27 settembre 2016

Madre d'inverno

Se vedete in un giardino le viole
divise in due per colore, tutte
le gialle di qua, e tutte le viola
di là, e se vedete una gialla una sola
finita per sbaglio di là, e se in tasca
avete per caso qualcosa
ripiantate nella sua giusta
aiuola quella spaesatissima viola,
si sta un po’ anzi tanto a disagio
di là.

25 settembre 2016

Un ricordo dell'Avvocato Gallo

Conoscevo abbastanza bene l'anziano editore di Juvence, Alessandro Gallo, avendo collaborato con lui in diverse occasioni: per la fiera "Oltre mare" di Napoli, per la sempre grande Torino (vedremo cosa accadrà, adesso...), per le "Conversazioni del Mediterraneo" nelle città della Val di Noto, in Sicilia, per "Più libri, più liberi" a Roma, per presentazioni e rassegne in Sardegna. Ci siamo confrontati nel tempo su tanti aspetti culturali ed editoriali: aveva un grande esperienza e lavorava dando fiducia e strumenti. Fu uno dei miei punti di riferimento gli anni in cui io mi sono intensamente occupata della realizzazione e della cura di una bellissima collana di narrativa che ha ospitato anche autori e autrici del composito mondo arabo. Era un uomo d'"altri tempi", un vero uomo di cultura, e ci davamo del lei. Fui felice il giorno che lui, non certo facile ai complimenti, mi disse: "Lei è molto abile". "Abile" non me lo aveva mai detto nessuno e, dunque, lì per lì non riuscii ad afferrare bene la valenza che dava Gallo alla parola, ma archiviai con tranquillità e gratitudine sentendo di avere la sua non scontata stima, la sua fiducia.
L'Avvocato Gallo, così lo chiamavo, oltre a essere un editore puro (in Juvence, che ha un catalogo di alto livello scientifico, ha veramente investito un patrimonio) è morto qualche tempo fa. Oltre al dispiacere personale, per averlo conosciuto da vicino, anche ospite della sua bella casa romana, ho temuto per il suo progetto editoriale, perduta la guida, consapevole di come non sia facile, soprattutto in Italia, resistere sul fronte delle letterature arabe contemporanee. La "mia" collana, intanto, praticamente non esiste più: è ferma, inattiva, essendo stata, per così dire, buttata alle ortiche, ossia progettata in una situazione in cui erano e sono carenti gli strumenti che possono derivare soltanto dall'autentica consapevolezza del valore del progetto. Il valore che, appunto, ha sempre dato Gallo al suo e che anche io davo al "mio": il nostro grande punto in comune, e forse, chissà, la mia "abilità". Veniamo al dunque.
Oggi apprendo con gioia, invece, che, morto l'Avvocato Gallo, i miei timori su Juvence erano infondati: la piccola casa editrice ha resistito, ce l'ha fatta. Pertanto, ricordando l'amico editore, volentieri faccio pubblicità a quest'ultima sua pubblicazione. Lunga vita a Juvence.

Trachite rossa

Orani, Santa Gruche. Porta d'ingresso nel cortile della casa dove nacque e visse Marianna Bussalai. Una dimora settecentesca, ancora bellissima, che fu degli Angioj, con le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la corte all’ingresso e il cortile interno, dove ancora cresce rigoglioso il melograno.

22 settembre 2016

Zanna Bianca

Nun ce sta nient a fa', dicono a Napoli: anche dietro la faccia(ta) della persone perbene può nascondersi il o la delinquente. Così, stamattina, mi torna in mente la scritta sulle mura aureliane, lato San Lorenzo, a Roma, ai tempi di quand'ero ragazza: "Sguinzajamo l'istinto!". Era firmata, tutt'attaccato, "forzaromaforzalupi". Giusto che la abbiano cancellata, e restituite le mura al loro antico splendore, ma l'avremmo dovuta tenere marchiata nella mente e nel cuore.

20 settembre 2016

Ricamatrici

Le opere di Alighiero Boetti, a distanza di anni, non smettono di stupirmi e ogni volta che ne scorro le immagini nei cataloghi scopro qualcosa di nuovo. Il grande artista italiano continua ad affascinarmi, insomma, e oggi ho pensato che se nelle didascalie delle sue opere avessi trovato anche i nomi delle artigiane che di volta in volta le hanno realizzate, forse gli avrei voluto ancora più bene.

Nelle foto provenienti da diversi siti internet (Artribune, Li vuoi quei kiwi, Culture Monster) alcune delle straordinarie ricamatrici afgane delle mappe e degli arazzi.

18 settembre 2016

Possiamo raccontare la storia

«Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo, doveva assolvere un compito difficile, andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione, andò nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non sappiamo più dire le preghiere, ma conosciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse e Rabbi Israel di Rischin dovette anch'egli misurarsi con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E, ancora una volta, questo bastò.» 
Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. it. di G. Russo, Einaudi, Torino 1993, p. 353.

La citazione, in realtà, è la quarta acqua del bollito: l'ho trovata nelle prime pagine di un bellissimo saggio di Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto (Nottetempo, 2014), in cui il filosofo invita a leggere il conciso e perfetto racconto chassidico come un'allegoria della letteratura. Ma come ogni narrazione mistica che si rispetti, a me sembra che possa toccare anche altri registri, infatti lo conservo qui, perché sicuramente mi tornerà in mente per altri mumble.
Letizia Battaglia - Pasolini

Wo hin?

Tra le diverse opere di Paul Klee che amo, ce n'è una, forse considerata minore, che scoprii un po' di tempo fa in un'esposizione dedicata a Jean Arp e la galassia dadaista. Mi sono fermata a lungo a guardarla, sino a quando ho creduto di capire il perché un'opera così apparentemente innocente, un piccolo olio incollato su cartone, abbia potuto dare fastidio a Goebbles, che nel 1937 la volle esporre alla mostra "Arte degenerata".
La semplicità della rappresentazione astratta degli alberi riporta a un'essenzialità lontana dai miti del totalitarismo. Tutto è semplice, come il quadro è piccolo, ma oltre i recinti degli alberi è morte e guerra.
Erano un concentrato di libertà, questi artisti, pericolosissimi in un stato dove il culto dell'efficienza si otteneva con il massimo possibile del controllo. Qui il genio ribelle di Klee lo racconta senza un urlo, disegnando spazi chiusi, senza sbocchi, che dipinge di colori tenui; un piccolo spazio su cui elevano alberi rigidi come soldati. A lato, fuori, una domanda: "Dove stiamo andando?".
Sì, forse è proprio la domanda la cosa che più ha infastidito Goebbles. Il punto interrogativo rappresenta una falla nel muro di certezza nazista.

17 settembre 2016

Lorenzo, tra satira e cinesica


Immaginate di essere nel clou del "bombardamento" estivo di una delle campagne mediatiche per la prevenzione degli incendi boschivi dell'isola: se ne sono susseguite diverse, negli anni, come, ad esempio, quella denominata "Accendi la tua coscienza"; in generale tali campagne sono basate su sofisticati messaggi di condanna delle sottoculture, tuttora considerate a monte della piaga irrisolta. Ecco, immaginate che, in tutto questo, all'improvviso faccia capolino nei giornali e nelle televisioni la vignetta di un leccio semi carbonizzato e piegato dal maestrale, dolente ma furioso, che maledice in sardo il piromane in fuga: "Sos luminos in c..." (I fiammiferi in c...). Bene, il geniale disegno politically incorrect passò veramente durante una di quelle temperie: l'estate del 1994 L'Unione Sarda pubblicò l'originale disegno satirico, destando un certo scalpore. L'autore era un architetto, Lorenzo Vacca, che allora aveva 38 anni, oggi ne ha quasi 60. Nato a Ovodda, lasciò il paese per motivi di studio, liceo artistico a Cagliari e università a Roma, dove conseguì la laurea; poi mise su casa e studio a Grotte di Castro, nell'Alto Lazio, dove tutt'ora vive, con un intervallo di lavoro quadriennale in Bolivia e un altro, più breve, in Maghreb, ai confini tra Algeria e Tunisia. 
Nel frattempo, il tema privilegiato di Lorenzo continuò a essere la Sardegna, e il leit motiv dei suoi disegni la donnina (Sa tzia) e l'omino (Su massaiu) di Ovodda. La figura femminile è principalmente presentata nell'essenziale scambio verbale all'incrocio con qualcuno nelle stradine del paese, nel reciproco modo di salutarsi, ripetitivo come in un rituale che voglia dirsi tale. Nei disegni le donne si susseguono frettolose, indaffarate, rappresentate con il mucadore (fazzoletto dell'abito tradizionale femminile le cui bende sono legate sotto il mento), la cui punta Lorenzo arriccia in un guizzo, a dare movimento all'attività di cura o ai frenetici lavori domestici legati a un'economia di sussistenza. Il mucadore di volta in volta è abbandonato, morbido, oppure vivacissimo, espressivo: parlante. 

Esilaranti le vignette con la sequela cantilenata di domande che non attendono risposta, da cui si evince l'attimo appena di attenzione per l'altra, o meglio, per l'attività dell'altra  "Assoliande...? (Sotto il sole?); Arresonande...? (Ragionando...?); A cresia...? ([Andando] in chiesa?); Mundande...? (Spazzando?), ecc. , volendo ironizzare, Lorenzo, sull'aspetto quasi compulsivo del saluto, calcando la mano su una cinesica minimale, ma vibrante. C'è persino un disegno con un surreale "Morinde...?” (Morendo...?). Tuttavia le rappresentazioni appaiono come derivate dalla profonda e limpida tenerezza dell'autore verso quel mondo, che poi è quello della gente semplice che abitava sino a poco tempo fa negli antichi paesi dell'interno.
Pinuccio Sciola, Ottavio Olita, Nanni Pes, Enrico Piras, Franco Putzolu, tutti componenti della Giuria alla prima edizione del Premio olzaese della grafica e fotografia satirica “Carmelo Floris” assegnarono a Lorenzo Vacca, già nel 1982, il primo premio (secondo ex equo a Gef Sanna e Giuseppe Fadda, all'epoca entrambi vignettisti ufficiali della Nuova Sardegna) perché l'artista«mostra con l'opera complessiva un contributo assolutamente originale, proponendo considerazioni antiche sulla realtà sarda, della quale dimostra una conoscenza profonda, e proprio in merito di questa conoscenza è stato in grado di proporre interpretazioni critiche e autocritiche del modo di essere dei sardi […], capacità di guardarsi intorno, di criticarsi e proporsi ironicamente». Dopodiché, dell'estroso e colto disegnatore si sono ufficialmente perse le tracce, pur non avendo smesso la frequentazione di Ovodda e della Sardegna anche dalla sua professione di architetto, che mai, comunque, ha smesso di disegnare e dipingere.
Lo abbiamo ritrovato quest'ultima estate a Lodine, con una mostra antologica di disegni voluta dal Comune e dalla locale Consulta Giovanile, allestita nella panoramica piazza San Giorgio. Osservando i suoi lavori abbiamo visto quanto anche l'esperienza umana vi sia stata trasferita, a livello grafico come anche pittorico. Qualche settimana dopo abbiamo incontrato Lorenzo nel suo paese natale, dove nella splendida corte di un'antica dimora parentale inaugurava la seconda esposizione estiva. Alto, elegante, la lunga barba quasi bianca e ben curata sul viso sorridente, aperto; occhi neri e vivaci, i modi pacati e la voce calma; l'aurea inconfondibile del ragazzo saggio, insomma, e solo appena invecchiato. Così, tra un bicchiere di moscatello di Atzara e due risate meditabonde davanti ai disegni esposti nella grande corte, è nata questa intervista, voluta da chi scrive con l'idea di mettere in luce un artista tanto interessante quanto estremamente riservato, e forse è proprio questa sua qualità umana che, sin qui, ha consentito la conoscenza della sua opera solo a una ristretta cerchia di estimatori.
Lorenzo, quando e perché hai lasciato la Sardegna, poi l'Italia, e perché hai scelto un paese dell'America latina?
Nel 1977, per studiare. Dopo la laurea in architettura sono partito con mia moglie Laura in America Latina, entrambi impiegati come volontari in un progetto di cooperazione. Destinazione: Bolivia, dove Laura lavorò con le donne Aymara (etnia prevalente della zona andina), e io lavorai in una ONG su progetti integrati in zone rurali, e nel tempo libero appuntavo il mio viaggio, soprattutto con il disegno.
In cosa consisteva esattamente la tua attività lavorativa in Bolivia?
Le mie funzioni erano quelle di logistica e seguivo il recupero di abitazioni in terra cruda, materiale di costruzione che ho scoperto prima lì che in Campidano. [E sorride.]
Questa esperienza ha condizionato il tuo modo di disegnare?
Mi ha influenzato molto sul colore. All'epoca il personaggio femminile, icona dei miei racconti illustrati, la tziedda ovoddese, vestiva i costumi e i colori della Bolivia. La parte grafica è rimasta quasi uguale, ma sul colore la mia ricerca si è approfondita, anche con lo studio degli aguayos, i tappeti tessuti dalla donne boliviane. 
Cosa raccontavi all'epoca? In particolare ho realizzato per una casa editrice, la Hisbol (Historia de Bolivia), delle cartoline illustrate un po' satiriche proprio sulla realtà della cooperazione. Lavorando sul campo coglievamo tante contraddizioni. Paradossalmente i progetti che funzionavano meglio erano quelli realizzati con pochi soldi, ma che vedevano tanta partecipazione delle comunità. Noi eravamo a La Paz, dove aveva sede la nostra ONG, ma io viaggiavo presso diverse comunità rurali, sia dell'Altipiano sia nelle valli tropicali.

Il ritorno alla Sardegna nell'arte?
Mai andato via, in quel senso, anche se la gran parte delle opere più importanti le ho fatte fuori di qui, indubbiamente legate alla nostalgia. Un discorso che con il distacco riesci a elaborare anche in forma più profonda, cedendo meno al folklore.
Quando hai iniziato con la satira?
L'ho scoperta tra la fine del liceo e l'inizio dell'università, nel periodo d'oro delle riviste satiriche italiane [Il Male, Cuore, Ranxeros, Mucchio Selvaggio, Linus, ecc. N.d.B.M.]. Non sono mai stato un appassionato di fumetti, ma in quel periodo chi come me amava il disegno non poteva non essere attratto dal Male o da Cuore, per stare a due esempi della satira dell'epoca. Ma la mia curiosità più grande è e resta legata alla satira di costume: alla cinesica, all'animazione degli oggetti della cultura pastorale, tipo i gioghi dei buoi (juvales), che sono diventati icona dei personaggi maschili nei miei ultimi lavori.
Tuttavia, la grande parte dei tuoi disegni, anche ma non solo per quanto concerne la satira di costume, sono al femminile: esiste un motivo?
Il mondo femminile forse è la Sardegna. Questa ricerca (donne del pane, donne che giocano con i bambini, ecc.) è derivata soprattutto da avvenimenti autobiografici, legati alla mia infanzia a Ovodda. Sin da bambino ho percepito molta più comunicazione diretta nel mondo femminile. I sottintesi, i silenzi, i modismi erano propri del mondo maschile.
Come continua la tua ricerca?
Attualmente sono concentrato nello studio dell'architettura vuota, come hai visto, determinato dal fenomeno che ormai tutti chiamiamo “spopolamento”. Ci sono architetture che resistono e intorno alle quali non vediamo più delle attività, nel senso reale delle abitazioni, ma anche in senso estetico. Nel vuoto individuo l'architettura, anche questa in via d'estinzione. In Sardegna si fanno i murales perché non c'è più architettura. Ecco, i miei ultimi lavori sono frutto di una ricerca del vuoto applicata all'architettura. A me piace il lavoro "a fil di ferro", pertanto mi concentro molto sul bianco, e poi sul nero, sul pieno e sul vuoto, per essere molto incisivo nel mettere in luce la forma.
Nelle due mostre estive, a Lodine e a Ovodda, hai riscontrato curiosità? Sì, ho sentito molto interesse per le mie opere e anche attrazione per il disegno leggero, ironico, e anche i più giovani mi hanno fatto domande attente, puntuali. Ad esempio sono rimasti incuriositi dal rametto che hanno in bocca sos juvales, le figure maschili, e restavano stupiti quando gli raccontavo che era la cosa più naturale del mondo, un tempo, andare in campagna e mettere tra i denti un filo di fieno, un ago di pino, e dunque io ho voluto vederci anche qualche foglia di ghianda, per esagerare un po'. [E ride]. B.M.

14 settembre 2016

Generazioni, steccati, stecche

Di tanto in tanto, per tenere su un discorso, qualsiasi discorso, ritorna la proposizione del crinale tra generazioni. Eppure oggi lo steccato non mette in luce granché. Nemmeno nel lato presunto più illuminato in cui si auto colloca di volta in volta ora l'una ora l'altra supremazia generazionale. Paradossalmente, infatti, lo steccato sottolinea che proprio in quel punto ci si sia fatta sfuggire una bella fetta di mondo o anche, al peggio, che ci si stia assolvendo da qualsiasi responsabilità per come gira il presente. 
Il famoso presente.
Di solito, non a caso, lo spartiacque è proposto per esaltare la generazione precedente, che – toh! – coincide sempre con la propria. Fa nulla se magari combacia con quella che si è fatta mangiare la pastasciutta in testa o, potendo, molto ha preso per sé, ignorando quello che accadeva intorno.
Le stecche, ossia le note stridule suonate nel concerto "Ah, la mia generazione!".
Il plurale non è soltanto pro forma. Nella sostanza, in quella serie di "io sto qua; tu stai là" non c'è traccia di chi, con un brivido, si affaccia alla vita ora (prima stecca). Così come, in quello stesso piccolo orizzonte, scompare anche chi oggi ha vent'anni, venticinque, trenta, e magari parla e scrive benissimo quattro lingue, ha studiato in Europa, fa parte di quella che lo stesso presidente della BCE ha definito come "la generazione più istruita di sempre" (seconda stecca). Ma al banchetto è arrivata quando non c'era più da prendere nemmeno una mela marcia. Peccato (terza stecca, la più grave).
"Ah!"
Il non sense degli steccati continua comme si rien était arrivé. Permane l'omissione di quell'unico che oggi dovrebbe davvero contare, naturalmente perché ci si adoperi ad abbatterlo: non tanto lo spartiacque tra chi sta "sopra" e chi sta "sotto" – ché l'"ascensione sociale" è parolaccia davvero d'altri tempi –, quanto tra chi sta "fuori" e chi sta dentro", sottomesso quanto estromesso. «Non è emarginazione e neanche più sfruttamento – ha scritto di recente Barbara Spinelli, nel suo blog –, ma è brutale espulsione. Siamo di fronte alle vecchie classi impoverite, a una classe media declassata e in preda allo spavento, a nuove classi che addirittura vengono private di un nome, e tutte ci dicono, come il Commendatore nel Don Giovanni: "Ah, tempo più non v’è" 
A posto così. A ciò mi sento solo di aggiungere, appunto, che non è più nemmeno il tempo di "Ah, la mia...!", eccetera.
Foto di Vittorio Greco

7 settembre 2016

Un canto per Aldianoa

Aldianoa. Un nome la cui sonorità è lieve e forte a un tempo. E ha un colore: bianco; arvu, arvéschia, alba, un'alba sul mare... O forse è Ardia quel suono? Ardimento? È coraggio? Oppure è Algìa, algos, dolore, tristezza? Il nostos, allora, ossia il ritorno al paese natale – ché questo è il plot di Se ascolti il vento di Franco Mannoni – provoca di per sé nostalgia? Nostalgia di cosa, se il ritorno si verifica? È una nostalgia nuova? La nostalgia di un futuro che non si è mai avuto, ad Aldianoa? «Se non dovessi tornare,/ sappiate che/ non sono mai partito – scrive Giorgio Caproni –. Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua dove non fui mai».
Aldianoa, che ha quel suffisso, noa, che evoca una promessa, come di promesse ha sapore il vento che arriva dal mare... Non lo so, ma so che intorno all'onomastica fantastica si possono organizzare tante suggestioni, ragioni e sentimenti che premono e rendono necessaria l'invenzione di una parola nuova. Così, nel romanzo di Franco Mannoni, il nome prende il posto di quello del paese natale dell'autore, Santa Teresa di Gallura, luogo che nel libro viene presentato innanzitutto nel suo profondo legame con il mare e i venti, nominati a uno a uno, dandogli anche una psicologia e dedicando ai loro nomi belli alcuni dei capitoli più significativi del libro: “Maestrale”, “Tramontana”, “Libeccio”, “Grecale”. 
Il primo dei 28 brevi capitoli del romanzo, “Arrivo”, dice del ritorno al punto da cui il protagonista, Attilio Serra, è partito; l'ultimo, intitolato “Partenza”, in verità è una ripartenza: d'altronde non è già Eliot a indicarci che «ritorna solo colui che non è mai partito»? Il libro racconta il ritorno di un uomo al suo paese d'origine e il ritorno si tramuta in un'autentica ricerca che esplora il noto e il consueto con occhi nuovi. Ed è sorprendente, come stavolta insegna Proust, la quantità e la qualità di nuova memoria che può scaturire dalla riflessione condotta attorno a cose che a suo tempo sono passate inosservate. Quindi la ricerca riguarda soprattutto (anche se non espressamente) il proprio sguardo sul presente, il sé, il punto a cui si è giunti e perché. E ciò avviene attraverso il confronto costante dei ricordi del passato con quel che di essi resta nel presente del punto da cui si è partiti: il paese natale. È ancora Eliot, in Quattro quartetti, che scrive mirabilmente l'effetto di questo genere di ricerca rappresentato dai ritorni: «Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta». 
Il protagonista del romanzo di Mannoni attiva la conoscenza del proprio presente misurandola con la memoria, che talvolta è lieve – come nel caso dei ricordi portati dalle canestre, i dolci galluresi che ancora resistono nello stesso profumo, riportando a certe atmosfere dell'infanzia, come sa fare un vento buono ; altre volte è inquieta, come un maestrale d'inverno; altre ancora è dolorosa, come una tramontana che spazza il mare mettendo a rischio la vita dei pescatori di Aldianoa. Ciononostante, da parte di Serra, è una memoria voluta, cercata: un esercizio utile a comprendere cos'è diventato il luogo da dove si è partiti. E ciò accade tramite una riflessione condotta per tutto il libro, che coerentemente rinvia dalla propria personale intimità alle considerazioni che riguardano un'intera collettività. Così accade al personaggio protagonista del romanzo, dirigente scolastico alle soglie del pensionamento, reduce da un problema di salute, che si concede un lungo intervallo per esplorare geografie a lui note. I ritorni ad Aldianoa si sono succeduti negli anni, soprattutto in estate, ma questa lunga pausa non è una vacanza, ancor meno lo è da se stesso, nascendo, anzi, dal «desiderio» di una maggiore «prossimità» con le cose, i paesaggi, la gente che si vuole riconoscere, riavere come comunità di appartenenza; dal bisogno umanissimo «di risentire voci, parole, di riappropriarsi di scorci di luce, di avvertire ancora familiari rumori e odori, di verificare quanto l'immaginario possa essere ritrovato e rivissuto e quanto invece si sia smarrito, disperso».
Insomma, è un ritorno progettuale, ed effettivamente per Attilio Serra diventa l'occasione per riallacciare i fili avviluppati della sua famiglia; rievocare storie semplici e struggenti, drammatiche e sentimentali, tutte significative e tuttavia, sin qui, dimenticate; diventa l'occasione per riscoprire la lingua gallurese, realizzata come elemento di commossa partecipazione affettiva alla memoria della figura materna; ricostruire la storia con la esse maiuscola, che a tutti appartiene e che tutti ha toccato, anche nel microcosmo di Aldianoa: le due guerre, il fascismo, la ripresa (notevole il capitolo intitolato “Boom”, che arrivando già da pagine critiche, suona curiosamente ironico), il segno della cosiddetta Rinascita sarda, la crisi, lo sradicamento a cui segue un enorme spaesamento. E sì che già ci aveva messo sull'avviso Cesare Pavese, in La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Così, all'incanto del tempo intimo, personale, «ritrovato», per dirla ancora con Proust, fa da contraltare il disincanto nella constatazione che nulla è come prima. Il cemento ha cancellato persino il canneto dell'infanzia, che ascoltava il vento e lo registrava nei suoi movimenti, e il paese di vento e di mare è stato piegato dal degrado delle cose e, sostanzialmente, dell'intera piccola comunità. Tristissimo e feroce è il racconto delle disavventure dell'ortolano dandy Vensà e del suo inquieto compare Mimì, cacciati a malo modo dal Marylin Bar per la loro esuberanza: strafatti di Cuba Libre, scocciatori di Ella Bolkan, alias Stella, ragazza cubo, «metafore di un microcosmo che si era girato da un'altra parte, buttando via quanto di bello e poetico c'era stato ad Aldianoa, solo per uniformarsi alla volgarità imperante in tutto il resto del globo». 
Ma ciò che maggiormente rende efficace l'opera letteraria di Mannoni, secondo me, è che in essa si annuncia e si tiene fede al patto stabilito con il lettore sin dalle prime pagine: l'autore non abdica mai al timore che con circospezione avverte nella trappola nostalgica, in cui ben sa quanto sia facile cadere andando a vivere per un lungo periodo accanto ai «fantasmi» di giovinezza. Quei fantasmi sono vivi: «Viviamo con e fra i fantasmi./ Fantasma è l'immagine, l'evocazione, il richiamo di chi non c'è più./ Fantasma è ciò che non si è più perché ci si è evoluti, diventati nuovi e diversi da quel che non si è più ma si è cristallizzato nella memoria./ […] Viviamo fra persone e fantasmi, dove le persone prendono vita attraverso l'attività del pensiero./ Ma anche le persone sono fantasmi». Ecco, nonostante il livello introspettivo e la profondità dell'attraversamento di ciò che Serra nomina come «fantasmi», e nonostante essi vengano evocati e convocati progettualmente dal «cercatore di memorie», nel romanzo non sussiste la banale nostalgia, il sentimentalismo, l'eccesso di debolezza spirituale. Chiaro, si tratta anche di una ricerca sentimentale, ma in senso nobile, spiritualmente forte, e ciò traspare dalla scrittura di Mannoni, di cui Serra è evidentemente alter ego, la quale – e spero che la mia considerazione non sembri un paradosso – è sempre estremamente razionale. L'autoanalisi è al limite della spietatezza, la scrittura è vigilata, direi anzi governata da un certo pudore estetico, che arriva a chi legge non già come freno all'immaginazione, bensì come un valore di altri tempi. Non è facile scrivere così, cioè riuscire ad esprimere esattamente quel che s'intende, toccando corde anche intime, ma conservando alta la consapevolezza che le trappole del sentimentalismo possono tendere agguati micidiali all'autenticità. 
Dunque cosa fa Serra ad Aldianoa? Cosa cerca? Cosa scopre? Soprattutto cosa rivela di nuovo a chi legge, compresi coloro che pensano di conoscere il luogo, e magari, anche, lo abitano?
Vagabonda per le stradine del borgo; si ferma ad ascoltare gli uomini e le donne, le loro storie o anche solo un episodio che ne caratterizza le personalità; sosta nelle stanze della sua casa natale, catalogando gli oggetti come ricordi di umanità, che donano a ogni «fantasma» carne e spessore; ripercorre la storia della sua stirpe, in zona realtà come in zona mito. Ma, soprattutto, Serra attraversa la storia di Aldianoa adottando il punto di vista del gabbiano, cioè conservando uno sguardo esterno, non frontale, obliquo come quello dei piloti di volo durante un atterraggio, lontano dalla stucchevole sequela di elementi che segnano “i bei tempi andati”, ossia non contrapponendo il presente a un passato in cui (Mannoni lo sa e racconta anche di questo) la gente di Aldianoa, alias Santa Teresa di Gallura, viveva faticosamente di un'economia di sussistenza. Attraverso lo sguardo del gabbiano (nel libro c'è davvero il paesaggio costiero gallurese osservato da un immaginifico gabbiano), il cercatore di memorie evita quell'autoreferenzialità che spesso troviamo nelle opere dei nostri contemporanei, e che un po' ci disturba. Con sobrietà riesce a trasmettere in chi legge il proprio amore per le geografie fisiche e umane ripercorse, suscitando la tenerezza che è la sua stessa tenerezza, stuzzicando il pensiero critico; fa percepire il senso di perdita e la nostalgia per un futuro che non si è osato disegnare come differente, in quei luoghi, così evocativi anche di altri luoghi. La rende dolente, quella tenerezza, allorché il punto di vista del gabbiano, sin lì concentrato sull'eterno splendore dei paesaggi di una natura arcaica sopravvissuta ai secoli, si sposta in quelli urbani, nelle strade e negli edifici dei centri abitati, facendo arrivare violentemente un presente che, in fondo, ha tradito per modo di dire il futuro, ché del futuro sembra si sia diventati consapevoli soltanto una volta che se ne è afferrata la sua sottrazione. Lancinante è l'umanità – raccontata con pietas – che mai ha avuto il coraggio di immaginare veramente. Inflessibile è la cronaca dello scacco esistenziale di una società – quella gallurese e sarda – che ha commerciato e sostituito il proprio decoro con un pacchiano abusivismo, condizionata nelle architetture e nei comportamenti dall'avere seguito le orme nazionali, intese come il peggio che arrivava dal Belpaese. E buonanotte alla comunità, alla bellezza, all'etica, al senso di tutto.  

In conclusione, Attilio Serra non è un uomo baciato da ottimismo, ma sa che senza la speranza non si può vivere: non ce la farebbe lui, non ce la faremmo noi. Il personaggio costruito da Mannoni, nonostante tutto, riesce a conservarla, e nei suoi «appunti» (diversi capitoli si chiamano così) scrive spesso dei bambini. Mi è difficile restituirla senza banalizzarla, la speranza di Serra, così provo a dirne con le parole di una canzone:
«Separazione,/ gli Uccelli in partenza ci chiamano,/ ma noi rimaniamo qui/ sposati con la paura di volare./ Via terra/ i venti del cambiamento consumano la terra,/ mentre noi rimaniamo nelle ombre delle estati passate./ Quando tutte le foglie/ sono cadute e trasformate in polvere,/ noi rimarremo incatenati alle nostre vie./ Indifferenza,/ la piaga che si muove in questa terra./ Oscuri segni nel disegno delle cose che verranno./ Il domani del bambino è l'unico bambino». 
Bastiana Madau per Se ascolti il vento di Franco Mannoni, Arkadia, Cagliari 2016, 132 pp.
Foiso Fois, Il canneto (particolare). Dall'immagine di copertina del libro di Franco Mannoni Se ascolti il vento.

6 settembre 2016

Un uomo invisibile

Parigi, febbraio 1974. Fausto Rapetti gira un documentario su Italo Calvino, che vive nella capitale francese da 7 anni.
Come mai non ha mai scritto su Parigi?
Forse per scrivere di Parigi, dovrei staccarmene essere lontano. Se è vero che si scrive partendo da un'assenza. Oppure dovrei esserci dentro fino in fondo. Dovrei esserci stato fin dalla giovinezza se è vero che sono gli scenari della nostra "prima" vita quelli che danno forma al nostro mondo immaginario, […] Forse bisogna che un luogo diventi un paesaggio interiore in modo che l'immaginazione prenda a vivere quel luogo a farne il proprio teatro.

4 settembre 2016

Il progetto della felicità

Recensione di Maria Paola Masala al saggio Bastiana Madau Simone, le Castor. la costruzione di una morale (Cuec, Cagliari 2016).

Desiderare aspramente la felicità, e su questo desiderio fondare una morale. Lo ha fatto Simone De Beauvoir, declinando a suo modo un tema assai caro alla tradizione letteraria francese, le bonheur, e riuscendo a costruire intorno ad esso un progetto di vita, dove il cambiamento, la messa in discussione del presente, l’accettazione di un avvenire aperto sono la strada per afferrare il mondo.
A disegnare un ritratto, denso di pensiero e di empatia, della grande filosofa e romanziera francese, voce tra le più significative della filosofia e della letteratura impegnata, è l’intellettuale oranese Bastiana Madau, scrittrice, operatrice culturale di valore ed editor. Il suo interesse per lei viene da lontano.
Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera.
Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-Paul Sartre divise vita, pensiero, impegno politico.
Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro), “Simone, le Castor. La costruzione di una morale” percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile.
Scrivere di Simone De Beauvoir, ci dice Bastiana Madau, significa confrontarsi con un’intellettuale non ignora mai il mondo reale, e non trascura lo smacco: la sua scrittura e la sua riflessione sono sempre divise tra individuo e collettività, rivolte alla condizione umana, fatta di uomini e donne che fanno i conti con un corpo, un tempo, un luogo, una condizione sociale. La sua figura segna così il passaggio a un modello innovativo di intellettuale, che non può più permettersi di scrivere per sé, ma deve approdare a un impegno “militante”, accettare il rischio di vivere «la grande avventura di essere me stessa».
Il saggio di Bastiana Madau riattraversa tutti i temi beauvoiriani segnati dalle contraddizioni dell'esistenza: lo smarrimento dell'essere umano di fronte alla mancanza di valori assoluti, Dio su tutti; la superiorità della coscienza, unico giudice a cui rispondere; l'impegno per una morale basata su principii indiscutibili ma sulla consapevolezza del limite comune a tutti gli esseri umani. Particolare attenzione è dedicata anche alla condizione della donna, che De Beauvoir affronta nel suo capolavoro, “Il secondo sesso”, testo imprescindibile della storia del pensiero femminile.
Quanto al titolo del saggio di Bastiana Madau che sarebbe davvero bello e utile poter leggere anche in versione cartacea Castor era il nomignolo con cui Sartre chiamava la sua compagna. A idearlo fu René Gabriel Eugène Maheu, alias Herbaud, professore di filosofia a Londra e amico di entrambi (e di Paul Nizan), che giocò con il cognome Beauvoir e il termine inglese beaver, castoro. Ma a renderlo vivo e pregnante fu il filosofo esistenzialista. Lo racconta l’interessata in “Memorie di una ragazza per bene”, e più tardi ne “L’età forte”. «Un giorno scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali: BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore». 

Maria Paola Masala, De Beauvoir, ovvero il progetto della felicità, L’Unione Sarda, venerdì 2 settembre 2016. (Riproduzione riservata)