9 aprile 2016

Mussa Dagh

"Ci si sarebbe potuti creder trasportati non già nella derelitta provincia di Antakje, ma ad Aleppo o a Damasco, tanto erano inesauribili le due correnti opposte del bazar, che fluivano parallele su e giù. Turchi in abito europeo, con bastone da passeggio e colletto rigido, il fez in testa, commercianti e impiegati. Armeni, greci, siriaci, anch’essi riconoscibili dall’abbigliamento occidentale, ma con un copricapo differente. E in mezzo, continuamente, curdi e circassi nei loro costumi. [...] Contadini arabi dei dintorni. Anche alcuni beduini del sud, nel lungo mantello drappeggiato color del deserto, con intorno al capo il magnifico tarbùsch, dal quale pendevano sulle spalle i fiocchi di seta. Donne svelate, emancipate, con le gonne alla caviglia e le calze di seta. Di tanto in tanto nella corrente degli uomini avanzava tentoni un asino stracarico, il disperato proletario del mondo animale, con la testa bassa. Gabriele aveva l’impressione che fosse sempre lo stesso asino, che compariva ad intervalli con la sua testa ciondolante, e sempre lo stesso conducente cencioso, che lo teneva alla cavezza.
Ma tutti, tutto questo mondo, uomini, donne, turchi, arabi, armeni, curdi, e nella ressa i soldati abbronzati dal campo, ed asini e capre, tutti erano fusi in una indescrivibile unità dall’andatura uguale: un passo lungo, lento e ondeggiante, che tendeva senza posa ad una meta invisibile. [...]
Che cosa era dunque avvenuto, che cosa aveva trasformato completamente il mondo? [...]
A Yoghonolùk, nella grande casa, sotto il suo tetto, non sapeva nulla di tutto questo. E prima a Parigi? Là, malgrado tutto il benessere, egli aveva vissuto nella fredda condizione di uno straniero immigrato, che ha le sue radici altrove. Erano qui le sue radici? Solo allora, in quel miserabile bazar della sua terra, egli poté misurare appieno quanto fosse straniero nel mondo. Armeno! Antichissimo sangue, antichissimo popolo era in lui. Ma perché i suoi pensieri parlavano più spesso francese che armeno, come proprio in quel momento, ad esempio? Sangue e popolo! Siamo franchi! Non erano anche questi dei concetti vani? In ogni età gli uomini si cospargono l’amaro cibo della vita con la droga di idee diverse, che lo rendono ancora più disgustoso.”
Da I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933) di Franz Werfel, traduzione di Cristina Baseggio per Corbaccio. 
Manoscritti e manufatti - Monastero Meckitarista - San Lazzaro degli Armeni - Venezia

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