30 settembre 2010

Preda! :P

 
A Ciccia e Guancia

Adios

Al secondo livello del sogno

– Ti va una pizza?
– …
– Oh, hai fame?
– Sono frastornata. E ho freddo.
– Mangiamo qualcosa a casa, dai.
– …
– Vuoi un calcio?
– Hiii, caduta la trottolina.
– Al secondo livello del sogno la tua girava alla grande.
– Cazzo… ho russato?
– No, solo il mento appoggiato al petto. Per un quarto d'ora.
– Quindi per due minuti.
– …
– Partecipavo.
– Sei mai stata a Mombasa?
– …
– Dai, spara.
– 6, per averci provato.
– 5.
– 5.

29 settembre 2010

Michele Schirru, da Padria

Michele Schirru   aveva trentun anni quando venne fucilato per "aver pensato" di uccidere Mussolini. Viveva a New York da dieci anni, partecipava ai cortei per Sacco e Vanzetti, tornò in Italia perché era convinto che il male andasse eliminato alla radice.
Garzanti ripubblica oggi la sua biografia scritta da Giuseppe Fiori.

(A casa della mia amica R.N. c'è un bellissimo quadro dello zio che ritrae la fucilazione dell'anarchico Schirru. Colpisce – a lato del plotone d'esecuzione – la presenza di uomini in costume sardo che arrostiscono i maialetti. Il cielo è blu.) 

Restituzione prestiti

Sentirsi come i gatti, che vivono beati perché non se ne fregano un cazzo di nessuno, badano solo alla ricerca della loro posizione perfetta e soddisfacente sul territorio. Per questo sono così odiosi i gatti. Hanno risolto il problema senza neanche conoscerlo. Un privilegio inaccessibile agli esseri umani.
Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli, Milano 2010, p. 214.

Mentre mi recavo in biblioteca per riportare  i prestiti di tutta la famiglia, ho aperto una pagina a caso di questo libro di Sorrentino (il regista cinematografico, sì), che io non ho letto – ce l'aveva P. – e l'occhio mi è caduto sulla frase che ho ricopiato quassù. Contrariamente a Paolo Sorrentino io non odio i gatti, tutt'altro: da bambina li amavo, soprattutto i figli della gatta di mia madre (che tuttora li adora). La gatta domestica era perennemente gravida e quando partoriva gran parte dei mici - dopo qualche giorno dalla loro venuta al mondo (non so dire esattamente quanto tempo dopo, ma abbastanza perché noi bambini ci affezionassimo) - sparivano. I neonati che mia madre non riusciva a regalare venivano uccisi da qualcuno. Non so da chi, non l'ho mai capito. Non da mia madre, ne sono certa, e credo nemmeno mio padre. A ogni modo risparmio i dettagli di qualche fruttuosa indagine infantile, e dunque i nomi dei sospetti criminali. Per i mici che morivano di morte naturale noi bambini avevamo allestito un cimitero, dove seppellivamo anche uccelli e altre bestie diversamente morte: la rondine che si era schiantata sui vetri di casa, gli astores caduti dai nidi, alcune api che avevano subito la macelleria dei più piccoli e che andavo a recuperare mentre galleggiavano a pezzi lungo i rigagnoli. Il cimitero era sotto la piccola quercia dietro il grande cancello di Tron. Un cimitero abusivo e tuttavia molto frequentato. Ma in tutto quell'andarivieni di impiegati e tecnici delle miniere di talco, nessuno faceva caso a noi seppellitori di bestie trucidate.
Adesso le gatte domestiche si portano dal veterinaio per la sterilizzazione. Il mondo è cambiato, i gatti pure e non è facile cucire il tempo attraverso la mia personale esperienza con l'orrore. Aggiungi anche che ci sono passaggi di tempo che ancora mi sfuggono, in questo processo che va dai gatticidi domestici alla sterilizzazione.

28 settembre 2010

Sono cariche

– Fermatevi, non sparate, le armi sono cariche!
E così venne espresso ciò che tutti sapevano col cuore, ma non volevano accettare con la mente. Una delle cinque pallottole della prima raffica aveva colpito le foglie dell'alloro di gesso sulla loggia, dove l'ultimo console sovietico di Kars, un quarto di secolo prima, guardava insieme al suo cane i film. Perché il curdo di Siirt che aveva sparato non voleva uccidere nessuno. Un'altra pallottola aveva colpito la ringhiera di legno nella parte posteriore della sala, proprio dove era sistemata la telecamera della trasmissione in diretta, su cui una volta si appoggiavano le ragazze armene povere e sognanti che con i biglietti economici assistevano in piedi agli spettacoli dei grupppi teatrali, degli acrobati e delle orchestre di musica da camera che venivano da Mosca. La quarta pallottola aveva bucato la spalliera di un sedile, in un angolo lontano dalla telecamera, e aveva colpito alla spalla il signor Muhittin, il venditore di pezzi di ricambio per trattori e strumenti agricoli, seduto dietro con la figlia e la cognata vedova. In un primo momento anche lui aveva creduto che gli fosse caduto addosso qualcosa dal soffitto, come i pezzi di calce di poco prima, e aveva guardato verso l'alto. La quinta pallottola aveva frantumato la lente sinistra degli occhiali di un nonno che era venuto da Trebisonda a trovare il nipote che faceva il militare a Kars, seduto un po' dietro agli studenti filo-islamici, e gli era entrata nel cervello uccidendolo silenziosamente mentre stava per addormentarsi, senza fargli capire che stava morendo; poi gli era uscita dalla nuca e attraverso la spalliera del sedile era finita dentro un uovo sodo nel sacchetto del ragazzo che vendeva pane e uova, un bambino curdo di dodici anni che proprio in quel momento stava allungando degli spiccioli tra le file. /…/
Neanche il maggiore-ispettore aveva potuto stabilire dove fosse finita una delle palottole partite dalla quarta raffica. Una pallottola aveva ferito un giovane venditore venuto da Ankara a Kars per mettere sul mercato enciclopedie a rate e giochi di società (sarebbe morto due ore dopo per emorragia). Un'altra avrebbe fatto un buco enorme sul muro sotto la loggia privata, dove all'inizio del Novecento si sistemava con la sua famiglia in pelliccia, nelle serate in cui si davano spettacoli teatrali, Kirkor Çizmeciyan, un ricco armeno, commerciante di pellami. Secondo un'affermazione che lascia il tempo che trova, le altre due pallottole entrate in uno degli occhi verdi e nella fronte larga di Necip non l'avevano ucciso subito, e secondo quello che venne raccontato in seguito il giovane, guardando per un attimo il palcoscenico, aveva detto: – Ci vedo!

Orhan Pamuk, Neve, traduzione di Maria Bertolini e Şemsa Gezgin, Einaudi, Torino 2007, pp. 167-169.

27 settembre 2010

Prendas

Ora di pranzo. Solo noi due.
– Allora come va?
– …
– Allora?
– "Non mi fotte più!" – guardando nel vuoto.
– …
Si cresce, normale.

26 settembre 2010

Be candid

L’ansia che oggi può assalirti quando entri in un'edicola italiana credo di capirla. Un paio di mattine fa non ce l'ho fatta: nell'edicola-bazar di Cala G. per comprare i soliti quotidiani (uno nazionale e uno locale), mi sono sentita invece chiedere un paio di occhialini da nuoto. A settembre. In una giornata di nuvole basse. E mai usato occhialini in vita mia. 
Seconda cosa (ah, grandi affinità, ho pensato questa mattina leggendone in un lancinante post!): anch'io nuotando non penso mai a niente!
Sennonché, nel pomeriggio, ho fatto un’indagine a casa e tra gli amici: "Ma tu, quando nuoti, pensi?"...
Cavolo, nessuno pensa nuotando, nes-su-no.

21 settembre 2010

Non timas

In cue sutta v'es sa morte, ma non timas. Astringhe su rellozzu chin d'una manu, picca chin duos poddighes sa craìtta, àchela girare abbellu abbellu. Como s'aperit un'attera istajone, sos arvules isparghen sa ‘ozzaz issòro, sas barcas curren’ in su mare, su tempus comente unu ventagliu si nde mascat de isse matessi, e da issu naschit s'àghera, su venticheddu 'e sa terra, s'umbra 'e una 'emina, su viàccu vonu 'e su pane. Ite cheres de prus? Ite cheres de prus? Prèndhelu deréttu a su brusciu, lassa liberos sos tocchéddos suos, ache de tottu pro l’assimizzare. Su timinzu ghettat a sas ancoras rughinzu, incancrenit su sambene vrittu ‘e sos rubinos. E in cue sutta v'es sa morte, si non currimus e arribamus prima 'e issa, e non cumprendimus chi no at prus nisciuna importanzia.

17 settembre 2010

Io certe volte

io, questa ironia o simpatia o non so cosa, ma comunque forzata, questo tono di chi spara battute a raffica e prende di mira chi passa con sarcasmo dozzinale, quella certa estrosità chiassosa da villaggio vacanze che sembra avere colonizzato la mente di molti, io certe volte non ce la faccio
Flavio, stasera, nella sua pagina Facebook


La corda del bucato

Anche dopo aver rivolto richieste di aiuto in arabo corretto, non c’era nessuno che rispondesse. I proiettili prorompevano aumentando in velocità e intensità. I colori si confondevano.
Mia madre aveva detto: – Bisogna togliere il bucato dal terrazzo.
Mio padre aveva risposto: – Adesso pensi al bucato?
– Il bucato farà loro bombardare la casa.
– La bombarderanno comunque. Con o senza bucato. È una guerra.
– Non è guerra. Ammazzano le persone e basta. Tra un po’ si annoieranno, anche i soldati s’annoiano, e allora bombarderanno la corda del bucato.
Nessuno rispondeva.
«Masse del nostro popolo arabo! Il massacro che oggi si compie…».
Il campo profughi, i suoi terrazzi, le piazze, i vicoli erano diventati un campo di tiro. Il vento carico dell’odore della polvere da sparo soffiava da ogni lato.
Quando lo stretto rifugio aveva vibrato con chi c’era dentro, avevamo detto: – È un cannone Hautzer.
Il padre dei piccoli, mentre stringeva a sé i figli e nascondeva la paura che aveva per loro, aveva commentato: – Tre giorni sono sufficienti a trasformare tutti in esperti di armi.
Non siamo esperti di viaggi. Li avevamo dimenticati. Avevano chiuso il paese con noi dentro, ma inaspettatamente l’hanno riaperto, così all’improvviso come l’avevano chiuso.
Hanno detto: – Viaggiate a sazietà!
Dice l’altro: – Dovevamo proprio viaggiare?
– Avevamo bisogno di un miracolo, di una cosa meravigliosa, dell’ottava meraviglia, anzi della nona. L’ottava siamo noi! Avevamo bisogno di un miracolo. Una grande realizzazione equivale a un miracolo.
Abbiamo diritto di vedere realizzato un miracolo non immerso nel sangue.
Ibrahim Nasrallah, Dentro la notte, traduzione dall'arabo di Wasim Dahmash, Ilisso, Nuoro 2004, p.10.

Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 in un campo profughi in Giordania e vive ad Hamman. Poeta e scrittore, ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il prestigioso “Sultan ‘Aways” per la poesia nel 1997. Nella sua vasta produzione si annoverano romanzi, libri per ragazzi, saggi e, soprattutto, raccolte di poesie.

16 settembre 2010

Performance visiva di un'idea coloniale

Nei documentari degli anni Cinquanta lo sviluppo si presentava come un processo equilibrato che partiva dalla modernizzazione del settore agro-pastorale. Le bonifiche e le dighe avrebbero creato le condizioni tecniche di un'agricoltura irrigua: la promessa riforma agraria avrebbe liberato le terre dai limiti intrinseci dell'eccessiva frammentazione; il pastore e il contadino di vecchio tipo si sarebbero trasformati in operai e tecnici agrari. I documentari mostravano fattorie razionali in cui vivevano i coloni con le loro famiglie supportati da vari servizi tecnici e sociosanitari. Si mostravano linee di comunicazione, stradale e ferroviaria, che avrebbero favorito l'avvio dei prodotti della terra ai mercati e alle industrie di trasformazione. Un ottimismo razionalistico pervadeva quei messaggi, dai quali non trapelava alcuno spunto critico.
Nel documentario istituzionale degli anni Sessanta di tipo socio-economico, i riferimenti all'agricoltura si fanno più sfumati e generici. Essa appare nei discorsi degli assessori nel quadro di un generico sistema di imprese integrato con le industrie di base e con quelle, mai create, di lavorazione. Emerge con chiarezza una filosofia dello sviluppo che identifica il progresso con l'industria e questa con la petrolchimica. I documentari di Romolo Marcellini Civiltà dei pastori e Sardegna, industria e civiltà, entrambi del 1969, ne sono la sintesi esemplare.

Le performances visive delle grandi industrie sul mare e nei deserti

L'enfasi acritica che i documentari degli anni Cinquanta avevano riservato allo sviluppo agricolo e rurale si trasferisce, quindi, per intero alla grande industria peltrochimica dalla quale si attende l'induzione di processi di lavorazione a valle. I termini "a valle", "integrato", "seconde e terze lavorazioni", "tessuto di piccole e medie industrie" si ripeteranno come dei refrain obbligatori nei filmati istituzionali e come un'aspettativa non realizzata in tutti gli altri.
Di piccole imprese si mostreranno rari esempi marginali e le enfasi argomentative saranno dedicate interamente ai mastosi stabilimenti petrolchimici. L'esaltazione ottimistica e acritica per il Piano di Rinascita espungeva ogni accenno a temi troppo imbarazzanti che avrebbero potuto suonare come critiche alla classe politica regionale. Nei documentari istituzionali non si troverà alcun accenno al banditismo, ai pescatori di Cabras, all'emigrazione, alle lotte che caratterizzavano il settore minerario in crisi.
Una rappresentazione veritiera, spesso impietosa, delle condizioni della Sardegna negli anni del Piano di Rinascita è offerta grazie alle inchieste realizzate per la Rai da Giuseppe Dessì (Itinerari nel tempo, 1968) (1), da Luca Pinna (Sardegna 1965, 1965), da Giuseppe Lisi (Dentro la Sardegna, 1968) (2) e dal più importante ducumentario di Fiorenzo Serra (L'ultimo pugno di terra, 1965) (3).
Salvatore Pinna, Guardarsi cambiare. I sardi e la modernità in 60 anni di cinema documentario, Cuec, Cagliari 2010, pp.46-48. 

[N.d.b.]:
1. Nel portale Sardegna Digital Library puoi trovare l'intero documentario, a partire dal link:
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4460&id=1126.
2. Idem, a partire dal link: 
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4460&id=86117. 
3. Il documentario fa parte degli 8 DVD contenuti nell'opera: Fiorenzo Serra, La mia terra è un'isola, Ilisso, Nuoro 2010.

15 settembre 2010

Cambio di paesaggio

Treno Termini-Civitavecchia, finalmente, tornando a casa da un faticoso viaggio.
Nave. 
In auto con P., che è venuto a prendermi all'Isola Bianca, crollo subito dal sonno e dalla stanchezza. 
Riapro gli occhi e realizzo di essere a casa: non vedo più paesaggi colmi di rotoballe ma solo pecore che brillano al sole.

14 settembre 2010

Freeclimber





Maggio 2010. Arrivo a Cala Luna, a piedi da Fuili.
Domenica scorsa – dopo un bagno a Fuili, partito anche l'ultimo turista – leggevo in spiaggia di due freeclimber che hanno trascorso l'intera notte appesi allo spigolo nord-ovest di Punta Cusidore, nel Supramonte di Oliena, bloccati da un vuoto che gli impediva di andare avanti e di tornare indietro. Padre e figlio, esperti pare, poveracci. Dev'essere terribile passare una notte all'addiaccio appesi a una parete. Fortunatamente, leggo ora, ieri mattina i vigili del fuoco li hanno liberati dall’incubo.

No, volevo solo dire che, sempre domenica, al ritorno a casa, ho cancellato un post che aveva l'ingenuo obiettivo di arrivare a una vetta posta a 400 mt, con un vuoto di 8 mt, appigli e appoggi troppo distanti tra loro.
(Grazie a Giulia per le foto.)

11 settembre 2010

La scuola pubblica sta morendo

Bella, prof! Pimpami la storia.
Caparezza

FATICA: Lo diceva anche lo spagnolo – palloso al limite del sostenibile – che per conoscere bisogna faticare e non poco. Invece siamo viziati, abituati ad "avere" (?) tutto a portata di mano, a disposizione, facilmente "condivisibile" senza dipendere da un previo sforzo, trovando "il sole in alto senza essercelo caricato sulle spalle".* 
Da questo punto di vista i social network sono micidiali, rafforzando in modo inquantificabile l'automatismo della pseudo condivisione.
Si prende e si porta a casa e spesso senza neppure dire grazie. D'altra parte chi ringraziare se non si conosce neppure da dove è partito il "dono", com'è stato confezionato e perché?
Tutto è a disposizione, a portata di tutti, come l'aria. E l'aria è ciò che chiamiamo naturale, come le patate (?), appunto, che sono uguali e identiche in tutto il mondo.
Per capire ci vuole tempo, e nella panna planetaria dell'informazione che monta vertiginosamente in rete devi attivare la funzione "distruzione" per poter isolare quello che TI SERVE davvero. Questo lo chiariva molto bene Luigi Crocetti, uno dei padri della biblioteconomia italiana, a proposito della classificazione e reperibilità dei documenti, in tempi in cui si è temuta la morte del libro (e dei cataloghi). Vabbè.
* Josè Ortega y Gasset, La ribellione delle massetraduzione di Salvatore Battaglia, Il Mulino, Bologna 1962.

ORIGINALITA': Non si può dire niente di originale se non si conoscono le origini da cui partire per la rielaborazione, rassegnamoci. Tutto diventa come le patate dei MacDonald's (a proposito: lunga vita a Mc Puddu!).

STORIELLA: Un prof ginnasiale, memorabile non fosse altro perchè era l'unico che all'epoca (era la fine dei '70) ci vietava di fumare in classe, non sorrideva mai, di ridere non se ne parlava nemmeno. Ma in un'indimenticabile mattina di neve, leggendo ad alta voce Le rane di Aristofane si stese a braccia aperte sulla cattedra per il gran ridere. E noi con lui. E a un certo punto non si capiva più se stavamo ridendo o piangendo tanto forti erano le convulsioni. Questo post è dedicato a lui.


Jacques Tati, Playtime, 1967

9 settembre 2010

All play and no work makes Jack a mere toy



Quello che conta adesso è questa prossimità assoluta, questa coprecisione, sul medesimo piano di visione ravvicinata, della campitura che fa da sfondo e della Figura che fa da forma. Ed è proprio questo sistema, questa coesistenza di due settori uno accanto all'altro a chiudere lo spazio, a produrre uno spazio assolutamente chiuso e in movimento, molto più che se si procedesse con lo scuro, il cupo o l'indistinto. Per questo Bacon ricorre allo sfocato, anzi, persino a due tipi di sfocato, entrambi però parte di questo sistema di alta precisione. Nel primo caso lo sfocato non è ottenuto per indistinzione, bensì mediante l'operazione che consiste nel distruggere la nitidezza con la nitidezza.
Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1999, p.20.

Jacques Tati, Playtime, 1967

Se l'è andata a cercare

Rigurgito in metrò

Uomini e donne si avvitano, distratti, in cerchi concentrici, come animati da una logica nascosta. Sopra, il mondo è fulgido, azzurro – gli appartiene. Parlano, discutono, un vento di fogli e bisbigli si distende, continuo, nell’aria. Cosa dicono? Tutto, proprio tutto è da rifare, ma prima bisogna distruggere. E i cerchi si allungano, per disegnare un serpente: una scaglia dietro l’altra, e ogni scaglia è una catena di braccia che annodano altre braccia, per addossarsi, di spalle, alla scaglia davanti – tutte unite, ma libere, e si aspetta. Poi, un sussulto (ma fermo) – la testa, forse, si è mossa: e laggiù, lontano, qualcuno si stacca, da solo, ed avanza di un passo, si volta. Lo si sente - il brusio si è smorzato - gonfiare il suo corpo di aria. E un tuono accende la vita:

A.N.nn.D.R.E.O.ooT.T.T.Iiii
– BOIA – s’infiamma a una voce il serpente, e si muove –
mentre insieme migliaia di pugni 
quella voce accompagnano al cielo.

Giuseppe A. Samonà, Quelle cose scomparse, parole, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 46-47.

6 settembre 2010

A lonely man

Ricordando Sergio Atzeni 
(Capoterra, 1952 – Carloforte, 6 settembre 1995) 


Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l'avevo capita, anche ora che la dico non so che senso abbia. Non conoscevo il significato delle parole eterno e increato (forse lo intuivo con vaghezza) rubate a conversazioni famigliari, mi gloriavo di essere ateo. Nell'isola era sinonimo di bandito, a otto anni ero abituato a essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura — molto tempo dopo, scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios ed eversori.
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, 2000, p. 15.

5 settembre 2010

Parole minerali

Il granito rosso del Monte Nieddo è sìmile all’egizio; il roseo dei Sette Fratelli a quello del Verbano; il grigio abonda nel Gocèano e nella Nurra; il pòrfiro trachìtico e le basaniti dànno màcine; il marmo ha belle varietà: il cipollino del Correbòi, il bardilio di Mandas, il nero di Flùmini Maggiore, la breccia d’Eglesia, il bianco zuccherino d’Ozieri, di Chirra, di Teulada. Abonda il gesso; e l‘alabastro veste le grotte di Porto Conte, Tiesi e Domus Novas. La Nurra fornisce schisto tegolare; sono frequenti le pozzolane, le pùmici, i tufi, le argille, il nitro, l’allume, il bolarmeno, le rocce magnesìfere, le terre coloranti; si raccòlgono diaspri, àgate, calcedonie, cornaline, ametiste e giadi. Negli stagni marìtimi abonda il sal commune, ed anche il solfato sòdico; nelli interni il carbonato. Molte fonti salutari dei tempi romani sono smarrite; ma si frequèntano le termali di Sàrdara e Fordungiano, le acidule di Codrungiano, le iodurate di Villacidro, le marziali di Benetutti, ove i bagnanti sono costretti a ripararsi in una chiesa, o sotto frascate, o all’ombra d’un fico gigantesco; così poca cura si ha d‘ogni util cosa.
Carlo Cattaneo, in: Alcuni scritti del Dottor Carlo Cattaneo, Borroni e Scotti, Milano 1846, p. 220.

1 settembre 2010

Tutto da rifare

Mi rendo conto che l’immagine è diventata consueta: un pullman carico di ragazze. Una carovana di femmine da esposizione. È sempre la stessa la loro età: dai venti ai trent’anni, con qualche punta sui 35 portati bene, o sui diciotto portati male. È sempre identico il loro aspetto: alte, magre, truccate, i capelli lunghi, i corti abitini neri, le generose scollature. È identica la loro espressione: vuota, disponibile e scocciata. È omogenea la motivazione: ottenere senza far niente qualche soldo. Alle feste del Premier un migliaio di euro, alle lezioni del Dittatore libico soltanto ottanta (ma c’è l’esenzione dalle prestazioni sessuali, a meno che Maometto non ti scelga). È diventata parte del panorama quotidiano, quest’umanità femminile ridotta a pura decorazione. Negli incontri fra vecchi potenti e impotenti ci si scambiano mazzetti di fanciulle, come se fossero gladioli o garofani. Qualcuno le sistema nei vasi. Quindi i signori si dedicano ai loro affari, scambiano soldi e destini, io ti blocco il flusso di migranti tu mi paghi questo e questo, io ti do un tot tu mi garantisci un tot più due… I cavalli berberi, le ragazze italiane, le soldatesse libiche, le religioni monoteiste… tutto è scenografia, spettacolino, contorno. Per noi, cittadini di questo Paese, è triste, per noi donne è qualcosa di più: è offensivo. E pericoloso. È pericoloso abituarsi all’immagine delle carovane di ragazze umiliate e contente. Gli effetti collaterali si moltiplicano. Sempre più gravi, sempre meno prevedibili. Nessuno ci fa caso. Poi capita che due medici, in sala parto, si prendono a pugni invece di aiutare una giovane madre a partorire, e tutti gridano e tutti si stupiscono. Forse, in quel momento, sul lettino, non c’era una persona impegnata nell’impresa più nobile e difficile in cui può impegnarsi un essere umano, ma un capo di bestiame come un altro.
Lidia Ravera, Femmine come bestiame, L'Unità, 2 settembre 2010 


Campagna Fieg di promozione della lettura (sigh!)