggio. Disse: «Preghiamo elencando le sillabe del creatore e le loro distanze. Er, otto piedi celesti da Uh. Uh, sedici piedi celesti da Is. Is, nove piedi celesti da Om. Om, nove piedi celesti da Is, da El, da Un, da Se, da Af, da En, da Mi, da Uv, da Ja». Cantando danzavamo. Un fulmine squarciò il cielo. 
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Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare.
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Alcune donne lasciarono i villaggi e andarono a vivere nei nuraghe, aiutavano le madri a partorire e portavano loro cibo e acqua nei trenta giorni di buio. Le chiamammo donne di Is, vivevano dei doni delle genti. Nella stagione del caldo danzavano per invocare pioggia.
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Ci moltiplicammo in numero e in valore. Per dimostrare il valore ogni gente uccideva le genti dei villaggi vicini almeno una volta l’anno, dopo la festa, nel mese del vento che piega le querce.
Umur disse: «Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori».


Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori.


Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.


Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata
dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. 
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.


Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.
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Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici.
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Il musico suonò tutta la notte e all’alba sollevando gli occhi vide il mare e il cielo specchiarsi nelle lacrime che colavano sulle guance di una donna sdraiata a occhi chiusi ai suoi piedi, bella più dell’alba, capelli neri uniti in cento trecce lunghe fino alle caviglie e bocca intagliata in polpa di jerejia. La musica tacque, Aràr aprì gli occhi e vide Eloe di Lo.
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Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell’isola.
I romani ci chiamavano pelliti perché indossavamo il cappotto di pelli di pecora. Chiamavano barbara la nostra terra e barbarici i nostri costumi. Non riuscirono in mille anni a conquistare tutta l’isola.
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Piedi scuri, quasi neri, nella pianta non protetta da suola, mai il bambino aveva messo scarpe. Correva senza rumore, come danzasse. Ascoltava il vento che arrivava da oriente, cercava l’eco di galoppo di cavalli.
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Il giudice viaggiava accompagnato da un volo di falchi.
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I falchi impararono a riconoscerla. Prese gusto alla caccia col falco. Un falco la elesse a propria nutrice. Lei lo chiamò Vento.
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Parlare. Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. 
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Carezze d’occhi. Labbra, lingua, pelle, nell’acqua fredda del torrente, sull’erba umida schiacciata dai corpi e morbida, sulle foglie cadute pungenti e calde di sole, sotto il leccio, sotto la sughera, sotto l’arancio.
La bontà del Creatore acceca gli amanti?
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Il profumo dei capelli di Eleonora, erba fresca, arance mature, vento del mese di fiore d’asfodelo.
«Hai gambe di cerva giovane alla fonte, seno bello come colli del Mandrolisai».
«Hai occhi di velluto, braccia forti, denti sani».
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La cavalletta lasciò l’isola. Il giudice prese a vestirsi la domenica per andare a messa. La capra in giacca e pantaloni ascoltava tutto il rito in silenzio e prima dell’Ite fuggiva saltando. L’acqua e il sole si alternarono secondo giuste stagioni. Il grano era grosso e pieno. L’uva asciutta e carica. Pani profumati. Vini inebrianti.
L’isola rivisse. L’olio di quell’anno fu il migliore a memoria d’uomo.
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Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro.
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Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.
Da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni 

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