25 aprile 2016

Genealogie resistenti

Vorrei raccontare di Marianna, ma non so come iniziare, e allora ecco anche per te Luna de marzu, una poesia che Montanaru sottotitolò con una semplice dedica: "A Marianna Bussalai"
Luna de marzu sentìa
mi pares troppu istasera
Nues de onzi manera
t’attraversan su caminu,
currellende a s’affainu
sutta s’isprone ‘e su entu.
E tue in su firmamentu
b’andas bella passizera.

T’oscuras de improvvisu
e pare’ morta sa terra.
Inchizzìda est ogni serra
nieddu donzi padente.
Ma tue sighis sa via
cun tundu visu serenu.

Intantu in donzi terrenu 
de custa muntagna sola
cuminzat calchi viola
a si mustrare timinde;
ca sun sa dies beninde
de sa bella primavera.

Tue che nunziadora
t’avanzas luna nontesta,
a preparare sa festa
de totta s’umanidade.
Sa tua serenidade
ti faghet cumparrer trista.
Ma tue già cun sa vista
bies sa novella ispera.
Luna de marzu, sentia
mi pares troppu istasera 

Questo è solo uno stralcio della lunga poesia che Montanaru dedicò alla sua amata amica, e mi sembra la cosa più giusta da fare – ecco la chiave – iniziare a scrivere così di una donna che visse poeticamente i suoi anni, e tanto più nobilmente perché riuscì a coltivare la speranza in un contesto storico in cui sembrava regnare una profonda disperazione. Era lei, in tal senso, un'organizzatrice.
Primogenita di Antonietta Angioy e Salvatore Bussalai, Marianna venne alla luce a Orani nel 1904. Qualche anno più tardi nacque Ignazia, la sorella che sempre fu legata a Marianna anche dall'inossidabile complicità ideale che segnò il loro operato di future antifasciste. "Signorina Ignazia", come tutti la chiamavano a Orani, era una donna di straordinaria simpatia e intelligenza, e – mi viene da pensare – agì secondo il poetico e politico dettato dell'ultimo Fortini: «Composita solvantur: proteggete le nostre verità». Con i suoi racconti (di cui anch’io, da bambina, sono stata fortunata fruitrice) e la cura dei documenti lasciati da Marianna, Ignazia coltivò e trasmise le idee della sorella maggiore: innanzittutto il sardismo autonomista e antifascista, passione che allora unì i giovani più emancipati della resistenza sarda al regime. Le due sorelle rimasero orfane di madre quando Marianna aveva soltanto cinque anni; il padre si trasferì a Nuoro e poi a Porto Torres per lavoro, convolando a terze nozze, e le bambine vennero affidate a Grazietta Angioy, loro zia materna; vissero nella casa settecentesca che fu degli Angioy, tra la piazza di Santa Gruche e S’Arzada ’e su Monte, a Orani: casa ricca di leggende per essere stata ancor prima l’abitazione estiva del Vescovo di Ottana e quindi ricchissima di quelle memorie che le due sorelle rivivevano nei loro racconti davanti al latte fumante e ai biscotti decorati con la glassa e serviti con le stoviglie d’argento consumate dall’uso. Una dimora ancora bellissima, con le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la corte all’ingresso e il cortile interno, dove ancora oggi cresce rigoglioso il melograno. Una casa attraversata dalla Storia, destinata a diventare il luogo delle riunioni clandestine antifasciste, una sorta di circolo culturale animato da un poetico gruppo di ragazze e di ragazzi, tra cui mio nonno A., che non ho mai conosciuto perché è morto giovane, ma che ho amato, anche lui, attraverso mille racconti. Così scrive Marianna in un prezioso documento autobiografico: «Il nostro piccolo gruppo viveva in un’atmosfera di poesia e di amicizia che ci impediva di rimpiangere le distrazioni della vita. I nostri autori prediletti, le intime confidenze, i fervidi scambi d’idee, sostituivano la bellezza esterna che mancava alla nostra vita. Libri preziosi, autori amati tenevano nella nostra gioventù, il posto di palazzi e di teatri, di balli e di feste, di viaggi e di amori, e ci offrivano l’universo in un compendio che a malapena ci lasciava sospettare le sue crudeli delusioni e le sue miserie infinite. Ore deliziose, generose amicizie, prime porte aperte sull’ideale…». Un piccolo testo dove si legge anche un inno d’amore alla lettura, che riusciva ad assolvere, tra le altre, alla funzione di aprire una finestra sui sogni.
Così visse Marianna Bussalai, inventando una vita intensa per sé e i suoi amici, anche nella malattia di cui pativa sin da bambina. Visse coltivando in pieno regime fascista le sue idee, leggendo e studiando la storia, la filosofia (in particolare incuriosendosi alla teosofia, corrente di pensiero che ricerca quel che accomuna Dio in tutte le religioni, ritenendo che tutte le religioni derivino da un’unica verità). Scriveva sin da bambina, iniziando presto a pubblicare in alcune riviste dell’epoca e in paricolare ne Il Solco, l’organo informativo e culturale del neonato Partito Sardo d’Azione, alla cui costituzione e formazione Marianna dedicò tutte le sue energie con passione, convinzione ed entusiasmo. E continuò a scrivere nonostante la censura e le angherie della polizia fascista, e nonostante questo – come Anna Achmatova, la grande poetessa russa che pure attraversò vicissitudini storiche e personali drammatiche –, continuando a operare nella ricerca della bontà degli uomini, nella fiducia di un riscatto possibile per la sua terra, nella fede in un ideale di giustizia e libertà.
Contemporaneamente continuava a tradurre i poeti sardi con l’idea di poterli divulgare e farne arrivare il canto oltre il mare. In questo senso Marianna aveva una concezione moderna della traduzione, riconoscendone la sua funzione di mediazione culturale e di conferma del valore dei componimenti scritti nella lingua madre. Un’idea all'avanguardia per quell’epoca, in Sardegna, anticipatrice e quindi poco condivisa, se teniamo presente che, sino a non molto tempo fa, il sardo non era riconosciuto come lingua ma identificato esclusivamente come rozzo e naturale mezzo di espressione per le necessità quotidiane. Tuttavia – scrive Marianna in una lettera a Montanaru – «il rapsodo non lo rinnega ancora, e sa trarre da esso nobili accenti e mirabili armonie! E le donne sarde, quiete e ignorate poetesse dell’ombra, quando liberano nei muttos o nelle meste cantilene l’ingenuo e appassionato cuore, sanno addolcirlo e ingentilirlo a meraviglia!». Ecco, nella bellezza e nella verità dell'espressione – quiete e ignorate poetesse dell’ombra– Marianna dice della consapevolezza del suo e del loro eccezionale destino.
La vita di allora era durissima, a Orani come in tutti villaggi sardi, e per una donna era un’impresa ardua e un progetto considerato folle l'idea di poter rompere l’emarginazione dalla vita sociale e culturale imposta dai rigidi ruoli di genere. Ricordiamoci che in questa stessa epoca, a pochi chilometri dal suo borgo, a Nuoro, un’altra donna osava scrivere: si chiamava Grazia ed era considerata una strega e definita – neanche tanto alla spalle – "una puttana". Come finì e continuò la storia di Grazia Deledda lo sappiamo tutti. Strano, invece, col senno di poi, come le cronache della vita di Marianna siano arrivate sin qui con toni diversi; almeno a me così è capitato di ascoltarle – da Ignazia, dalle mie nonne, da mia madre, dalla mia tataia Caterina. I loro racconti mi hanno trasmesso l’idea che Marianna fosse una creatura speciale: troppi particolari (qui un po' lunghi da raccontare) e l'espressione dolce e mite di queste fonti orali, mi fanno credere che sia stata una ragazzina e poi una donna molto amata e da tutti stimata: dalle amiche e dagli amici, dalla gente di Orani, fatto salvo quel pugno di delatori del regime.
Ignazia è stata come un griot per tutte le persone care che l’andavano a trovare sino a quando era molto anziana e malata, e anche di lei resterà sempre il ricordo di una donna straordinariamente intelligente, coraggiosa, colta, modesta e, per me, soprattutto molto simpatica. L’ascoltavo incantata e divertita: non si stancava mai di raccontare davanti al grande tavolo della cucina antica, stracolmo di libri, di lettere, delle testimonianze degli amici e intellettuali sardi che continuavano a farle visita nella sua casa piena di memorie, anche per ritrovare un po’ di sé e di quel vento che li vide protagonisti di un pezzo importante della storia sarda contemporanea, allorquando si credeva ancora fervidamente nella Rinascita. E sin da quando ero bambina a Ignazia chiedevo di raccontarmi di quella volta che Marianna nascose Emilio Lussu nella botola sotterranea della loro grande casa, e delle continue irruzioni della polizia e di come durante a ogni "visita" Marianna si mettesse seduta con il telaio del ricamo in mano, in paziente attesa che la perquisizione finisse: «Non bi l'avìana accattau, izza me'… Non lo trovarono, bambina mia, ma in quei giorni Marianna rischiò davvero la galera e il confino!». Un rischio – raccontava la sorella, con uno sguardo mai pacificato davanti a quei ricordi – che Marianna correva ogni volta in cui spediva le lettere o riceveva i messaggi postali degli amici tenuti d'occhio dai gerarchi del paese. 
Solo per un pugno di settimane Marianna non poté assistere a un evento storico che fu il leit motiv delle battaglie sardiste e che l’avrebbe riempita di gioia: nel giugno del 1947 la Costituente approvò l’articolo 116 della Costituzione della Repubblica, che includeva la Sardegna tra le regioni a Statuto Speciale.
Morì a marzo di quell'anno, a 43 anni. Luna de marzu sentìa 
Si racconta che la sua bara leggera fu trasportata dalla casa alla chiesa al camposanto antico, dagli amici, che a turno la sollevavano con tenerezza composta, percorrendo i vicoli di Orani. E si racconta che arrivarono da Sassari, da Cagliari, da Nuoro e da ogni paese della Barbagia, dell’Ogliastra e del Campidano, a dare l’ultimo saluto alla nobile ragazza, amica degli umili, libera e ribelle.

Bastiana Madau, "L'antifascismo da madre in madre", in: Racconti di donne. Relazioni fra le generazioni, Centro di Documentazione e studi delle donne, Aipsa, Cagliari 2014, pp. 100-106.

17 aprile 2016

L'erba per i ritorni

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo


Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere


Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto


Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione


La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.


Franco Fortini, "La gioia avvenire", da Foglio di via, 1946-1967.

Eja

Su mare ch'est su mare
essit e torrat in tinu
e tue chi ses traghinu
non dias in sé torrare?


14 aprile 2016

Simone per Altritaliani

Anniversaire d’une importance exceptionnelle celui qui, à trente ans de sa disparition, rappelle l’inoubliable philosophe française, Simone de Beauvoir, l’une des voix les plus importantes et les plus significatives du mouvement intellectuel européen du XXe siècle, qui s’éteignit dans sa ville de Paris, le 14 avril 1986.

Née le 9 Janvier 1908, elle fit, après le lycée, des études de philosophie à la Sorbonne où elle connut le jeune Jean-Paul Sartre, futur chef de file de tout un monde de penseurs, écrivains, artistes, avec lesquels elle entretint un dialogue philosophique et politique, s’enrichissant d’une attention particulière aux événements politiques de ces années-là. Une confrontation constante qui amena peu à peu la jeune philosophe à investir la res publica de l’existentialisme français, où elle trouva une place bien à elle. [Continua qui]  Bastiana Madau, ll y a trente ans mourait à Paris la philosophe Simone de Beauvoir, traduction de l’italien par Emmanuelle Genevois, 14 aprile 2016.

11 aprile 2016

Santa Lucia

Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d'acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all'imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l'olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che dev'essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell'oleandro,
i lampi della magnolia.

Franco Fortini, Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984, p. 9.
Santa Lucia, oggi.

9 aprile 2016

Mussa Dagh

"Ci si sarebbe potuti creder trasportati non già nella derelitta provincia di Antakje, ma ad Aleppo o a Damasco, tanto erano inesauribili le due correnti opposte del bazar, che fluivano parallele su e giù. Turchi in abito europeo, con bastone da passeggio e colletto rigido, il fez in testa, commercianti e impiegati. Armeni, greci, siriaci, anch’essi riconoscibili dall’abbigliamento occidentale, ma con un copricapo differente. E in mezzo, continuamente, curdi e circassi nei loro costumi. [...] Contadini arabi dei dintorni. Anche alcuni beduini del sud, nel lungo mantello drappeggiato color del deserto, con intorno al capo il magnifico tarbùsch, dal quale pendevano sulle spalle i fiocchi di seta. Donne svelate, emancipate, con le gonne alla caviglia e le calze di seta. Di tanto in tanto nella corrente degli uomini avanzava tentoni un asino stracarico, il disperato proletario del mondo animale, con la testa bassa. Gabriele aveva l’impressione che fosse sempre lo stesso asino, che compariva ad intervalli con la sua testa ciondolante, e sempre lo stesso conducente cencioso, che lo teneva alla cavezza.
Ma tutti, tutto questo mondo, uomini, donne, turchi, arabi, armeni, curdi, e nella ressa i soldati abbronzati dal campo, ed asini e capre, tutti erano fusi in una indescrivibile unità dall’andatura uguale: un passo lungo, lento e ondeggiante, che tendeva senza posa ad una meta invisibile. [...]
Che cosa era dunque avvenuto, che cosa aveva trasformato completamente il mondo? [...]
A Yoghonolùk, nella grande casa, sotto il suo tetto, non sapeva nulla di tutto questo. E prima a Parigi? Là, malgrado tutto il benessere, egli aveva vissuto nella fredda condizione di uno straniero immigrato, che ha le sue radici altrove. Erano qui le sue radici? Solo allora, in quel miserabile bazar della sua terra, egli poté misurare appieno quanto fosse straniero nel mondo. Armeno! Antichissimo sangue, antichissimo popolo era in lui. Ma perché i suoi pensieri parlavano più spesso francese che armeno, come proprio in quel momento, ad esempio? Sangue e popolo! Siamo franchi! Non erano anche questi dei concetti vani? In ogni età gli uomini si cospargono l’amaro cibo della vita con la droga di idee diverse, che lo rendono ancora più disgustoso.”
Da I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933) di Franz Werfel, traduzione di Cristina Baseggio per Corbaccio. 
Manoscritti e manufatti - Monastero Meckitarista - San Lazzaro degli Armeni - Venezia