24 novembre 2010

Un ponte di baci

Un ponte di baci sugli abissi della memoria.
Non è la carta di un bacio Perugina –  viene da qui, ed è una frase che mi piace (anche il disegnino mi piace) leggere in successione a un altro appunto dei quaderni di Bolaño che compare nel video: "Imposible escribir poemas. Estoy enamorado."
Non voglio spiegare la mia suggestione 
(ognuno legga come meglio crede); 
dico solo che l'ironia è una concreta possibilità di salvezza, 
non solo per la poesia.

20 novembre 2010

Love is crazy love is kind

Crazy love is all around me
Love goes crazy given time
But I know somehow you'll find me
Love is crazy love is blind

19 novembre 2010

Clarté

Era inverno e scendeva la notte. Un vento gelido, che proveniva direttamente dall'Artico, soffiava sul mare d'Irlanda, spazzava Liverpool, sibilava attraverso la pianura del Cheshire (dove i gatti reclinavano le orecchie per il freddo, quando lo sentivano sbuffare nel camino) e, infilandosi attraverso il vetro abbassato, andava a colpire gli occhi dell'uomo seduto nel furgone Bedford. L'uomo non batteva ciglio. (1)

Come si fa a non restare folgorati da un autore che inizia un romanzo in questo modo? Uno che si prende 414 caratteri per descrivere con precisione da climatologo l'arrivo di un soffio di vento sul viso di un uomo che aspetta non si sa cosa chiuso dentro un furgone nella notte?... Mi ricorda il prologo di The Big Leboski, tra l'altro. Insomma, mi è presa male: passata da  Nada a Un piccolo blues (il secondo, Le petit bleu de la côte ouestl'ho letto in lingua originale), con Posizione di tiro sono al mio sesto Manchette nel giro di un mese, una passione trasmessami dallo zombi del cinemino, diciamo pure, che nel corso del tempo ha spesso citato in diversi post del suo blog lo scrittore francese.
Prima di restituirlo alla biblioteca dove l'ho preso in prestito, ricopio (operazione che mi dà gusto quando un libro mi è piaciuto) la nota biografica di Manchette posta in pagine non numerate alla fine dell'edizione Einaudi del 1981 di Posizione di tiro (1981 è la data del copyrigh, a onor del vero, perché l'anno di edizione in Einaudi non viene mai riportato a chiare lettere, cosa che – so per esperienza – puntualmente fa scervellare i bibliotecari catalogatori). Ah, la limpidezza!


"Nato nel 1942, Jean-Patrick Manchette è approdato alla scrittura del noir attraverso la traduzione di autori angloamericani. Mestiere che non abbandonò neanche dopo essere diventato uno scrittore affermato, traducendo tra gli altri Ross Thomas, Robert Rittel, Donald Westlake, Robert Bloch. Il processo di avvicinamento di Manchette al romanzo è passato comunque anche attraverso il cinema e la televisione, per i quali iniziò a scrivere sin dal 1966. Entrato in contatto con la "Série Noire" per una traduzione, pubblicò il suo primo romanzo nel 1971, Laissez bronzer les cadavres, scritto a quattro mani con Jean-Pierre Bastid, con cui aveva già collaborato alla realizzazione del film Salut les copines! nel 1967. Nello stesso anno Manchette pubblicò anche L'Affaire N' Gustro, lucida analisi dell'affare Ben Barka in cui l'autore, additando le responsabilità dello stato e della polizia, rese evidente il suo impegno politico. Dopo essersi imposto anche come critico e saggista, nel 1972 rivelò con il romanzo Nada, trasformato in film da Claude Chabrol l'anno seguente, il senso e le prospettive di tutta la sua opera. Il Nada del titolo è l'espressione cara a Hemingway che, filtrata attraverso John D. MacDonald, indicava le prospettive di tutta la sua opera. Dopo anni di intensa attività in cui Manchette adottò anche diversi pseudonimi scrivendo romanzi erotici, adattamenti a film o novelle per ragazzi, nel 1977 sospese la sua attività di scrittore alla ricerca di una nuova risposta ai rapporti tra forma e contenuto, di una limpidezza della scrittura che rendesse conto, nel linguaggio, della nuova realtà: con l'unica interruzione di questo Posizione di tiro, splendida risposta alla sua esigenza.
Jean-Patrick Manchette è morto nel 1955."

1. Traduzione di Francesco Colombo, per Einaudi.

15 novembre 2010

Rondini

Vassili era tornato a Nascar poco tempo prima di Franzisca. Aveva riaperto la vecchia casa ereditata da tzia Anghéla, una lontana parente morta di vecchiaia. La donna, durante la sua lunga vita, aveva preso la mania di conservare la carta stagnola che avvolgeva i cioccolatini, e con essa decorava altarini e nicchie che puntellavano le pareti della bicocca così che la visione d'insieme – col senno di poi – sembrava un altare messicano.
Entrato in possesso della casa, il ragazzo intonacò muri e soffitti con la calce viva, appese un po' ovunque i curiosi vestiti acquistati nei mercati di terre lontane, collocò nelle nicchie scatole di ambra e d’ottone ricolme di gioielli berberi, pakistani, persiani e prese a venderli ai ragazzi di Nascar scontenti delle fogge proposte dai mercanti del luogo.
Nella casetta si raccontava spesso di quegli altri mondi, la sera, quando il negozio chiudeva, Vassili accendeva gli incensi, peparava bevande speziate o tè verde, per i ragazzi, per Franzisca.
Aveva modi dolci e tutto intorno era calmo. In realtà, sotto la sua apparente aria pacifica, Vassili celava un animo duro come pietra di sale, rivelandosi solo allorquando si parlava di Barbarìa. Avrebbe imbiancato con la calce viva l’intero borgo di Nascar, fosse stato possibile, e buttato fuori i suoi abitanti.
La pietra di talco, che ancora si estraeva dalle miniere nascaresi, aveva tracciato nel cuore e nella mente un solco dolente che si riapriva ogni volta, a distanza di poche settimane dal ritorno dai suoi viaggi. L’unico modo di abitare il luogo era vivere circondato dalla chincaglieria portata dalle terre lontane dove andava a cercare se stesso.
Ritornò a Nascar per un'ultima volta nell’anno che Franzisca si scervellava pensando a un modo diverso di abitare le isole. 
L’anno che decise il suo destino o meglio: la sua destinazione
Vassili vendette quel che restava dei gioielli e le ultime stole del Madagascar; le disse: – Vieni con me. – Ma ripartì da solo e non tornò mai più.

Pena cantada a boche lena
ancas chi ballan e non treman
prenda rujada in sa peléa
prenda chi truncat tropéa.

Andarono via quasi tutti. I senza terra, i contaminati, gli altezzosi, i laureati, quelli senza fantasia, quelli con troppa fantasia. I migliori. E quasi più nessuno ritornava.
Franzisca declamava sottovoce: – Giorni d’inverno trucioli, il mio amico con gli occhi rossi, segue il funerale del ghiaccio, e io sono geloso del morto.
La madre la osservava ignara e tranquilla: – È la febbre che esalta e la fa languire.
Inverno. La stanza era piena di musica, di luce e del folle desiderio di non essere più da nessuna parte. Fuori, la piazza dell’antico convento e il paese tutto bianco. Contro la finestra batteva il solo vero re dell’isola, quel vento forte che ti cerca ovunque, stana e costringe a danzare sui pensieri.
Febbre. Parole gialle. Le nuvole girando scappavano.
– Portatemi via.
Il corpo non era più al sicuro. La casa traballava. Si è mai vista una casa natia diversa da un nido?
La madre sciolse un’aspirina in mezzo bicchere d’acqua.
A mezzogiorno, quando l’assenza di ombre gettò sulle cose una insopportabile luce, Franzisca prese il volo.

13 novembre 2010

Juan Villoro parla di Roberto Bolaño

Poi su FF arriva l'apasionada, con i suoi sottotitoli in italiano, e capisci con gratitudine che forse ne vale la pena affacciarsi di tanto in tanto in quella strana landa...



Imposible escribir poemas. Estoy enamorado.

12 novembre 2010

Per sua fortuna

Dall’intervista concessa da Roberto Bolaño a Raul Schenardi, alla fiera del libro di Torino (maggio 2003), a due mesi dalla morte dello scrittore.*

CORTÁZAR, GLI SCRITTORI E L’APPARTENENZA POLITICA
Appartengo a una generazione cresciuta leggendo Cortázar a diciassette anni, e in un certo momento incarnava il punto più alto cui si potesse arrivare. In modo un po' irrazionale, perché non c'è mai un "punto più alto", e non è nemmeno necessario arrivare a un punto più alto, ma siccome eravamo giovani, e ai giovani si consentono queste esagerazioni, Cortázar rappresentava il massimo cui potevamo aspirare. Col tempo il mio autore preferito in lingua spagnola è diventato Borges. Cortázar ora è il secondo, diciamo che continuo ad amarlo e a leggerlo con grande piacere. Io non sono mai stato d'accordo con la falsa dicotomia fra il Cortázar autore di racconti e il romanziere. Io penso che se c'è stato qualcuno al mondo che sapeva come strutturare un libro, dal punto di vista teorico, era Cortázar. Ne sapeva molto di più di García Márquez, che scrive quasi intuitivamente, soprattutto se paragonato a Cortázar, molto più di Donoso… Vargas Llosa, c'è stato un momento in cui aveva un senso della struttura più o meno chiaro, ma al livello di Cortázar nessuno. E del resto uno scrittore non può mai tentare di scrivere un romanzo o un racconto “alla maniera di…”, anzitutto perché in qualche misura ciò implica un parricidio, e io non ho mai visto Cortázar come un padre, tutt'alpiù come una specie di fratello maggiore, nonostante la grande differenza di età. Lui aveva la virtù della gioventù permanente, dell’energia permanente, e anche dell'ingenuità permanente. Io l’ho conosciuto quando avevo 22 anni, in Messico, e già allora non ero d'accordo con molte sue posizioni politiche, soprattutto per quanto riguarda Cuba, o per quella che Cortázar riteneva dovesse essere la posizione dello scrittore di fronte ai compagni di una determinata lotta. Io credo che uno scrittore non debba chiedere il permesso a nessuno per scrivere, tanto meno a dei militanti, che di solito sono quelli che ne sanno meno di queste cose. Ma lui era molto impegnato nella lotta politica, e oltre tutto leale nei confronti del suo impegno – cosa che mi sembra degna di lode –, e quindi aveva di questi problemi, che io invece non ho mai avuto, anzitutto perché dai pochi gruppi di sinistra nei quali ho militato sono stato cacciato. Per mia fortuna.

SCRIVERE POESIA
La poesia nei Detectives è fondamentalmente la metafora della fragilità e della portatilità della letteratura. Non c'è arte più facile – solo all'inizio, dopo diventa la più difficile di tutte – che scrivere una poesia, che fare poesia. Ricordo che a quel tempo in qualche ambiente circolava addirittura l'idea che la poesia potevano scriverla anche quelli che non sapevano scrivere, perché bastava mettere giù parole in libertà. La poesia d'avanguardia era molto di moda e si associava spesso all'idea di cambiare la vita e di cambiare vita, e per me in fondo la poesia – perlomeno come la vedevo all'epoca in cui ho scritto I detectives, è già passato del tempo – è una metafora della fragilità. Una fragilità assoluta. Gente che non solo dal punto di vista letterario, ma nemmeno da quello economico, non aveva futuro, e si aggrappava alla poesia, e faceva bene a farlo… Però aggrapparsi alla poesia durante un naufragio è come aggrapparsi al tappo di una bottiglia di champagne: non ti terrà a galla. La poesia poi è un'arte portatile: per leggere un romanzo servono tempo e una serie di comodità minime, mentre un sonetto puoi leggerlo in mezzo minuto. Altro problema è capirlo. Così, per me la poesia quando scrivevo I detective era la porta d'ingresso nell'ignoto, e in quella materia sconosciuta, probabilmente, stavo aspettando la vera poesia, ma anche la porta d'ingresso stessa era poesia, una poesia bastarda, poco rigorosa, esagerata…

LE RADICI NELLA TRADIZIONE LETTERARIA LATINOAMERICANA E I DEBITI CON LE LETTERATURE NORDAMERICANA ED EUROPEA
Per essere sinceri, io, modestamente, come diceva Vittorio Gassman, ho letto moltissimo, e da molte letture ho tratto profitto. In questo senso ho debiti nei confronti di parecchie letterature. Non credo che ci sia un'influenza diretta di quella nordamericana, ma sicuramente c'è un'influenza che riguarda di fatto tutti gli scrittori latinoamericani e che proviene dai due rami fondamentali del romanzo nordamericano, Melville e Twain. I detective ha senz'altro un debito con Mark Twain. Belano e Lima non sono altro che una trasposizione di Huckleberry Finn e Tom Sawyer. È un romanzo che scorre secondo un moto costante, che è il Missisippi. Insomma, il mio debito con Twain è enorme, anche perché è un autore che amo moltissimo. Ho letto molto anche Melville, e mi affascina. In effetti, per civetteria, preferirei credere di essere più in debito con Melville che con Twain, ma sfortunatamente penso di dovere di più a Mark Twain. Melville è un autore apocalittico… Twain è il giorno e Melville la notte, e la notte impressiona sempre molto di più. Ma per quel che riguarda la letteratura nordamericana moderna, la conosco poco e male. La conosco abbastanza fino agli scrittori della generazione precedente a Bellow. Updike l'ho letto abbastanza, ma non so perché lo facessi, sicuramente era un atto masochista, perché ogni pagina di Updike mi porta sull'orlo dell'isteria. Mailer mi piace più di Updike, anche se ritengo che come scrittore, come prosista, Updike sia più solido. Credo che gli ultimi scrittori nordamericani che ho letto a fondo e che conosco bene siano quelli della "generazione perduta": Hemingway, Faulkner, Scott Fitzgerald, Thomas Wolff. Mi sento molto più in debito, in qualche misura, con gli europei, nel senso che le mie prime letture sono state di poesia e io leggevo soprattutto poeti europei, e passare dalla poesia europea alla narrativa europea è stato molto facile.

SUL CONCETTO DI “SCRITTORE NAZIONALE”
Io credo che sia soprattutto per paura che García Márquez si vede come il più grande scrittore colombiano di tutti i tempi, o Vargas Llosa come il miglior scrittore peruviano. Tutti gli scrittori latinoamericani, e penso anche gli spagnoli, in fondo hanno molta paura e cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem. Io non ho mai avuto paura della morte e inoltre non credo nel pantheon. Guarda, quando finisce è finita e non resta niente, perciò io sto con Borges quando disse: “Dopo la morte, verrà l'oblio”, e molte teste di cazzo gli dicevano: “Ma no, Maestro, dopo la sua morte resteranno i suoi libri”. Lui li ascoltava e doveva pensare: guarda che branco di imbecilli! Perché lui alludeva all'oblio nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà, l'oblio è un destino comune di tutto quanto, non solo degli esseri umani, e in questo senso gli scrittori latinoamericani che si pongono sempre questo obiettivo che sta fra il clericalismo e la vigliaccheria, be', cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem, e il modo migliore per farlo è diventare lo scrittore nazionale di un paese. Io invece credo nella povertà intrinseca dell'essere umano. Un animale come noi, provvisto di viscere e muscoli, pochi, ossa debolissime, privo di esoscheletro... avere lo scheletro dentro invece che fuori mi sembra una cazzata assoluta... Guarda, si muore ed è finita, fanculo, non credo nel pantheon degli uomini illustri, e non voglio essere lo scrittore nazionale di nessun posto, e in questo senso non mi hanno mai preoccupato la nazionalità o cose del genere. L'unica cosa di cui mi preoccupo quando scrivo è di salvaguardare una certa verosimiglianza negli idiomi che impiego. Voglio dire: quando parla un peruviano dev'essere un peruviano che sta parlando, e quando parla un messicano o un centroamericano dev'essere un messicano o un centroamericano.
* Titoletti e suddivisione in paragrafi sono mieiPer la lettura integrale dell’intervista invio all’Archivio Bolaño.

LA BATTAGLIA FUTURA

Trailer del documentario "La battalla futura", in programma alla settimana dell'autore alla Casa de las Americas di Madrid (dal 23 novembre 2010), quest'anno dedicata a Roberto Bolaño. Fontequi.

11 novembre 2010

L'innominabile e il vaso cinese

Il cameriere rompe il vaso cinese, e il padrone esterrefatto gli urla: 
– Ma cos'hai combinato?!
– Ma è solo un vaso… – fa il cameriere.
– Sì, ma è vecchio di 2000 anni!
– Meno male – risponde il cameriere, – pensavo fosse nuovo. 

Plinio sei morto invano. (Dust)

9 novembre 2010

Delle tante voci

Fin dai tempi antichi,
nulla permane.
Dormienti e morti
quanto sono simili.
Gilgamesch

Eric A. Hegg, Studio portrait of donkey, Dawson, Yukon Territory, 1899.
Quando vidi l’asino, non lo riconobbi subito, tanto era magro e deperito, era come se non mangiasse e non dormisse da tanto tempo. Se ne stava, in un angolo dell’orto, a strofinare il muso contro il muro di cinta con aria triste. Mi accostai a lui cercando di non fare rumore, non volevo che mi vedesse, ma come capitava sempre, lui avvertì qualcosa, sollevò la testa e fiutò l’aria, poi mosse le frogie, e si voltò: si era accorto della mia presenza. Cambiò all’istante, come se il sangue gli avesse ripreso a fluire nelle vene. Colpì il terreno con gli zoccoli e cominciò a ragliare, mettendo in mostra i denti bianchi scintillanti: era come se ridesse dalla gioia!
Fino ad allora avevo sentito dire che soltanto i cavalli si intristiscono e smettono di mangiare e bere se vengono separati dai loro padroni, e che possono anche morire per il dispiacere. Degli asini invece dicevano che erano una mala razza che non si affeziona al padrone e che pensa a soddisfare solo il suo benessere momentaneo.
Ma Sultàn non era così. Lui assomigliava più ai cavalli.
Appena mi vide, sentii una specie di gemito, qualcosa di simile a un pianto, squarciargli il petto, si mise a girare in tondo, pazzo dalla felicità, infine si gettò e si rotolò nella polvere, come una persona che si inginocchia e bacia la terra!
Lungo la strada del ritorno riparlammo dei tanti paesi che avevamo visitato, quando andavamo in giro a vendere, e ricordammo tante persone, ma non gli diedi l’occasione di parlare di donne, giacché non sta bene che un uomo sposato ricordi le donne conosciute prima del matrimonio.
Una volta giunti in prossimità di Tayyiba, dopo tre giorni di viaggio estenuante, sentii un odore particolare, che era tipico della mia infanzia: l’odore della pioggia. Mi sentii rianimare, e provai una specie di vertigine al ricordo di tutto ciò che era successo su quella terra!…
‘Abd al-Rahman Munif, Gli alberi e l’assassinio di Marzùq, traduzione dall’arabo di Maria Avino e Isabella Camera d’Afflitto, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 71-72.

8 novembre 2010

No soy lo mismo

Es verdad,
no soy lo mismo,
ahora no muero
por lo que no puedo
sino calculo
por lo que yo muero.

Es verdad,
algunas metas
se me han alejado
y no consigo
otras tantas metas
y hasta comparto
una derrota tibia
con el muy pobre
amigo derrotado.

Puntos en las ies
comas en las pausas
y suspendo mis frases
con puntos que respiran.
Es verdad,
no soy lo mismo,
porque ahora escribo
lo que nunca siento
y sí solamente
lo que sólo escribo.

Canzone degli Humaniora, il cui testo – che qui riporto parzialmente – è di Julio António Fernández Estrada e la musica di Lavinia Flora. L'ho sentita sabato sera, in biblioteca, al concerto in memoria di Giacomino Zirottu, un amico e un intellettuale che rimpiangiamo.
Musica e amici. E questa canzone che, nascostamente, mi ha fatto piangere. 
È vero
non sono lo stesso
perché adesso scrivo
quello che non provo
e sì, scrivo soltanto
solo quello che scrivo.

7 novembre 2010

Domenica mattina

– Non mi ero accorto che il mondo fosse così mal ridotto... Guarda questo giornale… Guarda cosa sta succedendo! Non sapevo che oggi accadessero cose simili!
Cosa stai leggendo, la prima pagina?
No, i cinema.

3 novembre 2010

Meig

Benevennidas siades rundines in domo mia.


Il dono che ogni immigrato ci fa è prima di tutto la sua storia. Forse è per questo che la radice del termine migrazione, "meig", contiene il concetto di scambio di doni. 


 Federico Greco, Voci migranti, 2010.

1 novembre 2010

Fue una noche maravillosa

Black leaves, black leaves, 
black leaves are falling…

Sant Feliu de Guíxols (Spagna), 23 luglio 2010, Festival de la Porta Ferrada. Patti Smith canta Black Leaves, un suo nuovo pezzo dedicato a Roberto Bolaño, accompagnata alla chitarra da  Lautaro Bolaño Lopezfiglio dello scrittore. Bisognerà ora attendere l'annunciata incisione del disco che conterrà la canzone. 
Il video che pubblico qui è di scarsa qualità ma è un documento interessante, e mi fanno tenerezza le acclamazioni del giovanissimo pubblico all'ingresso di Lautaro sul palco.