Vorrei
raccontare di Marianna, ma non so come iniziare, e allora ecco
anche per te Luna
de marzu,
una poesia che Montanaru sottotitolò con una semplice dedica: "A Marianna
Bussalai"
Luna de marzu sentìa
mi pares troppu istasera
Nues de onzi manera
t’attraversan su caminu,
currellende a s’affainu
sutta s’isprone ‘e su
entu.
E tue in su firmamentu
b’andas bella passizera.
T’oscuras de improvvisu
e pare’ morta sa terra.
Inchizzìda est ogni serra
nieddu donzi padente.
Ma tue sighis sa via
cun tundu visu serenu.
Intantu in donzi terrenu
de custa muntagna sola
cuminzat calchi viola
a si mustrare timinde;
ca sun sa dies beninde
de sa bella primavera.
Tue che nunziadora
t’avanzas luna nontesta,
a preparare sa festa
de totta s’umanidade.
Sa tua serenidade
ti faghet cumparrer trista.
Ma tue già cun sa vista
bies sa novella ispera.
Luna de marzu, sentia
mi pares troppu istasera
Questo è solo
uno stralcio della lunga poesia che Montanaru dedicò alla sua amata
amica, e mi sembra la cosa più giusta da fare – ecco la chiave –
iniziare a scrivere così di una donna che visse poeticamente
i suoi anni, e tanto più nobilmente perché riuscì a coltivare la
speranza in un contesto storico in cui sembrava regnare una profonda
disperazione. Era lei, in tal senso, un'organizzatrice.
Primogenita di
Antonietta Angioy e Salvatore Bussalai, Marianna venne alla luce a
Orani nel 1904. Qualche anno più tardi nacque Ignazia, la sorella
che sempre fu legata a Marianna anche dall'inossidabile complicità
ideale che segnò il loro operato di future antifasciste. "Signorina
Ignazia", come tutti la chiamavano a Orani, era una donna di
straordinaria simpatia e intelligenza, e – mi viene da pensare –
agì secondo il poetico e politico dettato dell'ultimo Fortini:
«Composita
solvantur:
proteggete le nostre verità». Con i suoi racconti (di cui anch’io,
da bambina, sono stata fortunata fruitrice) e la cura dei documenti
lasciati da Marianna, Ignazia coltivò e trasmise le idee della
sorella maggiore: innanzittutto il sardismo autonomista e
antifascista, passione che allora unì i giovani più emancipati
della resistenza sarda al regime. Le due sorelle rimasero orfane di
madre quando Marianna aveva soltanto cinque anni; il padre si
trasferì a Nuoro e poi a Porto Torres per lavoro, convolando a terze
nozze, e le bambine vennero affidate a Grazietta Angioy, loro zia
materna; vissero nella casa settecentesca che fu degli Angioy, tra la
piazza di Santa Gruche e S’Arzada ’e su Monte, a Orani: casa
ricca di leggende per essere stata ancor prima l’abitazione estiva
del Vescovo di Ottana e quindi ricchissima di quelle memorie che le
due sorelle rivivevano nei loro racconti davanti al latte fumante e
ai biscotti decorati con la glassa e serviti con le stoviglie
d’argento consumate dall’uso. Una dimora ancora bellissima, con
le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la
corte
all’ingresso e il cortile interno, dove ancora oggi cresce
rigoglioso il melograno. Una casa attraversata dalla Storia,
destinata a diventare il luogo delle riunioni clandestine
antifasciste, una sorta di circolo culturale animato da un poetico
gruppo di ragazze e di ragazzi, tra cui mio nonno A., che non ho mai
conosciuto perché è morto giovane, ma che ho amato, anche lui,
attraverso mille racconti. Così scrive Marianna in un prezioso
documento autobiografico: «Il nostro piccolo gruppo viveva in
un’atmosfera di poesia e di amicizia che ci impediva di rimpiangere
le distrazioni della vita. I nostri autori prediletti, le intime
confidenze, i fervidi scambi d’idee, sostituivano la bellezza
esterna che mancava alla nostra vita. Libri preziosi, autori amati
tenevano nella nostra gioventù, il posto di palazzi e di teatri, di
balli e di feste, di viaggi e di amori, e ci offrivano l’universo
in un compendio che a malapena ci lasciava sospettare le sue crudeli
delusioni e le sue miserie infinite. Ore deliziose, generose
amicizie, prime porte aperte sull’ideale…». Un piccolo testo
dove si legge anche un inno d’amore alla lettura, che riusciva ad
assolvere, tra le altre, alla funzione di aprire una finestra sui
sogni.
Così visse
Marianna Bussalai, inventando
una vita intensa per sé e i suoi amici, anche nella malattia di cui
pativa sin da bambina. Visse coltivando in pieno regime fascista le
sue idee, leggendo e studiando la storia, la filosofia (in
particolare incuriosendosi alla teosofia, corrente di pensiero che
ricerca quel che accomuna Dio in tutte le religioni, ritenendo che
tutte le religioni derivino da un’unica verità). Scriveva sin da
bambina, iniziando presto a pubblicare in alcune riviste
dell’epoca e in paricolare ne Il
Solco,
l’organo informativo e culturale del neonato Partito Sardo
d’Azione, alla cui costituzione e formazione Marianna dedicò tutte
le sue energie con passione, convinzione ed entusiasmo. E continuò a
scrivere nonostante la censura e le angherie della polizia fascista,
e nonostante questo – come Anna Achmatova, la grande poetessa russa
che pure attraversò vicissitudini storiche e personali drammatiche
–, continuando a operare nella ricerca della bontà degli uomini,
nella fiducia di un riscatto possibile per la sua terra, nella fede
in un ideale di giustizia e libertà.
Contemporaneamente
continuava a tradurre i poeti sardi con l’idea di poterli divulgare
e farne arrivare il canto oltre il mare. In questo senso Marianna
aveva una concezione moderna della traduzione, riconoscendone la sua
funzione di mediazione culturale e di conferma del valore dei
componimenti scritti nella lingua madre. Un’idea all'avanguardia
per quell’epoca, in Sardegna, anticipatrice e quindi poco
condivisa, se teniamo presente che, sino a non molto tempo fa, il
sardo non era riconosciuto come lingua ma identificato esclusivamente
come rozzo e naturale
mezzo di espressione per le necessità quotidiane. Tuttavia –
scrive Marianna in una lettera a Montanaru – «il rapsodo non lo
rinnega ancora, e sa trarre da esso nobili accenti e mirabili
armonie! E le donne sarde, quiete e ignorate poetesse dell’ombra,
quando liberano nei muttos
o nelle meste cantilene l’ingenuo e appassionato cuore, sanno
addolcirlo e ingentilirlo a meraviglia!». Ecco, nella bellezza e
nella verità dell'espressione – quiete
e ignorate poetesse dell’ombra– Marianna dice della consapevolezza del suo e del loro eccezionale
destino.
La vita di
allora era durissima, a Orani come in tutti villaggi sardi, e per una
donna era un’impresa ardua e un progetto considerato folle l'idea
di poter rompere l’emarginazione dalla vita sociale e culturale
imposta dai rigidi ruoli di genere. Ricordiamoci che in questa stessa
epoca, a pochi chilometri dal suo borgo, a Nuoro, un’altra donna
osava scrivere: si chiamava Grazia ed era considerata una strega e
definita – neanche tanto alla spalle – "una puttana".
Come finì e continuò la storia di Grazia Deledda lo sappiamo tutti.
Strano, invece, col senno di poi, come le cronache della vita di
Marianna siano arrivate sin qui con toni diversi; almeno a me così è
capitato di ascoltarle – da Ignazia, dalle mie nonne, da mia madre,
dalla mia tataia
Caterina. I loro racconti mi hanno trasmesso l’idea che Marianna
fosse una creatura speciale: troppi particolari (qui un po' lunghi da
raccontare) e l'espressione dolce e mite di queste fonti orali, mi
fanno credere che sia stata una ragazzina e poi una donna molto amata
e da tutti stimata: dalle amiche e dagli amici, dalla gente di Orani,
fatto salvo quel pugno di delatori del regime.
Ignazia è
stata come un griot per tutte le persone care che l’andavano a
trovare sino a quando era molto anziana e malata, e anche di lei
resterà sempre il ricordo di una donna straordinariamente
intelligente, coraggiosa, colta, modesta e, per me, soprattutto molto
simpatica. L’ascoltavo incantata e divertita: non si stancava mai
di raccontare davanti al grande tavolo della cucina antica, stracolmo
di libri, di lettere, delle testimonianze degli amici e intellettuali
sardi che continuavano a farle visita nella sua casa piena di
memorie, anche per ritrovare un po’ di sé e di quel vento che li
vide protagonisti di un pezzo importante della storia sarda
contemporanea, allorquando si credeva ancora fervidamente nella
Rinascita. E sin da quando ero bambina a Ignazia chiedevo di raccontarmi di
quella volta che Marianna nascose Emilio Lussu nella botola
sotterranea della loro grande casa, e delle continue irruzioni della
polizia e di come durante a ogni "visita" Marianna si
mettesse seduta con il telaio del ricamo in mano, in paziente attesa
che la perquisizione finisse: «Non
bi l'avìana accattau, izza me'… Non
lo trovarono, bambina mia, ma in quei giorni Marianna rischiò
davvero la galera e il confino!». Un rischio – raccontava la
sorella, con uno sguardo mai pacificato davanti a quei ricordi –
che Marianna correva ogni volta in cui spediva le lettere o riceveva
i messaggi postali degli amici tenuti d'occhio dai gerarchi del
paese.
Solo per un pugno di settimane
Marianna non poté assistere a un evento storico che fu il leit motiv
delle battaglie sardiste e che l’avrebbe riempita di gioia: nel
giugno del 1947 la Costituente approvò l’articolo 116 della
Costituzione della Repubblica, che includeva la Sardegna tra le
regioni a Statuto Speciale.
Morì a marzo di quell'anno, a 43
anni. Luna de
marzu sentìa…
Si racconta che la sua bara
leggera fu trasportata dalla casa alla chiesa al camposanto antico,
dagli amici, che a turno la sollevavano con tenerezza composta,
percorrendo i vicoli di Orani. E si racconta che arrivarono da
Sassari, da Cagliari, da Nuoro e da ogni paese della Barbagia,
dell’Ogliastra e del Campidano, a dare l’ultimo saluto alla
nobile ragazza, amica degli umili, libera e ribelle.
Bastiana Madau, "L'antifascismo da madre in madre", in: Racconti di donne. Relazioni fra le generazioni, Centro di Documentazione e studi delle donne, Aipsa, Cagliari 2014, pp. 100-106.
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