Visualizzazione post con etichetta no war. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta no war. Mostra tutti i post

6 aprile 2022

Tabù

La guerra viene ancora trattata come un mestiere che ha la sua deontologia, perciò si distinguono i cosiddetti crimini di guerra dagli altri atti delittuosi perpetrati con indosso una divisa. Sarebbe invece ora, ed è sempre troppo tardi, che l'umanità interiorizzasse il concetto che la stessa guerra è un crimine e che essa non va fatta per nessun motivo.

3 ottobre 2012

La fortuna delle parole

Inconsapevolmente ci è scivolata dalla penna, come una goccia di inchiostro, la parola panciafichista. Parola arcaica, ormai, fuori moda, sostituita da altre che meglio riescono a riempire la bocca: disfattista, caporettista e simili. L'altra è scaduta dall'uso, perché è svanita una mentalità, o meglio perché questa mentalità ha cambiato il centro del suo errore. Si immaginava l'atto della guerra da decidersi come in un'assemblea di tribú barbarica: per il battere delle lance al suolo, per l'ululato fiero dei guerrieri assetati di strage e di lotta. Chi si rifiutava di battere la lancia, di diventare corista nella sinfonia sgangherata degli ululi, non era che un vile affamato di fichi, per i quali voleva conservare la pancia.
La mentalità democratica e pseudorivoluzionaria astraeva completamente dall'idea di Stato, non vedeva nel paese che i singoli individui, frantumava l'unità economico-sociale borghese che è lo Stato in una infinità di volontà empiriche che avrebbero dovuto essere il popolo, il popolo generoso che batte la lancia ed emette ululati guerrieri. Lo Stato ha dimostrato di essere l'unico giudice della guerra, e di far la guerra seguendo solo la logica della sua natura: ha assorbito tutto e tutti e ha trovato gli antagonisti solo in quelli che negano l'attuale natura dello Stato e la logica che se ne sviluppa. Cosí è tramontata la parola panciafichista, di conio democratico, prodotto di una mentalità immatura, che non conosce neppure l'essenza vera degli istituti cui affida la risoluzione dei problemi ideologici dai quali si dice angosciata. Ci sono stati i panciafichisti, ma essi possono essere ritrovati tra quelli che delle forze statali si servono, e se ne sono serviti anche per la conservazione della pelle individua. Curiosa è anche la fortuna di un'altra parola di conio democratico: guerrafondaio. La parola in origine traduceva esattamente l'espressione attuale jusqauboutiste. Fu creata al tempo delle guerre abissine e serviva a indicare gli oltranzisti d'allora, ai quali si opponeva la democrazia lombarda del secolo, e i partiti di opposizione. Oggi questi partiti sono diventati d'ordine: la guerra non è piú fuori del loro programma, e come si compiva lentamente questa conversione cosí la parola guerrafondaio andò acquistando un significato particolare che ondeggia tra quello di «militarista» e di guerraiolo per programma. La mentalità democratica ha stabilito la casistica tra guerra e guerra, tra difesa e offesa, tra guerra democratica e guerra imperialistica: non è arrivata a comprendere la guerra come funzione di Stato, della organizzazione economico-politica del capitalismo. Cosí noi abbiamo trovato la parola già mutata, e abbiamo dovuto crearne delle nuove, o meglio abbiamo dovuto adattarle dal francese: oltranzista e sterminista, mentre sarebbe cosí semplice guerrafondaio per chi vuole la guerra fino in fondo. Cosí le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini. La mentalità democratica, qualcosa che sta nell'organismo, come un gas putrido, non riesce neppure nelle parole a fissare qualcosa di solido e compiuto. Panciafichista al tempo delle guerre d'Africa, il democratico è diventato guerrafondaio, ma ha cercato di far dimenticare le parole, sperando far dimenticare le cose.
10 febbraio 1918
Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2012, p.95.

27 dicembre 2011

La fotografa e l'ulivo

Mamma, toglimi di dosso questo distintivo
non posso più usarlo
si sta facendo scuro, troppo scuro per vedere
è come se stessi bussando alle porte del cielo.
Bob Dylan

Fonte: qui.

14 maggio 2011

10 vittime, 10 milioni di vittime




"Dieci vittime. Dieci milioni di vittime. La nostra comprensione del conflitto è spesso nient'altro che una manciata di cifre: più è precisa, meno ci appare significativa. Il tono di chi le annuncia, nei diversi media, rimane lo stesso quando si parla di grandi guerre o scoppi isolati di violenza. L’orrore rimane nascosto sotto la rigidità dei numeri. Le cifre ci danno la conoscenza, non il significato. Abbiamo voluto mettere una foto su queste cifre. Una foto scioccante e cruenta, come la realtà della guerra. Abbiamo voluto dare un contesto, una scala sulla quale possiamo visualizzare ogni conflitto accanto agli altri. … Non siamo storici e le nostre scelte sono state, in parte, affidate solo al nostro giudizio. È ovviamente impossibile riuscire a visualizzare tutti i conflitti o concordare sul quando o dove un conflitto inizia e finisce. Concentrarsi sul numero dei morti non dovrebbe farci dimenticare i sopravvissuti attraverso la mutilazione, l’esilio o lo stupro. Questo progetto rimane in ambito artistico e non mira ad alcuna scientificità. Vuole gettare un altro tipo di luce e, forse, restituire un po’ di significato." 
Clara Kayser-Bril, Nicolas Kayser-Bril, Marion Kotlarski


2 aprile 2011

Aprile spezzato

"Lo so che talvolta la via della pace è difficile e si vorrebbero delle scorciatoie per cacciare più presto questo o quel dittatore. Ma non ci sono: restano solo più cadaveri, e non vorrei entrare nel conteggio di quanti siano quelli dei ribelli e quanti dei coscritti di Gheddafi. Il fatto anche più grave è che ferite gravemente già appaiono le primavere arabe che dalla vicenda libica non escono rafforzate ma deviate per via di un intervento esterno ed autoritario che ha loro tolto ruolo. Per via di un'azione armata che ha già scelto i suoi paladini: i prodi ministri scappati all'ultimo momento (e fra questi persino chi è stato a capo nientemeno che del dicastero della giustizia e degli interni del regime) ai quali viene affidato il compito di costruire la democrazia libica." 
Luciana Castellina, "I disastri della guerra", il manifesto, oggi.

30 marzo 2011

L'attrazione fatale

"Non esistono guerre pulite né guerre giuste, ma solo guerre inevitabili, come lo è stata la seconda guerra mondiale combattuta dalle forze alleate. Non è però il caso dell'attuale conflitto armato. Prima di intonare inni alla gloria di quest'impresa, veramente migliore di tutte le altre, forse sarebbe bene meditare sulle lezioni che Goya trasse duecento anni fa da un'altra guerra combattuta in nome del Bene: quella dei reggimenti napoleonici che portavano i diritti umani agli spagnoli. I massacri commessi in nome della democrazia non addolciscono la vita più di quelli perpetrati per fedeltà a Dio o ad Allah, alla Guida o al Partito."
Tzetan Todorov, "L'attrazione fatale della guerra giusta". Fonte: MicroMega.


27 marzo 2011

Sapore di sole


"Che sapore di sole oggi dal Viet-Nam
ma forse è proprio il sole qui, mi confondo."

22 marzo 2011

Margherita

Il sistema di infotainment sta andando in tilt.  È  una guerra, non è una guerra, è una guerra, non è una guerra (ad libitum). Tutto questo significa solo una cosa. Che è una guerra. 
Maxeramax, oggi, nella sua pagina facebook





28 settembre 2010

Sono cariche

– Fermatevi, non sparate, le armi sono cariche!
E così venne espresso ciò che tutti sapevano col cuore, ma non volevano accettare con la mente. Una delle cinque pallottole della prima raffica aveva colpito le foglie dell'alloro di gesso sulla loggia, dove l'ultimo console sovietico di Kars, un quarto di secolo prima, guardava insieme al suo cane i film. Perché il curdo di Siirt che aveva sparato non voleva uccidere nessuno. Un'altra pallottola aveva colpito la ringhiera di legno nella parte posteriore della sala, proprio dove era sistemata la telecamera della trasmissione in diretta, su cui una volta si appoggiavano le ragazze armene povere e sognanti che con i biglietti economici assistevano in piedi agli spettacoli dei grupppi teatrali, degli acrobati e delle orchestre di musica da camera che venivano da Mosca. La quarta pallottola aveva bucato la spalliera di un sedile, in un angolo lontano dalla telecamera, e aveva colpito alla spalla il signor Muhittin, il venditore di pezzi di ricambio per trattori e strumenti agricoli, seduto dietro con la figlia e la cognata vedova. In un primo momento anche lui aveva creduto che gli fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto, come i pezzi di calce di poco prima, e aveva guardato verso l'alto. La quinta pallottola aveva frantumato la lente sinistra degli occhiali di un nonno che era venuto da Trebisonda a trovare il nipote che faceva il militare a Kars, seduto un po' dietro agli studenti filo-islamici, e gli era entrata nel cervello uccidendolo silenziosamente mentre stava per addormentarsi, senza fargli capire che stava morendo; poi gli era uscita dalla nuca e attraverso la spalliera del sedile era finita dentro un uovo sodo nel sacchetto del ragazzo che vendeva pane e uova, un bambino curdo di dodici anni che proprio in quel momento stava allungando degli spiccioli tra le file. /…/
Neanche il maggiore-ispettore aveva potuto stabilire dove fosse finita una delle palottole partite dalla quarta raffica. Una pallottola aveva ferito un giovane venditore venuto da Ankara a Kars per mettere sul mercato enciclopedie a rate e giochi di società (sarebbe morto due ore dopo per emorragia). Un'altra avrebbe fatto un buco enorme sul muro sotto la loggia privata, dove all'inizio del Novecento si sistemava con la sua famiglia in pelliccia, nelle serate in cui si davano spettacoli teatrali, Kirkor Çizmeciyan, un ricco armeno, commerciante di pellami. Secondo un'affermazione che lascia il tempo che trova, le altre due pallottole entrate in uno degli occhi verdi e nella fronte larga di Necip non l'avevano ucciso subito, e secondo quello che venne raccontato in seguito il giovane, guardando per un attimo il palcoscenico, aveva detto: – Ci vedo!

Orhan Pamuk, Neve, traduzione di Maria Bertolini e Şemsa Gezgin, Einaudi, Torino 2007, pp. 167-169.

17 settembre 2010

La corda del bucato

Anche dopo aver rivolto richieste di aiuto in arabo corretto, non c’era nessuno che rispondesse. I proiettili prorompevano aumentando in velocità e intensità. I colori si confondevano.
Mia madre aveva detto: – Bisogna togliere il bucato dal terrazzo.
Mio padre aveva risposto: – Adesso pensi al bucato?
– Il bucato farà loro bombardare la casa.
– La bombarderanno comunque. Con o senza bucato. È una guerra.
– Non è guerra. Ammazzano le persone e basta. Tra un po’ si annoieranno, anche i soldati s’annoiano, e allora bombarderanno la corda del bucato.
Nessuno rispondeva.
«Masse del nostro popolo arabo! Il massacro che oggi si compie…».
Il campo profughi, i suoi terrazzi, le piazze, i vicoli erano diventati un campo di tiro. Il vento carico dell’odore della polvere da sparo soffiava da ogni lato.
Quando lo stretto rifugio aveva vibrato con chi c’era dentro, avevamo detto: – È un cannone Hautzer.
Il padre dei piccoli, mentre stringeva a sé i figli e nascondeva la paura che aveva per loro, aveva commentato: – Tre giorni sono sufficienti a trasformare tutti in esperti di armi.
Non siamo esperti di viaggi. Li avevamo dimenticati. Avevano chiuso il paese con noi dentro, ma inaspettatamente l’hanno riaperto, così all’improvviso come l’avevano chiuso.
Hanno detto: – Viaggiate a sazietà!
Dice l’altro: – Dovevamo proprio viaggiare?
– Avevamo bisogno di un miracolo, di una cosa meravigliosa, dell’ottava meraviglia, anzi della nona. L’ottava siamo noi! Avevamo bisogno di un miracolo. Una grande realizzazione equivale a un miracolo.
Abbiamo diritto di vedere realizzato un miracolo non immerso nel sangue.
Ibrahim Nasrallah, Dentro la notte, traduzione dall'arabo di Wasim Dahmash, Ilisso, Nuoro 2004, p.10.

Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 in un campo profughi in Giordania e vive ad Hamman. Poeta e scrittore, ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il prestigioso “Sultan ‘Aways” per la poesia nel 1997. Nella sua vasta produzione si annoverano romanzi, libri per ragazzi, saggi e, soprattutto, raccolte di poesie.

25 ottobre 2009

Sa gherra es tonta


Nella nostra società ipertecnologica organizziamo incessantemente enormi depositi di memoria, impauriti, forse, dal rischio di perdersi in un presente divenuto infinito, globalizzato, eterno e che sempre di più sembra minare la capacità e la volontà di ricordare il passato. Tuttavia ci sono società per le quali la memoria resta soprattutto una ferita cruenta della mente e per le quali la rimozione potrebbe sembrare l'unico rimedio efficace al dolore. Ma non è così. Bene lo sa, ad esempio, lo scrittore e poeta palestinese Ibrahim Nassrallah, che nel suo romanzo intitolato Dentro la notte (Ilisso, 2004), scrive: «Dimentichiamo per sopravvivere. Ma per non morire non dimentichiamo mai del tutto».
In Italia lo slogan “per non dimenticare” caratterizzò una miriade di iniziative che nel corso di lunghi decenni riproponevano la memoria di quel 12 dicembre in cui il terrore indiscriminato entrò nella storia del Paese: per non dimenticare la violenza, per non dimenticare l’ingiustizia di non poter far valere la verità. Così è stato sia per le vittime della guerra invisibile chiamata strategia della tensione, così per le tante vittime di mafia e per i loro parenti, condannati a essere per sempre testimoni della vita e della violenza che l’ha spezzata.
«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta», dichiarò Nuto Revelli nel 1999, nel suo discorso per in conferimento della laurea honoris causa.
Così anche Luigi Pintor nel suo libro del 1991 intitolato significativamente
Servabo, parola latina che condensa il senso profondo della memoria nel suo valore civico: conserverò, terrò in serbo, terrò fede, ma anche servirò, sarò utile. A dispetto dei depistaggi del tempo e dell’anima, solo la memoria può impedire l’insediarsi di allarmanti processi storiografici: dal revisionismo storico grande – sul passato remoto del fascismo, il nazismo, la Shoah – a quello piccolo sul passato prossimo della vicenda italiana, l’eversione, le stragi.
“Per non dimenticare” sono anche le parole con cui Giacomo Mameli chiude il suo ultimo libro
La ghianda è una ciliegia (Cuec, 2006), ed è appunto nel solco di questo lungo grido della storia contemporanea che nasce un'opera che straordinariamente ci costringe ancora a riflettere sul passato per comprendere ancor di più l'assurdità di quelle attuali. Mameli infatti – senza mai minimizzare o reificare il dolore del singolo uomo ma, anzi, trasmettendolo al lettore con grande pietas – trascende la realtà individuale per raccontare la tragica esperienza collettiva della seconda guerra mondiale con le rievocazioni dei soldati di Perdasdefogu (oggi più che novantenni) e delle loro peripezie in Russia, in Albania, in Grecia, nei campi di concentramento tedeschi e degli anni passati in India e in Sudafrica.
L’opera – pur rielaborata nella finzione del romanzo – si fonda sulle testimonianze reali degli anziani che, oltre sessant’anni fa, furono improvvisamente strappati dall’operoso e agreste microcosmo per essere catapultati in un mondo dilaniato dalla sofferenza.
La guerra non è mai giusta e ancor meno intelligente. La guerra è «tonta», come dice Peppino Carta fu Giovanni e di fu Puddu Doloretta (p.54) e «stupida» come dice quel Vittorio Tegas (p.307) che sa delle tre Italie perchè ha letto Chabod… Stupida la guerra, e le ragioni per farla, quelle di ieri in nome del fascismo, quelle di oggi in nome di una presunta democrazia. Ragioni irragionevoli, soprattutto se la si guarda, la guerra – com’è giusto che sia – dalla parte di tutte le genti che l’hanno subita anche quando erano convinte di combattere una causa giusta. Il libro di Mameli è vicino anche a Emilio Lussu, che in
Un anno sull’altipiano (1938) propone una realtà feroce e cruda dimenticando per sempre il mito romantico della morte eroica; qui la guerra «stupida e tonta» dei soldati di Perdasdefogu è quella «degli ordini sbagliati, delle scarpe di cartone, dei sacrifici umani a scopo dimostrativo».
In
La ghianda è una ciliegia Pietrino-Strìa (chiamato come il fratello maggiore morto sul Carso) racconta a pagina 122:
«A me – come a quasi tutti i miei amici di Foghesu – il fascismo piaceva davvero, lo sentivo dentro il cuore e dentro l’anima e mi entusiasmava… Mi sembrava che dovevo ringraziare il fascismo se avevo lavorato a Carbonia, se avevo visto il Duce, se avevo conosciuto il continente. Senza fascismo io sarei rimasto o contadino o pastore. Soldato è meglio. Sì, ragionavo così». Pietrino Civetta viene catturato dagli inglesi, deportato da Alessandria al Cairo, fino al Sudafrica in un campo di concentramento dove, non essendoci niente da fare, si mette a contare le spine del reticolato: «Contavo quelle spine rivolte in su. Il rettangolo lo avevo chiamato “Su campu” e gli avevo dato per confini i nomi dei paesi. Il lato lungo di nord era Ulassai, il lato lungo di sud Escalaplano. Il lato corto di nordovest Esterzili e il lato corto di nordest Tertenia. La gara l’aveva vinta Ulassai con 11.245 spine mentre Escalaplano si era fermato a 10.387. I vincitori erano quindi Ulassai ed Esterzili. Vincitori di che cosa?» (p.134). Domanda retorica che vale per Ulassai ed Esterzili, per quella guerra e per tutte le guerre del mondo.
Ci sono dunque anche qui i volontari, i fascisti convinti, gli ammiratori del duce, che partiranno entusiasti per ritornare atrocemente delusi dal dramma della sconfitta e dalla lancinante consapevolezza dei falsi miti del regime – come anche Orazio Mameli (padre dell’autore e alla cui memoria il libro è dedicato) che «dalla fede cieca del fascismo era passato a quella ragionata del sardismo».
Ma la maggior parte di coloro che partirono non lo fecero per eroismo, non per fascismo, come un dice un altro personaggio-testimone, Mario Casu, parlando di sé come di un disgraziato mandato a fare la guerra da un paese dove «la guerra si chiamava fame».
Una miriade di trame legano le narrazioni dei poveri soldatini di Foghesu ai personaggi dell’indimenticabile
Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi: sono le vicissitudini che brutalmente tolgono ogni senso all’essere catapultati in una guerra inappartenente, in condizioni disumane. Nel primo bellissimo racconto intitolato La penna di asfodelo così ricorda Vittorio Palmas il lungo viaggio per fare la guerra: «Parto di notte a piedi, da solo, a far la guerra, io che non conoscevo una cartuccia se non quella che aveva ucciso la martora. Tutto quello che possedevo l’avevo addosso, né sacco né scatola di cartone, neanche un soldo in tasca … avevo una camicia, mamma l’aveva chiesta al figlio di suo cugino Fracànzu, un paio di pantaloni e una giacchetta che sembrava rubata a un bambino di dieci anni. Calze non ne indossavo». E il racconto prosegue raccontando le ore di camminate a piedi sino ad arrivare a Serra Longa, poi a Seui che per contrasto con il villaggio ricco solo di pietre sembra una grande città, e da lì il treno per Cagliari e poi la nave per Civitavecchia: Roma, Torino, e sempre il freddo, la fame, la stanchezza, gli incontri con altri diseredati, ma anche la solidarietà (bella in questo senso quella prima figura: una donna emigrata a Torino incontrata sulla nave, che al giovane di Foghesu compra pane e acciughe). Via via che i racconti si succedono cambiano i nomi delle persone e dei paesi di provenienza dei soldati, e cambiano le guerre, ma le storie si assomigliano tutte perché tutte si assomigliano le guerre: «Arriviamo in Russia – racconta Monni Pierino, classe 1920. – Arriviamo in Russia e neanche un albero, neanche una casa e una strada che non fosse bianca. E comprendo che quella di Foghesu non era neve ma schiuma di latte, perché la neve vera uccide per il freddo e per il gelo che ti crepa i piedi e le mani. Nei primi giorni di Russia a me e ai miei compagni di sventura il gelo aveva crepato anche la suola degli scarponi» (p.275).
Il libro raccoglie anche le diverse interessanti testimonianze delle anziane che ricordano la loro guerra quotidiana contro la fame, i durissimi lavori, l’attesa del ritorno casa dei fratelli. Per tutte ricordo la cernitrice dello struggente racconto
Italia è morta, che lavora alla miniera di carbone in fondo alla valle del fiume, e di quel lavoro morirà. E ricordo le donne del rosmarino, nel racconto omonimo, dove la protagonista, Luigina, racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la loro drammaticità infatti i racconti degli anziani sono spesso carichi di humor e di ironia, ovvero della leggerezza di cui sono capaci solo coloro che hanno attraversato un oceano di dolore.
Bastiana Madau