31 ottobre 2010

Dopo Nada, un piccolo blues

"La prossima volta scrivi un noir", dissi qualche anno fa a uno scrittore di talento che tuttavia lamentava il proprio insuccesso, "scrivi un noir che racconti di una bella signora con i tacchi a spillo di vernice rossa,  che la trovano fatta a fettine come la mortadella in un parcheggio sotterraneo a pagina 1, e a pagina 7 fai fuori una vecchina sordo-muta, femmina mi raccomando, che le donne assassinate le recensiscono più dei maschi bombardati."
Be', sì, scherzavo. Ma sino a un certo punto. Perché la verità è che – se ora sembrano essersi data una calmata all'epoca (parlo di quattro, cinque anni fa), il modaiolo noir italiano andava per la maggiore. Tanto che nella manchette di qualsiasi altro genere di romanzo un romanzo non di genere, appunto potevi semplicemente scrivere "non è un noir", e tanto bastava a distinguerlo. Questo per dire che se non mi entusiasma il concetto è per il semplice motivo che la maggior parte dei romanzi che mi sono capitati tra le mani, nel lungo periodo del librificio noir, erano proprio brutti, costruiti con un'operazione di genere, e in quanto tali palesemente non necessari. Libri di mestiere. Ma i libri, sia chiaro, o sono belli o sono brutti, o sono stupidi o sono intelligenti. Inutile cucinarli su uno schema "semplice", solo perché lo si pensa come tale e tanto è richiesto dal mercato editoriale (che  in Italia ha lavorato alacremente per "semplificare" il gusto dei lettori, bisogna dirlo).
Ma com'è che dopo cotanto disamore per la letteratura di genere mi sono infatuata di Jean-Patrick Manchette? Non scrive noir, Manchette? Il fatto è che davvero, come è stato scritto, "Manchette sta al noir come Eschilo alla fantascienza"...

29 ottobre 2010

S'animedda di A. e la risposta di Tziu Nino

I bambini e le bambine di Orani, da che mondo è mondo, chiamano la ricorrenza del secondo giorno di novembre S'animedda, "piccola anima", e l'aspettano con trepidazione, svuotando le zucche e incidendole con un coltellino sino a trasformarle in magnifiche e spaventose lucerne. Usciranno per le strade all'imbrunire del Giorno dei Morti, a piccoli gruppi, ma negli antichi vicoli del paese si incrociano anche dei piccoli camminatori solitari. Busseranno a ogni porta per chiedere su mortu mortu, in suffragio delle anime dei defunti incarnate nelle zucche illuminate: sas animeddas. In tutte le case già si prepara alacremente su mortu mortu da offrire, fatto di cose semplici e buone, che piacciono alle anime golose dei morti, nell'immaginario fantastico e inossidabile, e di cui in realtà sono golosi i vivaci bambini e bambine oranesi: papassinos, bistoccos pintaos o lijos; nuche, nuzzòla e méndhula, càrica e dinareddhu. Così tra qualche giorno scorazzeranno contenti nelle vie, con uno sforzo di compostezza perché è pur sempre il Giorno dei Morti, intanto che gli zaini adidas, nike ed hello kitty si riempiono sino a scoppiare. 
Nella mia lontana infanzia su mortu mortu si raccoglieva in sas cunas, invece, le federe bianche che le mamme disponevano come sacche da darci per l'atteso rituale, che sopravvive immutato in tutta la Barbagia.
Offerenti generose e anche generosi, dicevo; sennonché, oggi, un fraterno amico d'infanzia mi ha ricordato del burbero e tenero Tziu Nino, il suonatore di organetto che nelle feste di piazza – vuoi a Carnevale, vuoi a Santu Tanielle – con il suo dillu faceva ballare anche i morti. Tziu Nino in paese era un personaggio, e come tale era soggetto ai bonari scherzi da parte dei discoli, che di tanto in tanto lo importunavano tocchedhande senza motivo a casa sua, ossia smuovendo il pesante battente del portale. Così fece A., appunto, ma con motivo: in un pomeriggio del Giorno dei Morti di tanti anni fa bussò da Tziu Nino pro li pedire su mortu mortu e... cosa lo dico a fare?... la riposta che gli arrivò da dentro casa mi ha fatto ribaltare.

‎– TOC! TOC!

Chi èèèèhh?

S'animedda!

S'animedda chi bo' nd'alet!!!

No no, Tziu Ni', es' sa 'e veru!

– …

E fu così che Tziu Nino si distinse tra gli offerenti, non aprendo neppure all'innocente animedda di A.

Costantino Nivola, Su mortu mortu (1952)

Anche il suo cane si chiamava Rimbaud


C’è qualcosa che mette a disagio, a partire dalla sua morte, un risvolto mitico che la morte dello scrittore sta in qualche modo imponendo. E davvero mi è difficile distinguerlo, separarlo. Io, per lo meno, ho questa necessità di separare la mia propria esperienza di lettura da quell'impronta mitica che si inizia a incubare con il solo fatto della morte giovane.
(Martín Kohan
Nel 2008, nell’ambito del Festival Internacional de Literatura de Buenos Aires (Filba), Martín Kohan, Juan José Becerra e Gonzalo Garcés, nella tavola rotonda coordinata da Edmundo Paz Soldán e intitolata "Después de Bolaño", hanno finemente  analizzato il futuro dell'opera di Roberto Bolaño.
Si tratta della seconda tavola rotonda dedicata allo scrittore e la trovate integralmente tradotta qui.
Consiglio la lettura anche della prima, intitolata “El escritor insufrible” che trovate tradotta e pubblicata nel sito di Nazione Indiana. 
La traduzione della terza e ultima tavola rotonda sta per uscire. 

28 ottobre 2010

27 ottobre 2010

Cose che contano

Very good party, squaw. Da nord a cuore di isola viaggio ridanciano per tenere aperti occhi belli di grande capo in grande notte. A. con noi con amore sempre. Grazie.

Cohone 'e frores 
Su cohone 'e frores è un pane cerimoniale estremamente elaborato, preparato dalle donne a Fonni in occasione di un momento particolare del ciclo dell'anno (la festa di San Giovanni Battista), modellato fino a ottenere numerosi pani a forma di uccelletti e gallinelle innestati sulle asticelle lignee o di canna e disposti in diversi cerchi concentrici fissati a un supporto, anch'esso di pane. Gli elementi zoomorfi costitutivi del pane – benedetto durante la messa in onore del Santo – venivano distribuiti ai fedeli, che li conservavano come preziose reliquie. 
[Omaggio alla festeggiata, grande donna, originaria dell'antico borgo.] 

25 ottobre 2010

E se alzando gli occhi vedi ancora il mare

... salutalo, anche per me.


L'autostrada è viva stanotte
Ma nessuno sta ingannando nessuno su dove sta andando
Me ne sto seduto di fronte alla luce del fuoco
cercando il fantasma di Tom Joad.

19 ottobre 2010

Pastores semus tottus


Solidarietà con i pastori caricati dalla polizia mentre manifestavano davanti al Consiglio Regionale a Cagliari.

Paesaggi patetici

Quei lunghi tavoli con le etichette dei nomi, le bottiglie dell'acqua, metri lineari di giacca e cravatta sorridenti, i fiori e nemmeno l'ombra di una donna.

17 ottobre 2010

Un palmo di terra

Tetre prime pagine dei quotidiani anche oggi, senza una sola notizia che dia qualche vera allegria, qualche speranza. L'orizzonte è sempre più basso e non b'at unu parmu 'e terra sana, come dicono gli anziani di casa: non c'è un palmo di terra buona.

12 ottobre 2010

Bocù d fruà


Coraggio, finisco di lavorare e preparo il dolce che Paola chiama "Barumini". Ho tutti gli ingredienti: 3 ricottine Arborea, una stecca di cioccolato fondente,  il miele di castagno, le bucce d'arancia cand... No, le bucce d'arancia candite non le ho, però mi sono rimasti tre panetti di aranzada che vanno bene uguale, anzi meglio, ché hanno anche qualche mandorla. 


Li sbriciolerò sopra le ricottine, dopo averle cosparse con il cioccolato gratuggiato e il miele sciolto sulla fiamma. 
Il sol pensier mi scalda.

10 ottobre 2010

Su "Donne Sarde"

Maria Lai,  Legarsi alla montagna, Ulassai, 1981
Donne Sarde (Cuec, 2005) è un libro-reportage di Giacomo Mameli che racchiude 43 articoli pubblicati nella Nuova Sardegna tra la primavera del 2004 e l'autunno del 2005 nella rubrica "Persone e paesi" e in "Cultura". Comprende storie di piccoli imprenditori e di tecnici che viaggiano e lavorano per il mondo, che creano aziende dov'è possibile farle sorgere; di giornalisti non sardi che ricordano e descrivono l’isola dei primi anni dell’industrializzazione; di donne di tutte le età e di ogni parte dell'isola che raccontano e testimoniano un forte desiderio di cambiamento.
Confesso subito che parlerò della mia lettura del volume in modo incondizionato ma anche condizionato, perché le mie parole vogliono anche essere l'omaggio a un osservatore guidato da fine e colta sensibilità verso l’universo femminile sardo in costante trasformazione, e in questo senso posso dire che gli vogliamo un gran bene, e lui lo sa… e infatti puntualmente se ne approfitta e ci chiama all’appello a presentare diversi libri, non solo i suoi (Giacomo Mameli è da sempre anche un formidabile promotore della lettura). I suoi, almeno per me, non sono facili da analizzare, non possedendo io gli strumenti per dibatterne negli aspetti socio-economici su cui principalmente si basano. E dunque li leggo come fossero testi di narrativa a forte vocazione realistica, o come inchieste a forte vocazione narrativa, conscia di quanto anche i veri romanzi, spesso aiutino a comprendere la realtà a volte più di tanti saggi.
Naturalmente questo è possibile grazie al fatto che la scrittura di Mameli è piacevole, piana e chiara. Si percepisce in essa l’impegno dello scavo, il gusto della ricerca sociale e il valore della testimonianza, l’intelligenza dei problemi messi in campo, l’amore per la terra e la sua gente. L’obiettività nel raccontare la realtà della nostra isola credo invece che si esplichi nel far venire a galla molte domande, più che risposte.
Il libro Donne Sarde, come anche i primi di Mameli (mi riferisco in particolare a La squadra e a Sedici ore al giorno) è soprattutto uno sguardo sul mondo del lavoro, vero dramma dell'isola e non solo.
Per raccontarcelo nei suoi diversi aspetti il giornalista raccoglie storie locali. Il suo metodo mi ricorda l’indicazione di Barbara Czarniawska, docente di Economia e Diritto all’Universita’ di Göteborg, che nel saggio intitolato Narrare l’organizzazione riferisce il suo provocatorio approccio agli studi sull’organizzazione basato su teorie narrative più vicine agli studi antropologici e culturali e prossimo ai modelli positivistici delle scienze sociali: la stusiosa – sulle orme di Wittgenstein – sostiene infatti che non possono bastare procedure informatiche, descrizioni e organigrammi per comprendere i processi sociali, economici e culturali, che non sono dunque sufficienti strumenti ‘freddi’, bref; ci sono atteggiamenti, comportamenti, valori, sofferenze, recriminazioni che vengono alla luce solo attraverso narrazioni, o meglio ancora attraverso reti di storie. Storie intrecciate, dai confini sfumati, fitte di rimandi. Storie non sempre facili da scoprire e da comprendere. Perciò – dato che si tratta di leggere e interpretare narrazioni – anche un giornalista che deve dar conto nelle sue cronache della realtà, deve avere competenze vicine e quelle del critico letterario o del semiologo proprio per individuare come "rappresentative" quelle che meritano di essere raccolte e decodificate.
In questo caso, appunto perché "sintomatiche" di dove va lo sviluppo in Sardegna, vi sono esempi – chiamiamoli così – interessanti anche per lasciare aperte questioni su come potenziarli, aiutarli, governarli.
Così salta subito agli occhi di chi legge che in Donne Sarde non si racconta nella fretta dell'articolo di cronaca, ma nella lentezza e nella riflessione dell'inchiesta.
L’aver insistito più volte – e in un arco di tempo abbastanza lungo – sui luoghi, sulle vicissitudini dei paesi, consente a Mameli di ascoltare i singoli individui e le comunità che animano il territorio cogliendo i fermenti che vi ribollono, mostrandoci una sezione della realtà tagliata attraverso il tempo, nell’istante presente. In generale di quel che avverrà riusciamo realisticamente a percepire qualche annuncio: ci sono i segni di un mutamento che non smette di compiersi.
Da questo libro, contemporaneamente alla sua lettura, si esce fuori per guardarsi intorno, riflettere anche sulla società che non è contemplata, solo intravedendola tra le righe, perché comunque necessariamente vi si affaccia, pur avendo fatto l’autore una precisa scelta di campo: documentare soprattutto là dove ci sono segnali di cambiamento positivo, di sviluppo sociale, culturale, economico. (Virgoletto 'sviluppo' perché la ritengo sempre una parola un po' ambigua, ma non qui.)
Un vecchio blues racconta di come, in alcuni stati del Sud, i neri d'America avevano l'obbligo di camminare nel lato assolato della strada, dov’era più infuocata la calura, ma dove era possibile 'dialogare col sole'. I bianchi si riservavano il lato ombroso, senza sapere quante mancate emozioni costasse loro la comodità della frescura. Ecco, Mameli osserva i risvolti più inquietanti del mondo del lavoro con lo sguardo di chi comunque ha deciso di camminare dalla parte assolata della strada. Allora forse il problema è anche  l’assenza di questo approccio?… Oggi si va dai  messaggi più disperanti a quelli più superficiali sulla felicità, incentrata sul consumismo materiale e immateriale, su atmosfere edonistiche, oppure felicità come ottimismo sulla pelle degli altri, e in questo senso questi anni per la Sardegna e l’Italia tutta sono durissimi. Forse è bene essere maggiormente consapevoli che gli atteggiamenti (e dunque l’educazione, la formazione culturale) incide concretamente sulla risoluzione o meno dei problemi?… Gianfranco Bottazzi nell'introduzione al primo libro di Giacomo Mameli edito dalla CUEC nel 1999, La squadra, scrive: «Se a un giovane disoccupato tutti indistintamente ripetono quanto sia difficile trovare un'occupazione, è molto probabile che il suo comportamento divenga rassegnato o rinunciatario (se di lavoro non ce n'è è inutile cercarlo) ... in questo modo facilitando la realizzazione della previsione che vuole che non ci sia, per il giovane, una occupazione». Allora spetta a noi educatori, genitori, insegnanti, fare uno sforzo in tal senso?… Il poeta Antonio Mura scriveva  che tottu, inoke, nos pode' galu nòkere, e tottu galu podet esser fattu, si kreska kada cosa assa misura 'ess' òmine (tutto qui può ancora nuocerci, e tutto ancora può essere fatto, se ogni cosa ancora deve crescere a misura d’uomo).
Un’altra caratteristica 'mameliana' è la compassione, intesa come viva partecipazione alle vicende di cui si narra, negli aspetti problematici, quando non drammatici (sono molto intense le cronache sui disastri ambientali passati e recenti che hanno toccato diversi centri dell’Ogliastra), ma anche nei risvolti più divertenti e costruttivi. Atteggiamento umanissimo che, lungi dall’essere un limite, è in tempi di spregiudicato cinismo, un merito.
Mino Monicelli nel suo noto saggio-inchiesta che tratta degli  aspetti etici della professione (Il giornalista, Vallecchi, 1964), scrive:
«Il buon giornalista dev’essere anzitutto un buon cittadino del mondo di cui è parte ... Il fine della professione non è diverso dal fine che l’uomo stabilisce per se stesso, nell’àmbito della propria e altrui vita».
In questo senso credo che Donne sarde sia da collegarsi alla tradizione più nobile del giornalismo italiano d’inchiesta, ancora oggi riconosciuta dallo stesso Mameli come scuola di riferimento, di cui, peraltro, lui è anche maestro. Questo è dimostrato anche in alcuni articoli qui raccolti e dedicati a Giuseppe Fiori, uno dei grandi intellettuali del novecento sardo –  di cui Mameli qui scrive in occasione dell’inaugurazione di una piazza a lui dedicata a Perdasdefogu – o in un altro dedicato a Giuseppe Lisi, giornalista RAI sbarcato in Sardegna nell’estate del 1968, che in una intervista fattagli da Mameli e riportata nell’articolo “Un cronista di Ollolai”, racconta:
 … Non si andava all’avventura ma occorreva conoscere la realtà della quale ci saremmo dovuti occupare. Dell’Isola io non sapevo quasi nulla e mi metto a studiare, leggo Gramsci, Bellieni e Lussu, i romanzi della Deledda, Giovanni Lilliu, ma soprattutto incontro per alcuni mesi un gruppo di sardi autorevoli: lunghe discussioni con Giuseppe Fiori, leggo Sardegna fra due lingue di Michelangelo Pira ... Faccio un primo sopralluogo, resto nell’isola quindici giorni in incognito, guardavo e basta, osservavo i comportamenti. Rientro a Roma, racconto e propongo e il direttore Fagiani mi dice: parti…
Con lo stesso spirito lavorarono cogliendo tutta intera l’anima più profonda dell’isola altri giornalisti citati nel suo libro. In particolare voglio ricordare – perché a me il libro Donne Sarde, come tutti i buoni libri mi ha fatto venire anche la voglia di andare a rileggerle... – le testimonianze lasciateci da Franco Cagnetta (vedi Banditi  a Orgosolo), da Franco Nasi, inviato de Il Giorno negli anni ’50  (i suoi reportages sardi sono raccolti nel bellissimo libro di Iniziative Culturali intitolato L’isola senza mare), da Gigi Ghirotti, i cui articoli apparsi sul quotidiano La Stampa tra il 1952 e il 1967 sono raccolti in un altro bel libro intitolato Ricognizione della solitudine: si tratta di documenti preziosi per comprendere i cambiamenti che l’isola ha dovuto attraversare nell’arco di pochi decenni, per cogliere il suo non indolore passaggio alla modernità e comprendere davvero cosa di buono c’era che non siamo stati capaci di portare dentro l’arca e che ancora, forse, possiamo recuperare.
Ma nei reportage di Mameli, rispetto al lavoro dei colleghi che hanno visto lo sconcerto dell’isola che muoveva i primi passi verso l’industrializzazione, c’è, secondo me, un valore che è dato dal suo personale senso di appartenenza al cambiamento culturale di un popolo che non ha mai abbandonato di seguire passo per passo.
Così se da un lato tra le righe delle sue cronache leggiamo una forte critica a quei processi di trasformazione rivelatisi, nella loro scarsa lungimiranza, come non 'vincenti', dall’altro vi è comunque la presa d’atto di quanto abbiano alleviato la sofferenza sociale. Mi riferisco in particolare proprio all’industrializzazione, e dunque a ciò che di essa si può leggere tra le righe delle cronache raccolte nella parte intitolata Industria, natura e dintorni.
Rimarca Mameli, quanto di negativo in termini di danni ambientali e di produzioni sradicate dai contesti socio-economici-culturali dobbiamo all’industria sorta anche nel centro-Sardegna, ma – e in particolare proprio riferendosi a Ottana – mi sembra che fra le righe esalti l’importanza di un passaggio che fu estremamente innovativo perché l'industrializzazione, dall’individualismo tipico delle società pastorali, portò alla dimensione collettiva del lavoro anche nelle terre del'interno, innescando processi di confronto, di solidarietà e di crescita delle coscienze. Elementi fondamentali per lo sviluppo.
Esemplare, secondo me, una recente cronaca di Mameli a proposito del mancato accordo tra pastori e industriali sul prezzo del latte, dove scrive:  ... Messe in archivio le maratone fra sindacati produttori e Regione, il latte ha ritrovato la sua ancora di salvataggio lungo l’antica strada de “Su connottu” . Dicono i pastori: io ti porto il latte e tu quanto mi dai? 50, 55, 60? Trattiamo ed eccoti il latte. E se paghi subito affare fatto ... Ma nelle campagne sale il livello di scontento e di rabbia ... perché i pastori – senza i quali non ci sarebbero né pecore, né latte, né formaggi, né agnelli, né capretti – si sentono impotenti. E alla fine i più deboli restano loro che sono una delle ossature certe dell’economia sarda. Sono loro che evitano lo spopolamento delle campagne, che le vigilano. Ma sono isolati, un ovile qua, un altro là, e pagano il prezzo del loro individualismo nuragico …
In questo caso, ci fa capire il giornalista, intervistando tutte le parti in causa, il problema è l’organizzazione dell’offerta (i pastori non possono esser più soli e divisi fra loro), la promozione della qualità del latte, la dimensione delle imprese che non possono essere al di sotto di certi standard: è urgente realizzare che la concertazione fra produttori fa abbassare i costi, tenere standard medio-alti, presentarsi con maggior forza sul mercato, ecc.
Ecco, a me sembra si evinca anche dalle storie raccolte in Donne Sarde, che  l’organizzazione di forme collettive del lavoro offre in sé una griglia per l'interpretazione del cambiamento, e la sua assenza, al contrario, un segnale di sterile immobilismo. In questo senso Mameli sembra dare una valutazione positiva all’esperienza dell’industrializzazione nel Centro Sardegna.
Osservatore storico del territorio, descrive con dovizia di particolari anche i paesaggi, non tralasciando alcun nome di pianta o sfumatura di colore del cielo, ma soprattutto descrive paesi ricchi di storia e di vita. Come esempio leggo un brevissimo passo descrittivo di una piccola struttura culturale di un paese, perché attraverso di essa Mameli ci fa cogliere le sue trasformazioni, dandoci un ritratto di comunità.
Siamo a Santulussurgiu. L’occasione è data dalla presentazione del libro fotografico sul Montiferru a cavallo tra gli anni cinquanta e settanta di un sacerdote salesiano, Don Giuseppe Gotthard:
 ... Il “dopolavoro” è a metà del costone sotto Sa Rocca, fra i rioni di Santu Anne e Funtanedda. E’ un edificio rettangolare di recente restauro, tre gradinate a semicerchio per accedervi, archi con pietre a vista, soffitto di tavole e travi noce scuro, un ballattoio con ringhiera in ferro dove un tempo c’era la cabina per proiettare i film. Costruito alla fine dei seicento, usato prima come carcere per i cowboy ladri di cavalli del Montiferru, un secolo dopo sede del Monte Granatico, sotto il fascismo utilizzato come luogo di propaganda per il regime.
Ieri pomeriggio c’era una bella squadra di anziani, distribuiti in tre tavoli, tutti intenti a giocare a tressette ... Un summit di tutta l’anagrafe doc di Santulssurgiu, con ultrasettantenni che di nome fanno Micheli Mura, Nenaldu Ruju, Michelino Ardu, Mario Selis ... D’incanto il “dopolavoro” dei tressettisti diventa auditorium per conferenza. Succede come per le piazze dei paesi che all’improvviso, nei giorni delle gare poetiche dialettali, diventano anfiteatro sotto le stelle. Idem ieri, sabato culturale di un villaggio rurale. In un battibaleno via i mazzi di carte ed ecco i microfoni, i tavoli dei cartieri vengono allineati e diventano palchetto da presidenza, La sale si riempie, voci e sorrisi di fanciulli, l’aria è di festa...
Mameli è un giornalista che segue da sempre il lavoro culturale territoriale e ogni novità e questione legata al mondo della scuola (in questo libro ve ne sono diverse, in particolare riguardanti alcune scuole nuoresi), convinto di quanto lo sviluppo culturale incida direttamente su quello economico, perché creando aperture e confronto incide sugli atteggiamenti. E’ convinto che questi ultimi, gli atteggiamenti, influiscano in modo determinante sulla costruzione dei destini individuali e della collettività, perché agendo sul presente orientano il futuro. Per questo motivo credo abbia concentrato nella terza e ultima parte del libro una serie di piccoli reportage intitolandoli "Le protagoniste", da cui emerge un’idea di tradizione rappresentata dall’elaborazione che non tradisce la qualità delle sue essenze, recuperata e rielaborata, nei vari ambiti culturali e produttivi, in chiave moderna e spendibile nel mondo. E' la parte del libro più bella: quella dedicata al lavoro delle donne.
Maria Lai,  Legarsi alla montagna, Ulassai, 1981
Non è un caso che la maestra che Mameli indica come esempio luminoso è Maria Lai, l’artista sarda famosa nel mondo, che unisce le case di Ulassai con un nastro azzurro e le lega alla montagna, che costruisce libri di stoffa e parole di filo, che trasforma le sue parole in cose e che puntualmente ci incanta costruendo situazioni di buona comunicazione e di circolazione di idee ovunque è chiamata a intervenire. O che ci racconti della cagliaritana Michela Grimaldi, che anche lei 'legherebbe' con un nastro gli ovili, stavolta, per farne percorsi culturali e naturalistici per turisti intelligenti (non tutti lo sono!).
Forse per questo motivo l’autore ha voluto chiudere il suo libro raccontandoci dello straordinario atteggiamento della ventunenne Pina Paola Monni di fronte agli assassini del suo ragazzo, esaltando giustamente la portata della sua scelta di giustizia e di libertà vere, che sembrava impensabile in un paese come Orune. Mi piace la memoria per la storia locale (nella nobile accezione insegnataci dagli Annales), e in tal senso mi ha commosso il suo ricordo di Pina Càmpana, animatrice della compagnia teatrale “Antonio Pigliaru”, che negli anni Settanta portò in scena il no corale alla vendetta e alla faida con lo spettacolo In nome del padre, e che "amava il suo paese più di se stessa"…
C’è molto rispetto e grande empatia sociale in questo libro, e un forte invito a resistere nell’impegno.
Maria Lai,  Legarsi alla montagna, Ulassai, 1981
Grazie a Giacomo. E grazie per l'omaggio che l'autore ha voluto accordare in Donne Sarde anche alla sottoscritta e al suo lavoro. 

5 ottobre 2010

Fa' le carte e ridimmelo

Nel giro di un pugno di giorni ho visto La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo (che non mi è piaciuto), Inception di Christopher Nolan e Somewhere di Sofia Coppola. Già, l'estate finisce quando si torna al cinema, e il cinema è una delle poche cose dell'inverno che mi garba. Ma questi primi film della stagione, insomma… Tra tutti, quello che più mi ha convinto è il mattonazzo della Coppola (fantastica la giovanissima Elle Fanning che interpreta Cleo, la figlia del protagonista).  Su Inception mi sono già espressa un poco qui.
In realtà non ho voglia di scriverne, a parte che a quest'ora s'è già detto tutto.
Quel che resta di ciascuno di questi film – destinati, per quanto che mi riguarda,  all'oblio – è l'idea dei bambini che verbalizzano poco la domanda d'affetto per non mostrare la propria infelicità, leit motiv di ciascuno di essi in  modo diversamente "visibile" e centrale (in Inception, per poter tollerare "il sogno", non se ne mostrano neppure i volti, se non appena, di corsa e con capelli rigorosamente biondi e sottili al vento). Ovunque adulti troppo occupati con se stessi, con i loro amori, rancori e paranoie.
Disintossichiamoci così, ma soprattutto perché altrimenti non saprei come chiudere questo inutile post.
 

3 ottobre 2010

Much ado about nothing

Con le noise a palla ieri notte alle tre, tornando da O. Vado indietro di un pugno d'ore, racconto. Catapultati a Dorgali nel primissimo pomeriggio a salutare Marco e Angela di rirorno dal Vietnam. Storie, risate, stupore, un caffè e un mirto e via, senza neppure vedere il mare, che rimpiangerò per tutta la settimana, lo so, lo so. Arriviamo a O. al tramonto. Ciao mamma. Mi regala quattro campanelle che hanno 100 anni, eredità di babbo. Poi via, per le strade e Cortes apertas. Incontriamo subito Rita & C. Una birretta veloce e poi giù per le cortes. Un bicchiere di vino all'esposizione dei vetri di A.N. nell'ex mulino dei Merlini. E ancora a volare per vicoli. Tengo il conto: un mirto, una zeroventi, una ridotta di cannoau. L'appuntamento con gli altri è alla cena organizzata dalla Polisportiva. Ci portano antipasti vari, ricotta secca, pane vrattau, pecora in umido, purpuzza, vino, a fiumi. Mangio poco, bevo, chiacchero. P. arriva con i due figli: la primogenita si chiama Mara, 17 anni, fantastica. Parliamo (lei, soprattutto, io ascolto) di cinema. Ipercritica, curiosa, mi fa stare bene, brucia ogni stereotipo sui "ragazzi d'oggi" (se ne dicono di cazzate, se ne dicono...). Si avvicina a salutarci un gruppetto legato alla fondazione Nivola. Ci raccontano entusiasti del vecchio Bavagnoli che il pomeriggio al museo ha inchiodato la gente  raccontando della sua prima visita a Orani, per il reportage sulla mostra à plein air del 1958, tematizzando sul paese di allora, sulla N.Y. di allora: su allora, insomma... "Perché non c'eri?", mi domandano. Non so cosa rispondere. Non c'è niente da perdere, è tutto da perdere. S'avvicina gente della Pro Loco, ci invitano a tornare per il convegno sul biscotto pintau, la domenica mattina. Un convegno sul bisc…?! Ci ribaltiamo dalle panche per le risate. Il sindaco, (un sosia di George Clooney, pazzesco!) ride anche lui, non convintissimo. Lo lasciamo alle sue giuste perplessità e andiamo a sentire i locali AC/DC, gli Stramonium, che hanno appena iniziato a suonare nel grande cortile del del mattatoio, recuperato e diventato uno spazio espositivo di arti convergenti. Ma io ho Le noise che ancora mi ronza nelle orecchie. Via. Andiamo a casa di Rita. Le ciottole dei gatti sono sempre sotto il melograno e gli ultimi nati, Lisadagliocchiblu e Miele, circolano tra il tavolo e il camino e "la fucilazione dell'anarchico Schirru" è appeso sopra la madia, "mannai Mele è sempre nella teca del camino panciuto. Alle due meravigliose brocche di terraccotta ho deciso di dare un nome: Cocomero e Comesono. Alle due e mezza trovo la poesia di Zichittu in mezzo a un vecchio libro della mia amica. Ma che bella! La copio in un foglietto, e decido di metterla nel blog, ora. Siamo stanchi, contenti. Andiamo. Prego che Rita si rimetta in sesto, le voglio un bene enorme. 
Ah, poi l'intervista a Carlo Bavagnoli l'ho trovata alla radio .

A Peppe da Parigi

A Peppe Mureddu dae Parigi

Peppe si cheres leppias sas penas
Ven a Parigi e sedi in su metrò
Sa barchitta su chervu o sas cadenas
In sa piazza a fronte a su bistrò.

Muscas, cantos, intendes sirenas
Trumbas, trumbittas, pirilipò;
E sas buzzacas tinde ghiras cenas
De mersì, si vu plè, alò alò.

Jumpa Peppeddu a s'ala soliana
E lassa in Mighelesi a chie es tontu
Cocchend'urru e boccande cothichina.

Ammitinde chi innoche patar gana
V'at pro su lussu de non ndaches contu
S'atteru no es gana parigina.

.............

A Peppe Mureddu da Parigi

Peppe se vuoi lievi le pene
Vieni a Parigi e siedi nel metrò
La barchetta il cervo o le catene
Nella piazza di fronte al bistrò.

Mosche, canti, senti le sirene
Trombe, trombette, pirilipò;
E le tasche riporti a casa piene
Di mersì, si vu plè, alò alò.

Salta Peppeddu nel lato assolato
E lascia a Mighelesi chi è tonto
Cuocendo al forno ed estraendo radici d'albero.

Ammettendo che qui patisci la fame
Hai il lusso di non farne conto
L'altra non è fame parigina.


Giuseppe Zichi (Zichittu), nato a Orani nel 1913, pastore, contadino, emigrato in Francia, ritorna da muratore nel paese natale dove vive sino alla veneranda età di 98 anni dedicandosi al suo orto.

2 ottobre 2010

Le noise

C'è il sole (quel sole...), ma non riesco a trovare la canzone che vorrei... Vado al mare, forse lì mi arriva. Ciao, bella.

1 ottobre 2010

Nuove povertà

Lavorare a un carteggio inedito tra una delle più grandi menti italiane dell'Ottocento e tre negletti e misconosciuti signori del pensiero e della politica, mi ha fatto languire. Che spessore analitico! Che umanità! Che autenticità! E il loro modo di salutarsi, poi, così segnato dal reciproco riconoscimento, da stima e affetto, pur non essendosi mai incontrati di persona. 
A sicut erat. E anche a prescindere, come direbbe Totò.
Vero, la tristezza ha il suo peso, e teniamocela stretta: diventa sempre più difficile non farsela bruciare dalla maleducazione imperante (insublimabile, altro che la morte), dal disgusto che assale nel leggere la sfilza quotidiana di mezze frasi tanto grammaticalmente corrette quanto insensate, di volta in volta sputacchiate in "vista" di un accadimento o di un altro (fatto di parole, che raramente sono parole-cose), speculari a una delle peggiori declinazioni di una tristezza desolante, irrisolta, rancorosa, che poco sembra avere a che fare con la coscienza civile, essendo il disastroso scenario politico e sociale italiano soltanto lo sfondo di un narcisismo feroce.