Fin dai tempi antichi,
nulla permane.
Dormienti e morti
quanto sono simili.
Gilgamesch
Eric A. Hegg, Studio portrait of donkey, Dawson, Yukon Territory, 1899. |
Quando vidi l’asino, non lo riconobbi subito, tanto era magro e deperito, era come se non mangiasse e non dormisse da tanto tempo. Se ne stava, in un angolo dell’orto, a strofinare il muso contro il muro di cinta con aria triste. Mi accostai a lui cercando di non fare rumore, non volevo che mi vedesse, ma come capitava sempre, lui avvertì qualcosa, sollevò la testa e fiutò l’aria, poi mosse le frogie, e si voltò: si era accorto della mia presenza. Cambiò all’istante, come se il sangue gli avesse ripreso a fluire nelle vene. Colpì il terreno con gli zoccoli e cominciò a ragliare, mettendo in mostra i denti bianchi scintillanti: era come se ridesse dalla gioia!
Fino ad allora avevo sentito dire che soltanto i cavalli si intristiscono e smettono di mangiare e bere se vengono separati dai loro padroni, e che possono anche morire per il dispiacere. Degli asini invece dicevano che erano una mala razza che non si affeziona al padrone e che pensa a soddisfare solo il suo benessere momentaneo.
Ma Sultàn non era così. Lui assomigliava più ai cavalli.
Appena mi vide, sentii una specie di gemito, qualcosa di simile a un pianto, squarciargli il petto, si mise a girare in tondo, pazzo dalla felicità, infine si gettò e si rotolò nella polvere, come una persona che si inginocchia e bacia la terra!
Lungo la strada del ritorno riparlammo dei tanti paesi che avevamo visitato, quando andavamo in giro a vendere, e ricordammo tante persone, ma non gli diedi l’occasione di parlare di donne, giacché non sta bene che un uomo sposato ricordi le donne conosciute prima del matrimonio.
Lungo la strada del ritorno riparlammo dei tanti paesi che avevamo visitato, quando andavamo in giro a vendere, e ricordammo tante persone, ma non gli diedi l’occasione di parlare di donne, giacché non sta bene che un uomo sposato ricordi le donne conosciute prima del matrimonio.
Una volta giunti in prossimità di Tayyiba, dopo tre giorni di viaggio estenuante, sentii un odore particolare, che era tipico della mia infanzia: l’odore della pioggia. Mi sentii rianimare, e provai una specie di vertigine al ricordo di tutto ciò che era successo su quella terra!…
‘Abd al-Rahman Munif, Gli alberi e l’assassinio di Marzùq, traduzione dall’arabo di Maria Avino e Isabella Camera d’Afflitto, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 71-72.
2 commenti:
Grazie.
Sempre cose nuove leggo qu.
Mi fa bene.
:-D
Sì, questo è un grande romanzo ed è il primo di Munif, scrittore di nazionalità irakena (ha vissuto in esilio per trent'anni), morto nel 2004. Nel mondo arabo è considerato il cantastorie erede di Mafuz. In Italia se lo filano in pochi, ma perché siamo indietrissimo sull'esplorazione e la conoscenza dei narratori arabi d'oggi (famoso è Tahar Ben Jalloun, ad esempio, in Italia, e non per caso: marocchino, scrive in francese, nel suo paese natale lo leggono tradotto!), così come di tanti altri aspetti di un'immensa cultura, percepita ancora in modo uniforme e vergognosamente stereotipato, nel bene e nel male. Credo che ci tornerò con un post: è una delle mie passioni la narrativa araba contemporanea (un mio cruccio, anche), soprattutto quella degli autori che si conservano "strategicamente" arabofoni anche in esilio.
Posta un commento