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27 giugno 2019

Conflitti o Dei troppi direttori e un solo sax

Per non farsi (soprattutto immeritatamente) del male, sto pensando che quando non si possono evitare bisogna comunque essere attrezzati per proteggersi dalle situazioni conflittuali, che spesso sono improvvise ed esterne a noi, e tuttavia è noi che chiamano.
Intanto che voi fate mente locale sui vostri vissuti, io vi racconto un episodio accadutomi diversi anni fa (il più ameno che mi viene in mente), che se non fosse anche comico, appunto, sarebbe tragico: mi fece stare male per ore.
Premessa:
non accettate mai inviti a festival che abbiano più di un direttore artistico, oppure, se proprio non volete rinunciare, informatevi quanto meno se nel direttivo vigano pace, amore e armonia d'intenti. 
Io quella volta non lo feci. Così, un pomeriggio d'estate, in una piazza gremita, nel cuore di un bellissimo paese che ospita un interessante festival, mi ritrovai a conversare intensamente e felicemente con una fantastica poetessa nordafricana francofona (non voglio dare indizi più precisi per una questione di eleganza, diciamo). Tutto bene. Lei brillante e anche un po' pazza, non semplicissima da gestire, ma ero preparata anche agli spigoli e ce la stavamo cavando alla grande. Dopo la conversazione, il reading: lei declamava a memoria nel suo bel francese, io leggevo le stesse poesie in italiano. Ci vennero incontro persino le campane di una chiesa a lato della grande piazza, che a un certo punto presero a rintoccare — e noi a seguite quel ritmo — e il sollevarsi di un volo di rondini. La piazza sembrava incantata. Se non che... io ho mille occhi, purtroppo, e di ciò che ho davanti nulla mi sfugge. Ecco che vedo un movimento strano sulla mia sinistra: è uno dei direttori, che a gesti mi dice di tagliare. Proprio in quel momento la mia istrionica poetessa si è alzata in piedi e sta caricando di passione in suo recital. Inizio a preoccuparmi. Vengo richiamata ancora a sinistra, e nelle labbra del direttore leggo: Dob-bia-mo-pre-pa-ra-re-il-pal-co-per-Ja-mes-Se-ne-se. 
Ah, ok, lo so, ma la nostra ora non è scaduta e il pubblico è presissimo. 
(Tenete presente che in tutto questo io sto continuando a gestire la situazione sul palco, inseguendo la poetessa che intanto ha preso a saltare di palo in frasca la scaletta delle poesie concordate e che io devo leggere tradotte secondo il mio sistema di bookmarck)... Intanto vedo che dalla destra del palco arrivano altre direttive! È il secondo (ma non in ordine gerarchico) direttore, che con gesti perentori mi dice: Vai, vai, vai,  continua... A sinistra il primo ormai sbraita. All'improvviso si attiva anche il mio occhio parietale: mi guardo alle spalle, non mi sto più divertendo, sono anzi tesissima, non vedo l'ora di chiudere... E chiudo. Mettendoci tutto il garbo, certo, ma il sapore della chiusura improvvisa è inevitabile. Prendo in mano il microfono, mi alzo in  piedi e dico che quella che sta arrivando è l'ultima poesia perché il nostro tempo è scaduto.
La poetessa mi fulmina con lo sguardo dall'alto del suo metro e ottanta. E all'improvviso capisco che sono tra tre fuochi, anzi: quattro, ché conta anche il pubblico, e che nessuno, alla fine, resterà davvero contento.
In effetti andò così o così sembrò a me, che intanto mi ero fatta venire un tremendo malumore.
Chi non si accorse di nulla fu proprio James, che fece un concerto stupendo.

📚💘🎷🎼

23 gennaio 2016

Between the words

Bianconiglio: Uh, poffare poffarissimo! È tardi! È tardi! È tardi!
Alice: Questo sì che è buffo. Perché mai dovrebbe essere tardi per un coniglio? Mi scusi? Signore!
Bianconiglio: Macché! Macché! Non aspettano che me! In ritardo sono già! Non mi posso trattenere!
Alice: Dev’essere qualcosa di importante. Forse un ricevimento. Signor Bianconiglio! Aspetti!
Bianconiglio: Oh, no, no, no, no, no, no! È tardi! È tardi, sai? Io sono già in mezzo ai guai! Neppure posso dirti “ciao”: ho fretta! Ho fretta, sai?
Lewis Carroll, Alice nel Paese delle meraviglie

C'è chi dice di non leggere perché – classicamente non ha tempo. Così, in quest'ultimo periodo, a proposito di battaglie combattute per incrementare la lettura di libri, abbiamo assistito all'annoso dibattito sull'opportunità e l'efficacia della riduzione dei capolavori della letteratura mondiale e non solo (come attualmente sta facendo un editore nostrano, editando una serie che "distilla" alcuni fra i bestseller più venduti nell’ultimo decennio; un noir di Larsson, ad esempio, passa da 600 a 240 pagine). Ma così, ancora, non stiamo affrontando il problema alla radice, eh: nei famosi "tempi come questi" perché affidarsi ancora ai bignamini? Mettiamo tutto nelle mani di Nicholas Rougeux e non parliamone più.
Nicholas Rougeaux, Between the words

17 dicembre 2015

La parte che ama e basta o Un discorso sulla salvezza

"Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo. Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo. Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando. Che ama e basta, forse.
Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata."
Da un'intervista di Laura Miller a David Foster Wallace, 8 marzo 1996; traduzione di Martina Testa.

David Foster Wallace dice cose interessanti e, per quel che riguarda la mia esperienza come lettrice, giuste. Soltanto al termine di una narrazione che sento abbia ruotato intorno a un nucleo di verità umana, artistica, sociale, sperimentale, "ale", ecc. , frutto del disvelamento di una "dimensione speciale" (come la ha chiamata un amico con cui se n'è parlato, riferendosi a una dimensione artistica autentica), me ne sento arricchita. Più astrattamente, ho idea che i grandi scrittori non operino mai per abbagliare il lettore con esibizioni egocentrate, bensì, per riuscire a toccare anche il cuore e la mente altrui, scavino nella propria umanità, che è completamente un'altra cosa. E ci sono dei rischi personali, nel fare questo, ma sono anche rischi a cui un artista, con o senza apostrofo, oggi come sempre, probabilmente non può sottrarsi. E credo che noi possiamo essere in grado di leggere questa necessità, quando c'è, e, anzi, forse, di riuscire a coglierla e a empatizzarvi, quando c'è. Indirettamente, infatti, mi viene da pensare anche alla formazione (che non c'è) del lettore. Ed è lì che si alza la nebbia... Solo chi legge, ormai, può operare principi di individuazione dell'opera che ha qualche valore, nel mare magnum dell'attuale librificio, e arginare il rumore dei potenti uffici stampa che conducono a prodotti banalmente di consumo. Non accade, naturalmente, non accadrà. Ciò significa che l'attuale "doping della letteratura" (cito Filippo La Porta, Manuale di scrittura creatina. Per un antidoping della letteratura, Minimum Fax, 1999), cioè il fenomeno delle opere costruite a tavolino o "gonfiate" per il mercato, si presenta come un fenomeno inarrestabile. Pertanto non è più certo, come solitamente si dice, che a sopravvivere sino a essere tramandate ai posteri saranno le narrazioni non dopate, quelle universalmente necessarie. In tal senso, oggi meno che mai abbiamo certezze. Lo stesso discorso sulla "salvezza", se così si può chiamare, vale anche per le idee (che muovono i fatti), e, al limite, per le persone.

13 gennaio 2014

Non avere più nessuno a cui chiedere consiglio

 Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto;
io sono orgoglioso di quelle che ho letto
J.L. Borges

«Proprio ieri il New York Times ha dedicato un articolo al tema del lettore non più solitario, ma solo. L'indagine muove da Virginia Woolf, che nel 1925 notava quanto fosse difficile leggere un romanzo. Ebbene, se ciò era vero circa un secolo fa, ora l'impresa risulta ben più ardua. Infatti, da un lato la capacità di concentrazione risulta atrofizzata dal multi-tasking (il piacere-dovere di svolgere più occupazioni insieme), dall'altro appare spesso disturbata dalle attrattive di iPad, iPhone o computer. Ecco allora la principale fonte di smarrimento che ha colpito il lettore: la perdita di quella dimensione spirituale che Simone Weil chiamava "attenzione", e un filosofo quale Malebranche definiva "preghiera naturale dell'anima".
Subito dopo una simile menomazione, chiunque voglia oggi affrontare un libro degno di questo nome (e non i prodotti di consumo battezzati da Andrea Coltellessa "monnezzoni scala-classifica"), si imbatterà in un'altra difficoltà, dovuta alla scomparsa della critica letteraria giornalistica.
In tutto l'Occidente, da metà Ottocento, la stampa contemplava la presenza di una figura semi-sacrale, un professionista delle lettere chiamato a orientare il pubblico in base alle proprie riconosciute competenze. Inutile ricostruirne l'estinzione (basti dire che sin dal 1893 Sainte-Beuve vedeva i rischi di una "letteratura industriale"). Certo è che ormai la sua funzione è stata sostituita da quella di testimonial, tifosi, acquirenti.
E qui va riportata una definizione di Tiziano Scarpa: così come al musicologo è subentrato il dj (ossia disc-jockey, dal termine inglese "fantino", per indicare colui che "monta" un disco, spingendolo sulle vette della top ten), ora è la volta del bj, o book-jockey, che sprona i libri verso l'empireo dei best-sellers. Ecco quindi cantanti, attori, comici o semplici lettori pubblicizzare libri. Il risultato è ovvio: la verticalità gerarchica della rubrica letteraria si è trasformata nell'orizzontalità rizomatica del blog, oppure si leggono semplicemente le recensioni dei lettori su Amazon o, addirittura, i passaggi dell'opera che gli stessi hanno sottolineato di più nei loro Kindle. Invece del consulto professionale di uno specialista (fiscalista, idraulico, ortopedico), ci si scambia pareri fra clienti, utenti, malati. Altrimenti detto, sarebbe come salire il Cervino, affidandosi a un collega d'ufficio o a un chitarrista, piuttosto che a una guida alpina. In tal modo, alla fisiologica solitudine del lettore, se ne è aggiunta un'altra, patologica e deontologica: non avere più nessuno a cui chiedere consiglio.»
Da La solitudine del lettore, un articolo di Valerio Magrelli ne La Repubblica di domenica 12 gennaio, pp. nn.

Carrie Schneider, "Bianca reading Sylvia Plath" (Ariel, 1966)

28 dicembre 2011

Labirintini

Accanto, dissero qualcosa: attento
mi rivolsi alla soglia del caffè.
Costantino Kavafis, dalla poesia "Sulla soglia del caffé" appunto.
 

31 ottobre 2010

Dopo Nada, un piccolo blues

"La prossima volta scrivi un noir", dissi qualche anno fa a uno scrittore di talento che tuttavia lamentava il proprio insuccesso, "scrivi un noir che racconti di una bella signora con i tacchi a spillo di vernice rossa,  che la trovano fatta a fettine come la mortadella in un parcheggio sotterraneo a pagina 1, e a pagina 7 fai fuori una vecchina sordo-muta, femmina mi raccomando, che le donne assassinate le recensiscono più dei maschi bombardati."
Be', sì, scherzavo. Ma sino a un certo punto. Perché la verità è che – se ora sembrano essersi data una calmata all'epoca (parlo di quattro, cinque anni fa), il modaiolo noir italiano andava per la maggiore. Tanto che nella manchette di qualsiasi altro genere di romanzo un romanzo non di genere, appunto potevi semplicemente scrivere "non è un noir", e tanto bastava a distinguerlo. Questo per dire che se non mi entusiasma il concetto è per il semplice motivo che la maggior parte dei romanzi che mi sono capitati tra le mani, nel lungo periodo del librificio noir, erano proprio brutti, costruiti con un'operazione di genere, e in quanto tali palesemente non necessari. Libri di mestiere. Ma i libri, sia chiaro, o sono belli o sono brutti, o sono stupidi o sono intelligenti. Inutile cucinarli su uno schema "semplice", solo perché lo si pensa come tale e tanto è richiesto dal mercato editoriale (che  in Italia ha lavorato alacremente per "semplificare" il gusto dei lettori, bisogna dirlo).
Ma com'è che dopo cotanto disamore per la letteratura di genere mi sono infatuata di Jean-Patrick Manchette? Non scrive noir, Manchette? Il fatto è che davvero, come è stato scritto, "Manchette sta al noir come Eschilo alla fantascienza"...

3 giugno 2010

Ispìritu 'e patata

L'Italia è il Paese in cui regna sovrana la battuta di spirito. Ma una battuta di spirito molto diversa dal "mot d'esprit" alla Voltaire o da quello, sovversivo, esercitato da Karl Kraus, o ancora dal Witz freudiano, rivelatore dell'inconscio. Niente di tutto questo.  È una battuta fondata sulla retorica, che consiste nella spiritosaggine o facezia, e che ha la funzione di svuotare il problema del suo contenuto per spostare l'attenzione sulla sua formulazione, a dimostrazione di un'intelligenza brillante che gira a vuoto. Si tratta di un funambulismo verbale che ricorda la "causerie" della corte di Luigi XIV, quella delle Preziose ridicole o delle Furberie di Scapin, per quanto attiene alla Francia, o che evoca, per l'Italia, la maschera di Arlecchino, così tipico della nostra cultura e della Commedia dell'Arte e che, non dimentichiamolo, è servitore di due padroni. Esistono naturalmente parecchi livelli stilistici di questa battuta di spirito, che vanno dalla volgarità travestita da snobismo raffinato all'esercizio freddo di un'intelligenza geometrica passando per la barzelletta goliardica. A ispirare tutto questo è comunque la stessa cosa, il cinismo /…/, una sorta di "fenomenologia dello spirito" di un popolo che, nel corso dei secoli, ha dovuto adattarsi ai padroni più diversi, dai Longobardi agli Angioini, dai Borboni agli Autro-Ungarici e a Napoleone, dai Savoia al fascismo e alla Dc. /…/
Per quanto riguarda l'ambito del salotto letterario, eventualmente progressista, /…/ tratta con il medesimo tono spumeggiante il problema dei "sans papiers" o degli albanesi, quanto quello dei pedofili o delle torture in Somalia, per poi evocare il trash, il punk, Gucci, gli stilisti italiani o ancora le corde vocali della Callas o dell'ultima cantatrice alla moda, foss'anche calva. Purtroppo per noi tale cronista è convinto di possedere un grande "esprit de finesse".
Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone, Sellerio, Palermo 1998, pp. 45-47.

20 aprile 2010

La costruzione dell'albero

“Baobab” by Josep Ventura Oller

Se sapessi scrivere, prenderei gli aculei di un porcospino e graffierei tutto il tuo ventre enorme da cima a fondo. Mi arrampicherei su fino ai rami e inciderei dei tagli sotto le tue ascelle per farti il solletico. Lettere grandi e piccole. In un testo pieno di riccioli e volute, su linee a spirale, ti scrivo tutto dentro perché ho così tante cose da raccontare di un viaggio verso un orizzonte nuovo che si trasformò in una spedizione a un albero. Qui ci vorrebbe una pausa ritmica. Oh, quante cose ho imparato dai poeti, sono un’esperta nell’arte di arrangiare l’epico col lirico. Una pausa ritmica e i pensieri ricominciano a girare tutto intorno al tuo tronco per dire la storia di una passione folle che si rivelò la sola cosa cui alla fine potemmo aggrapparci, spogliati di ogni bene materiale, esausti e sfiniti di noi stessi in uno sforzo che ci trascinava, zavorra del passato.

Così ti adorno, riga dopo riga, delle nostre allucinazioni perché tu digerisca, sviluppi e levighi tanta assurdità conservando le informazioni inutili nella spessa corteccia grigia fino al giorno della tua autocombustione. E soddisfatta, depongo lo strumento e mi faccio un po’ indietro per osservare il mio lavoro, con le mani sui fianchi. 

Sei pieno delle mie cicatrici, baobab. Non sapevo di averne così tante.


Wilma Stockenström, Spedizione al baobab, traduzione dall'inglese di Susanna Basso,  Ilisso, Nuoro 2004, p.29


Wilma Stockenström, sudafricana bianca di ceppo afrikaner, nasce nel 1933 a Napier, nella regione del Capo. È autrice di sette raccolte poetiche, una pièce teatrale e cinque romanzi di successo tutti scritti in afrikaans, sua lingua madre. Il Nobel per la letteratura J.M. Coetzee, sudafricano anche lui, lesse il romanzo nel 1986 e ne rimase folgorato, tant'è che lo volle tradurre dall'afrikaans all'inglese. Ed è dall'inglese di Coetzee che invece lo porta sino a noi Susanna Basso, e in questa sua versione Spedizione al baobab ha ottenuto una notevole attenzione e diversi premi, tra i quali, in Italia, il "Grinzane Cavour".

25 aprile 2009

Addio all'esangue

"Ricordo che Ulises amava la giovane poesia francese. Posso dirlo con certezza. Per noi, quelli del Pueblo Joven Passy, la giovane poesia francese era uno schifo. Tutti figli di papà o tossicomani. Cerca di capirlo, una buona volta, Ulises, gli dicevo, noi siamo rivoluzionari, noi abbiamo conosciuto le carceri dell'America Latina, come possiamo amare una poesia come quella francese, no? E lo stronzo non diceva niente, rideva e basta. Una volta lo accompagnai a casa di Michel Bulteau. Ulises parlava un francese infame, quindi il peso della conversazione lo sostenni io. Poi conobbi Matthieu Messagier, Jean-Jacques Faussot, Adeline, la compagna di Bulteau.
Nessuno di loro mi fu simpatico. A Faussot chiesi se potevo piazzare un mio articolo sulla rivista dove lavorava, una merda di rivista di musica pop, e disse che prima doveva leggere l'articolo. Qualche giorno glielo portai e non gli piacque. A Messagier chiesi l'indirizzo di un vecchio poeta francese, una "vecchia gloria delle lettere" che a quanto si diceva aveva conosciuto Martín Adán in occasione di un viaggio a Lima negli anni quaranta, ma Messagier non me lo vole dare adducendo pretesti inverosimili come per esempio che il vecchio rifuggiva i visitatori. Ma non gli voglio mica credere dei soldi in prestito, gli dissi, voglio solo fargli un'intervista, eppure niente, non ci fu verso. Infine a Bulteau dissi che volevo tradurlo. Questo sì che gli piacque e non ebbe niente da ridire. Glielo dissi per scherzo, certo. Però poi pensai che magari non sarebbe stata una cattiva idea. Di fatto mi misi all’opera qualche ora dopo. La poesia che scelsi fu Sang de satin. Mai prima di allora mi era passata per la testa l’idea di tradurre poesia, malgrado io sia poeta e malgrado supponga che tutti i poeti traducano altri poeti. Ma a me nessuno mi aveva mai tradotto, quindi perché avrei dovuto tradurre io? Be’, così è la vita. Quella volta pensai che non fosse una cattiva idea. Forse fu colpa di Ulises, che mi stava influenzando anche nelle abitudini più radicate. Forse perché pensai che ormai era ora di fare una cosa che prima non varei mai fatto. Non lo so. So solo che dissi a Bulteau che volevo tradurlo e che pensavo di pubblicare la mia traduzione (pubblicare è una parola chiave) su una rivista peruviana che non esisteva, mi inventai il nome, una rivista peruviana cui collaborava Westphalen, gli dissi, e lui si mostrò d’accordo, credo che non avesse idea di chi fosse Westphalen, avrei potuto dire benissimo che era una rivista cui collaborava Huamán Poma o Salazar Bondy, e mi misi all’opera.
Non ricordo se Ulises se ne fosse già andato o fosse ancora qui. Sang de satin. Fin dal primo momento ebbi dei problemi con quella poesia di merda. Come tradurre il titolo? "Sangue di seta", o "Sangue di raso"? Ci pensai per più di una settimana. E fu allora che di colpo mi cadde addosso tutto l'orrore di Parigi, tutto l'orrore della lingua francese, della giovane poesia, della nostra condizione di meticci, della nostra triste e irrimediabile condizione di sudamericani perduti in Europa, perduti nel mondo, e allora seppi che non avrei potuto continuare a tradurre "Sangue di seta" o "Sangue di raso", seppi che se l'avessi fatto avrei finito per assassinare Bulteau nel suo studio di rue de Téhéran e poi fuggire da Parigi come un disperato. Così alla fine decisi di non portare a compimento quell'impresa e quando Ulises Lima se ne andò (non ricordo quando esattamente) smisi per sempre di frequentare i poeti francesi."
Roberto Bolaño, I detective selvaggi; traduzione di Maria
Nicola. Palermo,
Sellerio, 2003, pp. 319-320.