29 luglio 2015

Chiedi asilo

Su trenu, chi dae prus de un'ora andavat costa-costa a su rivu minore e craru, achiat una curva prena 'e arvules, sa curva 'e unu...
No, dàì, facciamo che copio la traduzione in italiano di Hilia Brinis, così potete leggere tutti, o tutti quei pochi che ancora, tra una navigazione e l'altra, attraccano talvolta anche qui la loro barchetta sballottata dalla tramontana. Dicevo?... Ah, sì.

"Il treno, che da più di un'ora costeggiava il corso di un piccolo fiume limpido, percorse una curva boscosa, fece udire un fischio e, sbuffando placidamente, proseguì verso una cittadina ai piedi di una montagna.
In uno scompartimento, un uomo che aveva esaminato ciascuna località lungo il percorso, accostò ansiosamente la faccia al finestrino. Mutò espressione e smise di mordicchiarsi nervosamente le unghie. Un lungo, elettrizzante brivido di piacere lo percorse da capo a a piedi, perché sentiva che quella cittadina, da lui mai vista prima, era proprio il luogo che cercava.
Sotto il cielo coperto il posto si presentava piuttosto monotono, eppure anche cordiale e accogliente, poiché sembrava che si fosse stabilito al limitare della ferrovia per comodità di chiunque avesse intenzione di scendervi. Vide una chiesa, un tribunale e un viale principale che, parallelo ai binari, presentava ogni genere di negozio di cui una persona potesse avere bisogno. Al di là di quell'aperta e ospitale facciata si allineavano graziose case a due piani, incastonate in un verde che a sua volta si fondeva con quello di montagne ancor più verdi o verde-azzurro, che sembravano estendersi a perdita d'occhio.
Posò sulla base del finestrino tutte e dieci le dita, pulite e un po' gonfie in punta, dove le unghie apparivano pressocché divorate, come a suonare l'accordo finale di una tormentata sinfonia. Stava quasi per gettarsi in ginocchio e mormorare 'Dio ti ringrazio!' quando udì un rauco 'In vettura!' proveniente dal marciapiede.
Con la valigia stretta sotto il braccio, si precipitò lungo il corridoio e, raggiunti gli scalini, urtò il capotreno.
'Io scendo!' disse, e balzò giù dal treno che già si muoveva. 
Il treno proseguì verso nord, portandosi via le impronte delle sue dieci dita sulla scabra base di un finestrino."
Patricia Higtsmith, incipit del racconto Mattinate radiose, in Uccelli sul punto di volare, traduzione di Hilia Brinis, Bompiani, Milano 2002, pp. 5-32.
Jean-Luc Mylayne

28 luglio 2015

Madrigale, padrigale

Esistono case editrici dove sostanzialmente vige una cultura del lavoro, e dunque della dignità e del rispetto dell'altrui prestazione professionale, non dissimile da quella che governava le fabbrichette delle stringhe per le scarpe nell'Ottocento. Il lavoro intellettuale è molto sfruttato ma scarsamente retribuito, e spesso, niente affatto riconosciuto (per non essere riconoscibile e dunque pagato il giusto? per ignoranza? per sentimenti umani, troppo umani?). Ad esempio capita che anche la cura (o, come si dice tecnicamente nel settore: la curatela) resti senza paternità o maternità. Il nome di chi ha concretamente lavorato alla ricerca, all'editing, alla correzione e curatela complessiva di un testo, alla redazione di una quarta di copertina e di schede librarie destinate alla promozione mezzo stampa, alla distribuzione e quant'altro non compare nel frontespizio, o, al limite, nel colophon; non compare né comparirà mai da nessuna parte. Così quel titolo — a sua volta creatura che ha un padre o una madre — sembra il prodotto creativo e professionale di un uccellino che passava di là per caso.
Whitman, back cover of "The green book of birds of america", 1941

24 luglio 2015

Potatura

Un cartello alla fermata dell'autobus annuncia "da domani potatura degli alberi", e dunque mi accingo a salutare le belle fronde dalla terrazza di casa, ché tanto ormai sappiamo: questo genere di cura riservata agli aceri del viale a ogni morte di papa significa che stanno per decapitarli. 
Addio amici :( 
Yulia Kazban, Dream within a dream

18 luglio 2015

Ragazze sarde a Roma

Giacomo Mameli ha sempre dedicato un'attenzione fuori dal comune al mondo del lavoro femminile, con stile giornalistico e letterario a un tempo. Nelle cronache e nei libri mette in luce le esistenze concrete, quasi che, sulle orme di Wittgenstein, voglia ricordarci che non bastano dati freddi per comprendere i processi sociali, economici e culturali: esistono atteggiamenti e valori determinanti che emergono solo attraverso storie di vita. Storie non sempre facili da individuare e comprendere, perciò, dato che si tratta di interpretarle, è necessario avere doti di semiologo per proporre quelle maggiormente "rappresentative" al fine di rivelare un mondo. Doti che l'autore possiede. Osservatore storico del territorio, ha sempre descritto con maestria paesaggi fisici e umani, arricchendoli di toponimi locali, nomi e soprannomi, non trascurando piante e animali, ma soprattutto ha raccontato i paesi, spesso poveri di cose ma ricchi di storia.
Dedicato alle professioniste dell'isola è Donne sarde (2005) e in La ghianda è una ciliegia (2006) c'è una parte importante sulla fatica quotidiana delle donne contro la fame durante la seconda guerra mondiale. Ricordo la cernitrice di carbone dello struggente racconto “Italia è morta”, che di quel lavoro morirà; o “Le donne del rosmarino”, in cui l'anziana testimone racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la drammaticità, infatti, i racconti sono spesso venati di ironia, ossia di quella particolare leggerezza di cui sono capaci coloro che possiedono la virtù di spostare il proprio destino in una dimensione più abitabile, con le parole.
Con il volume da pochi giorni in libreria, Le ragazze sono partite (CUEC, 2015), Mameli elegge Perdasdefogu a ossevatorio dell'emigrazione femminile sarda del dopoguerra, caratterizzata dalla prestazione di lavori di cura. Il racconto è composto coralmente nell’arco di più generazioni; le voci appartengono a donne molto giovani, spesso quasi bambine, tanto forti quanto coraggiose: Pietrina, innanzittutto, che tiene l'ordito del racconto, poi Clelia, Giovanna, Erminia, Cecilia, Silvana, Carrula, Elena, Delia, Odilia, Secondina, Cichedda, Giuanna e tante altre. Scrive Mameli: «Nell'isola e altrove per il lavoro femminile non c'era posto. La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi», così la Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio. «Il lavoro è sostantivo maschile». Anche in Sardegna, in quegli anni del dopoguerra, «c'erano state le miniere, e anche quelle erano soprattutto per i maschi, che ci morivano di tumore nero [...] Cominciavano a sorgere anche le ciminiere della petrolchimica. A Portotorres tremila tute blu, nemmeno venti le ragazze. Idem a Ottana e a Machiareddu. Vicino a Foghesu sorgeva la cartiera di Arbatax. A Sarroch la raffineria per rifornire di benzina le macchine. Tutte quelle erano fabbriche per giovani e meno giovani che lasciavano il latte delle mammelle di pecore e capre per ungersi con i derivati del petrolio e della virgin nafta […] Per le ragazze la strada era un'altra e una sola: domestica. O serva». ... 

Ragazze sarde a Roma, di Bastiana Madau (stralcio della recensione pubblicata nel mensile Lo Straniero, n. 181, luglio 2015).

13 luglio 2015

Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.
 

Ingeborg Bachmann, Poesie, a cura di Maria Teresa Mandalari, Guanda, 1987.

10 luglio 2015

Inaugurazione (mettiamola così)

E niente, alle 18 e 30, puntualissima, percorrevo via della Pietà, che da casa porta giù in via Roma, che tagliando porta in piazza Sebastiano Satta, che attraversando porta nella via omonima, che percorrendo per 15 metri in discesa porta al museo. Il quale museo era la mia meta. Era. Mica sono arrivata, infatti: sono caduta due minuti prima, da due centimetri di sandali, come due pere cotte, all'altezza della chiesetta di Santa Croce (grazie, eh, Santa Cro'), sbucciandomi di brutto un avambraccio.
"Ma dove hai la testa, dove?". Refrain.
Ho fatto il percorso a ritroso, e se prima profumavo di shalimàr, ora puzzo di citrosìl. 
Mi scuseranno gli amici che aspettavano con l'idea di riempirci le tasche di vol-au-vent e andare a cincischiare al Tettamanzi, ben sapendo che Vivian Majer sarà più contenta quando l'andremo a trovare in una fresca mattina di settembre, a pipinara finit... ahi! che male, mannaggia.