Aldianoa. Un
nome la cui sonorità è lieve e forte a un tempo. E ha un colore:
bianco; arvu, arvéschia, alba, un'alba sul mare... O forse è Ardia
quel suono? Ardimento? È
coraggio? Oppure è Algìa, algos, dolore, tristezza? Il nostos,
allora, ossia il ritorno al paese natale – ché questo è il plot
di Se
ascolti il vento
di Franco Mannoni – provoca di per sé nostalgia? Nostalgia di
cosa, se il ritorno si verifica? È
una nostalgia nuova? La nostalgia di un futuro che non si è mai
avuto, ad Aldianoa? «Se
non dovessi tornare,/ sappiate che/ non sono mai partito – scrive
Giorgio Caproni –. Il
mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua dove non fui mai».
Aldianoa, che ha quel suffisso, noa, che evoca una promessa, come di promesse ha sapore il vento che arriva dal mare... Non lo so, ma so che intorno all'onomastica fantastica si possono organizzare tante suggestioni, ragioni e sentimenti che premono e rendono necessaria l'invenzione di una parola nuova. Così, nel romanzo di Franco Mannoni, il nome prende il posto di quello del paese natale dell'autore, Santa Teresa di Gallura, luogo che nel libro viene presentato innanzitutto nel suo profondo legame con il mare e i venti, nominati a uno a uno, dandogli anche una psicologia e dedicando ai loro nomi belli alcuni dei capitoli più significativi del libro: “Maestrale”, “Tramontana”, “Libeccio”, “Grecale”.
Aldianoa, che ha quel suffisso, noa, che evoca una promessa, come di promesse ha sapore il vento che arriva dal mare... Non lo so, ma so che intorno all'onomastica fantastica si possono organizzare tante suggestioni, ragioni e sentimenti che premono e rendono necessaria l'invenzione di una parola nuova. Così, nel romanzo di Franco Mannoni, il nome prende il posto di quello del paese natale dell'autore, Santa Teresa di Gallura, luogo che nel libro viene presentato innanzitutto nel suo profondo legame con il mare e i venti, nominati a uno a uno, dandogli anche una psicologia e dedicando ai loro nomi belli alcuni dei capitoli più significativi del libro: “Maestrale”, “Tramontana”, “Libeccio”, “Grecale”.
Il
primo dei 28 brevi capitoli del romanzo, “Arrivo”, dice del
ritorno al punto da cui il protagonista, Attilio Serra, è partito;
l'ultimo, intitolato “Partenza”, in verità è una
ripartenza: d'altronde non è già Eliot a indicarci che «ritorna
solo colui che non è mai partito»?
Il libro racconta il ritorno di un uomo al suo paese
d'origine e il ritorno si tramuta in un'autentica ricerca che esplora
il noto e il consueto con occhi nuovi. Ed è sorprendente, come
stavolta insegna Proust, la quantità e la qualità di
nuova
memoria
che può scaturire dalla riflessione condotta attorno a cose che a
suo tempo sono passate inosservate. Quindi
la ricerca riguarda soprattutto (anche se non espressamente) il
proprio sguardo sul presente, il sé, il punto a cui si è giunti e
perché. E ciò avviene attraverso il confronto costante dei ricordi
del passato con quel che di essi resta nel presente del punto da cui
si è partiti: il paese natale. È
ancora Eliot, in Quattro
quartetti,
che scrive mirabilmente l'effetto di questo genere di ricerca
rappresentato dai ritorni: «Non smetteremo di esplorare. E alla
fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per
conoscerlo per la prima volta».
Il
protagonista del romanzo di Mannoni attiva la conoscenza del proprio
presente misurandola con la memoria, che talvolta è lieve – come
nel caso dei ricordi portati dalle canestre, i dolci galluresi che
ancora resistono nello stesso profumo, riportando a certe atmosfere
dell'infanzia, come sa fare un vento buono –; altre volte è inquieta,
come un maestrale d'inverno; altre ancora è dolorosa, come una
tramontana che spazza il mare mettendo a rischio la vita dei
pescatori di Aldianoa. Ciononostante, da parte di Serra, è una
memoria voluta, cercata: un esercizio utile a comprendere cos'è
diventato il luogo da dove si è partiti. E ciò accade tramite una
riflessione condotta per tutto il libro, che coerentemente rinvia
dalla propria personale intimità alle considerazioni che riguardano
un'intera collettività. Così accade al personaggio protagonista del
romanzo, dirigente
scolastico alle soglie del pensionamento, reduce da un problema di
salute, che si concede un lungo intervallo per esplorare geografie a
lui note. I ritorni ad Aldianoa si sono succeduti negli anni,
soprattutto in estate, ma questa lunga pausa non è una vacanza,
ancor meno lo è da se stesso, nascendo, anzi, dal «desiderio»
di una maggiore «prossimità»
con le cose, i paesaggi, la gente che si vuole riconoscere, riavere
come comunità di appartenenza; dal bisogno umanissimo «di
risentire voci, parole, di riappropriarsi di scorci di luce, di
avvertire ancora familiari rumori e odori, di verificare quanto
l'immaginario possa essere ritrovato e rivissuto e quanto invece si
sia smarrito, disperso».
Insomma, è un ritorno progettuale, ed effettivamente per Attilio Serra diventa l'occasione per riallacciare i fili avviluppati della sua famiglia; rievocare storie semplici e struggenti, drammatiche e sentimentali, tutte significative e tuttavia, sin qui, dimenticate; diventa l'occasione per riscoprire la lingua gallurese, realizzata come elemento di commossa partecipazione affettiva alla memoria della figura materna; ricostruire la storia con la esse maiuscola, che a tutti appartiene e che tutti ha toccato, anche nel microcosmo di Aldianoa: le due guerre, il fascismo, la ripresa (notevole il capitolo intitolato “Boom”, che arrivando già da pagine critiche, suona curiosamente ironico), il segno della cosiddetta Rinascita sarda, la crisi, lo sradicamento a cui segue un enorme spaesamento. E sì che già ci aveva messo sull'avviso Cesare Pavese, in La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Così, all'incanto del tempo intimo, personale, «ritrovato», per dirla ancora con Proust, fa da contraltare il disincanto nella constatazione che nulla è come prima. Il cemento ha cancellato persino il canneto dell'infanzia, che ascoltava il vento e lo registrava nei suoi movimenti, e il paese di vento e di mare è stato piegato dal degrado delle cose e, sostanzialmente, dell'intera piccola comunità. Tristissimo e feroce è il racconto delle disavventure dell'ortolano dandy Vensà e del suo inquieto compare Mimì, cacciati a malo modo dal Marylin Bar per la loro esuberanza: strafatti di Cuba Libre, scocciatori di Ella Bolkan, alias Stella, ragazza cubo, «metafore di un microcosmo che si era girato da un'altra parte, buttando via quanto di bello e poetico c'era stato ad Aldianoa, solo per uniformarsi alla volgarità imperante in tutto il resto del globo».
Ma ciò che maggiormente rende efficace l'opera letteraria di Mannoni, secondo me, è che in essa si annuncia e si tiene fede al patto stabilito con il lettore sin dalle prime pagine: l'autore non abdica mai al timore che con circospezione avverte nella trappola nostalgica, in cui ben sa quanto sia facile cadere andando a vivere per un lungo periodo accanto ai «fantasmi» di giovinezza. Quei fantasmi sono vivi: «Viviamo con e fra i fantasmi./ Fantasma è l'immagine, l'evocazione, il richiamo di chi non c'è più./ Fantasma è ciò che non si è più perché ci si è evoluti, diventati nuovi e diversi da quel che non si è più ma si è cristallizzato nella memoria./ […] Viviamo fra persone e fantasmi, dove le persone prendono vita attraverso l'attività del pensiero./ Ma anche le persone sono fantasmi». Ecco, nonostante il livello introspettivo e la profondità dell'attraversamento di ciò che Serra nomina come «fantasmi», e nonostante essi vengano evocati e convocati progettualmente dal «cercatore di memorie», nel romanzo non sussiste la banale nostalgia, il sentimentalismo, l'eccesso di debolezza spirituale. Chiaro, si tratta anche di una ricerca sentimentale, ma in senso nobile, spiritualmente forte, e ciò traspare dalla scrittura di Mannoni, di cui Serra è evidentemente alter ego, la quale – e spero che la mia considerazione non sembri un paradosso – è sempre estremamente razionale. L'autoanalisi è al limite della spietatezza, la scrittura è vigilata, direi anzi governata da un certo pudore estetico, che arriva a chi legge non già come freno all'immaginazione, bensì come un valore di altri tempi. Non è facile scrivere così, cioè riuscire ad esprimere esattamente quel che s'intende, toccando corde anche intime, ma conservando alta la consapevolezza che le trappole del sentimentalismo possono tendere agguati micidiali all'autenticità.
Dunque cosa fa Serra ad Aldianoa? Cosa cerca? Cosa scopre? Soprattutto cosa rivela di nuovo a chi legge, compresi coloro che pensano di conoscere il luogo, e magari, anche, lo abitano?
Vagabonda per le stradine del borgo; si ferma ad ascoltare gli uomini e le donne, le loro storie o anche solo un episodio che ne caratterizza le personalità; sosta nelle stanze della sua casa natale, catalogando gli oggetti come ricordi di umanità, che donano a ogni «fantasma» carne e spessore; ripercorre la storia della sua stirpe, in zona realtà come in zona mito. Ma, soprattutto, Serra attraversa la storia di Aldianoa adottando il punto di vista del gabbiano, cioè conservando uno sguardo esterno, non frontale, obliquo come quello dei piloti di volo durante un atterraggio, lontano dalla stucchevole sequela di elementi che segnano “i bei tempi andati”, ossia non contrapponendo il presente a un passato in cui (Mannoni lo sa e racconta anche di questo) la gente di Aldianoa, alias Santa Teresa di Gallura, viveva faticosamente di un'economia di sussistenza. Attraverso lo sguardo del gabbiano (nel libro c'è davvero il paesaggio costiero gallurese osservato da un immaginifico gabbiano), il cercatore di memorie evita quell'autoreferenzialità che spesso troviamo nelle opere dei nostri contemporanei, e che un po' ci disturba. Con sobrietà riesce a trasmettere in chi legge il proprio amore per le geografie fisiche e umane ripercorse, suscitando la tenerezza che è la sua stessa tenerezza, stuzzicando il pensiero critico; fa percepire il senso di perdita e la nostalgia per un futuro che non si è osato disegnare come differente, in quei luoghi, così evocativi anche di altri luoghi. La rende dolente, quella tenerezza, allorché il punto di vista del gabbiano, sin lì concentrato sull'eterno splendore dei paesaggi di una natura arcaica sopravvissuta ai secoli, si sposta in quelli urbani, nelle strade e negli edifici dei centri abitati, facendo arrivare violentemente un presente che, in fondo, ha tradito per modo di dire il futuro, ché del futuro sembra si sia diventati consapevoli soltanto una volta che se ne è afferrata la sua sottrazione. Lancinante è l'umanità – raccontata con pietas – che mai ha avuto il coraggio di immaginare veramente. Inflessibile è la cronaca dello scacco esistenziale di una società – quella gallurese e sarda – che ha commerciato e sostituito il proprio decoro con un pacchiano abusivismo, condizionata nelle architetture e nei comportamenti dall'avere seguito le orme nazionali, intese come il peggio che arrivava dal Belpaese. E buonanotte alla comunità, alla bellezza, all'etica, al senso di tutto.
In conclusione, Attilio Serra non è un uomo baciato da ottimismo, ma sa che senza la speranza non si può vivere: non ce la farebbe lui, non ce la faremmo noi. Il personaggio costruito da Mannoni, nonostante tutto, riesce a conservarla, e nei suoi «appunti» (diversi capitoli si chiamano così) scrive spesso dei bambini. Mi è difficile restituirla senza banalizzarla, la speranza di Serra, così provo a dirne con le parole di una canzone:
Insomma, è un ritorno progettuale, ed effettivamente per Attilio Serra diventa l'occasione per riallacciare i fili avviluppati della sua famiglia; rievocare storie semplici e struggenti, drammatiche e sentimentali, tutte significative e tuttavia, sin qui, dimenticate; diventa l'occasione per riscoprire la lingua gallurese, realizzata come elemento di commossa partecipazione affettiva alla memoria della figura materna; ricostruire la storia con la esse maiuscola, che a tutti appartiene e che tutti ha toccato, anche nel microcosmo di Aldianoa: le due guerre, il fascismo, la ripresa (notevole il capitolo intitolato “Boom”, che arrivando già da pagine critiche, suona curiosamente ironico), il segno della cosiddetta Rinascita sarda, la crisi, lo sradicamento a cui segue un enorme spaesamento. E sì che già ci aveva messo sull'avviso Cesare Pavese, in La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Così, all'incanto del tempo intimo, personale, «ritrovato», per dirla ancora con Proust, fa da contraltare il disincanto nella constatazione che nulla è come prima. Il cemento ha cancellato persino il canneto dell'infanzia, che ascoltava il vento e lo registrava nei suoi movimenti, e il paese di vento e di mare è stato piegato dal degrado delle cose e, sostanzialmente, dell'intera piccola comunità. Tristissimo e feroce è il racconto delle disavventure dell'ortolano dandy Vensà e del suo inquieto compare Mimì, cacciati a malo modo dal Marylin Bar per la loro esuberanza: strafatti di Cuba Libre, scocciatori di Ella Bolkan, alias Stella, ragazza cubo, «metafore di un microcosmo che si era girato da un'altra parte, buttando via quanto di bello e poetico c'era stato ad Aldianoa, solo per uniformarsi alla volgarità imperante in tutto il resto del globo».
Ma ciò che maggiormente rende efficace l'opera letteraria di Mannoni, secondo me, è che in essa si annuncia e si tiene fede al patto stabilito con il lettore sin dalle prime pagine: l'autore non abdica mai al timore che con circospezione avverte nella trappola nostalgica, in cui ben sa quanto sia facile cadere andando a vivere per un lungo periodo accanto ai «fantasmi» di giovinezza. Quei fantasmi sono vivi: «Viviamo con e fra i fantasmi./ Fantasma è l'immagine, l'evocazione, il richiamo di chi non c'è più./ Fantasma è ciò che non si è più perché ci si è evoluti, diventati nuovi e diversi da quel che non si è più ma si è cristallizzato nella memoria./ […] Viviamo fra persone e fantasmi, dove le persone prendono vita attraverso l'attività del pensiero./ Ma anche le persone sono fantasmi». Ecco, nonostante il livello introspettivo e la profondità dell'attraversamento di ciò che Serra nomina come «fantasmi», e nonostante essi vengano evocati e convocati progettualmente dal «cercatore di memorie», nel romanzo non sussiste la banale nostalgia, il sentimentalismo, l'eccesso di debolezza spirituale. Chiaro, si tratta anche di una ricerca sentimentale, ma in senso nobile, spiritualmente forte, e ciò traspare dalla scrittura di Mannoni, di cui Serra è evidentemente alter ego, la quale – e spero che la mia considerazione non sembri un paradosso – è sempre estremamente razionale. L'autoanalisi è al limite della spietatezza, la scrittura è vigilata, direi anzi governata da un certo pudore estetico, che arriva a chi legge non già come freno all'immaginazione, bensì come un valore di altri tempi. Non è facile scrivere così, cioè riuscire ad esprimere esattamente quel che s'intende, toccando corde anche intime, ma conservando alta la consapevolezza che le trappole del sentimentalismo possono tendere agguati micidiali all'autenticità.
Dunque cosa fa Serra ad Aldianoa? Cosa cerca? Cosa scopre? Soprattutto cosa rivela di nuovo a chi legge, compresi coloro che pensano di conoscere il luogo, e magari, anche, lo abitano?
Vagabonda per le stradine del borgo; si ferma ad ascoltare gli uomini e le donne, le loro storie o anche solo un episodio che ne caratterizza le personalità; sosta nelle stanze della sua casa natale, catalogando gli oggetti come ricordi di umanità, che donano a ogni «fantasma» carne e spessore; ripercorre la storia della sua stirpe, in zona realtà come in zona mito. Ma, soprattutto, Serra attraversa la storia di Aldianoa adottando il punto di vista del gabbiano, cioè conservando uno sguardo esterno, non frontale, obliquo come quello dei piloti di volo durante un atterraggio, lontano dalla stucchevole sequela di elementi che segnano “i bei tempi andati”, ossia non contrapponendo il presente a un passato in cui (Mannoni lo sa e racconta anche di questo) la gente di Aldianoa, alias Santa Teresa di Gallura, viveva faticosamente di un'economia di sussistenza. Attraverso lo sguardo del gabbiano (nel libro c'è davvero il paesaggio costiero gallurese osservato da un immaginifico gabbiano), il cercatore di memorie evita quell'autoreferenzialità che spesso troviamo nelle opere dei nostri contemporanei, e che un po' ci disturba. Con sobrietà riesce a trasmettere in chi legge il proprio amore per le geografie fisiche e umane ripercorse, suscitando la tenerezza che è la sua stessa tenerezza, stuzzicando il pensiero critico; fa percepire il senso di perdita e la nostalgia per un futuro che non si è osato disegnare come differente, in quei luoghi, così evocativi anche di altri luoghi. La rende dolente, quella tenerezza, allorché il punto di vista del gabbiano, sin lì concentrato sull'eterno splendore dei paesaggi di una natura arcaica sopravvissuta ai secoli, si sposta in quelli urbani, nelle strade e negli edifici dei centri abitati, facendo arrivare violentemente un presente che, in fondo, ha tradito per modo di dire il futuro, ché del futuro sembra si sia diventati consapevoli soltanto una volta che se ne è afferrata la sua sottrazione. Lancinante è l'umanità – raccontata con pietas – che mai ha avuto il coraggio di immaginare veramente. Inflessibile è la cronaca dello scacco esistenziale di una società – quella gallurese e sarda – che ha commerciato e sostituito il proprio decoro con un pacchiano abusivismo, condizionata nelle architetture e nei comportamenti dall'avere seguito le orme nazionali, intese come il peggio che arrivava dal Belpaese. E buonanotte alla comunità, alla bellezza, all'etica, al senso di tutto.
In conclusione, Attilio Serra non è un uomo baciato da ottimismo, ma sa che senza la speranza non si può vivere: non ce la farebbe lui, non ce la faremmo noi. Il personaggio costruito da Mannoni, nonostante tutto, riesce a conservarla, e nei suoi «appunti» (diversi capitoli si chiamano così) scrive spesso dei bambini. Mi è difficile restituirla senza banalizzarla, la speranza di Serra, così provo a dirne con le parole di una canzone:
«Separazione,/
gli Uccelli in partenza ci chiamano,/ ma noi rimaniamo qui/ sposati
con la paura di volare./ Via terra/ i venti del cambiamento consumano
la terra,/ mentre noi rimaniamo nelle ombre delle estati passate./
Quando tutte le foglie/ sono cadute e trasformate in polvere,/ noi
rimarremo incatenati alle nostre vie./ Indifferenza,/ la piaga che si
muove in questa terra./ Oscuri segni nel disegno delle cose che
verranno./ Il domani del bambino è l'unico bambino».
Bastiana
Madau per Se
ascolti il vento di
Franco Mannoni, Arkadia,
Cagliari 2016, 132 pp.
Foiso Fois, Il canneto (particolare). Dall'immagine di copertina del libro di Franco Mannoni Se ascolti il vento. |
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