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22 maggio 2016

Contrastare con i fatti

Per contrastare con i fatti il cinismo e i rancori alimentati dalle destre occorre fare dell’accoglienza il progetto di un cambiamento radicale delle politiche e degli assetti dell’Europa; costruendo, a partire dall’iniziativa e dalle esperienze di chi già oggi è impegnato ad accogliere, ma soprattutto da un senso di umanità a cui non possiamo rinunciare, perché ne va della nostra stessa dignità, un programma politico capace di opporre all’economia del debito e all’austerità che ci imprigiona tutti, la conversione ecologica: la creazione di milioni di posti di lavoro per produrre, con meno fatica per tutti e meno sperperi, cose utili in campo energetico, in agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti. Per contrastare i cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali, che sono la vera origine delle guerre che spingono tanti esseri umani a cercare rifugio tra noi. Attività che permettano loro anche di organizzarsi e operare per riportare la pace e la sostenibilità nei paesi che hanno dovuto abbandonare. Creando così una Europa capace di includere coloro che sono arrivati, e continueranno ad arrivare tra noi, rivendicando il più elementare e dei diritti: quello di vivere.
Guido Viale, Profughi e migranti sono un'occasione per cambiare radicalmente l'Europa, Il manifesto sardo, 16 maggio 2016.

18 gennaio 2016

Rundines 18

"Il mio è uno sguardo da lontano, una scelta che è un po’ il contrario del fotogiornalismo classico. È più simile a una mappatura", dice Rocco Rorandelli, che, alla base del suo progetto fotografico, pone l'idea che la migrazione sia "una scelta che l’essere umano condivide con molte specie". Credo di essere d'accordo, perché, riflettendo sul presente e sul passato – vicino, lontano e remotissimo –, mi viene da aggiungere che la migrazione sia una condizione ontologica dell'umanità: non si è mai fermata, infatti, non si può fermare, e non si fermerà.

Rocco Rorandelli (Terra Projet), Al confine fra Grecia e Macedonia; fonte: Internazionale.

26 settembre 2015

Necessità, orizzonte

[Leggendo Le ragazze sono partite, un bellissimo libro di Giacomo Mameli derivato da una raccolta di fonti orali, con una buona struttura narrativa, che affronta il tema dell'emigrazione femminile sarda nel dopoguerra.]
L'immagine delle ragazze che, soprattutto a partire dal '45, lasciano i piccoli borghi natii dell'isola e si incontrano prima sul treno, poi sulla nave e poi ancora sul treno, mi evoca gli uomini e le donne in cammino dei romanzi di Saramago. Tantissimi, insieme, chi a piedi, chi su un carro. Non si conoscono, prima di incamminarsi, si conosceranno camminando insieme [omaggio ad A.]. Ma le moltidudini in viaggio non sono soltanto dei romanzi, come sappiamo, e non sono soltanto di ieri: pensiamo all'oggi, a quei viaggi a volte simili a deportazioni, e non dimentichiamo mai di illuminarli con la nostra capacità di leggerli con tutta l'umanità che ci è rimasta. Nessuno viaggia per viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa anche essere, forse, soltanto e ancora quella del viaggio: chi può affermare che nel corpo di quel ragazzo di vent'anni (presumibilmente...) o di quella ragazzina di 16 (...) trovati morti in mare non fosse racchiuso anche un "sogno"?... Ma anch'io mi soffermo innanzittutto sulla necessità primaria, perché la divagazione sul tema del viaggio porta troppo lontano: al discorso sulla libertà della scoperta, ad esempio, al bisogno naturale di allargare il proprio orizzonte, e, dunque, al discorso sulla libertà, che via via, forse senza che ne siamo totalmente consapevoli, oggi è diventato un lusso proibito, tanto da apparire addirittura "reazionario"... 
Così, per quanto riguarda l'influenza dell'antico bisogno umano di viaggiare nella decisione di emigrare, è senz'altro più opportuno ricordare la lezione di Nereide Rudas (L'emigrazione sarda, 1974), accolta anche da Maria Luisa Gentileschi in Il bilancio migratorio, pubblicato nel 1978. Entrambe le studiose osservano che se da un lato è corretto tenere conto che nel processo emigratorio confluiscono componenti psicologiche e sociali, dall'altro è giusto riaffermare che non per questo l’emigrazione sia un atto di libera scelta. Pertanto è giusto che si riconosca nella situazione di base della migrante o del migrante un bisogno "aperto", ma se anche tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica resta il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo in ultima analisi, al migrante o alla migrante di autorealizzarsi nel proprio luogo di origine.

Concretamente, per stare al libro che mi ha spinto a scrivere questo post, cos'è che ha spinto tante, tantissime giovani donne, a volte ancora bambine (coraggiosissime bambine), a varcare per la prima volta il mare, lasciando i paesi dell'infanzia e la propria famiglia? Scrive Mameli, a p. 68: «Nell'isola e altrove, in Abbruzzo e in Sicilia per il lavoro femminile non c'era posto». La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi; così gli pneumatici della Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio, e così anche le miniere sarde di carbone, «dove i maschi morivano di tumore nero. [...] Il lavoro è sostantivo maschile»: le donne sarde e le altre sparse nel Sud erano destinate solo ai fornelli e a lavare panni, quasi sempre senza compenso quando se ne restavano nei paesi di nascita. «Fatica dovuta, scritta nei libri sacri. Solo per poche figlie di ricchi c'era una cattedra in qualche scuola. Le figlie dei poveri – se volevano vedere soldi – dovevano solo partire. E le ragazze partivano. I paesini restavano vuoti.»

Perché partono, innanzittutto, le ragazze di cui parla questo libro? 
Partono perché sono povere. 
Cosa "sognano" le ragazze dei racconti reali tessuti in questo libro? 
Vogliono guadagnare il denaro che gli consenta di aiutare la famiglia: aggiustare il tetto della casa natale, aiutare un fratello a rifarsi un gregge rubato, sfamare e vestire le sorelle più piccole, poter curare un familiare malato, aiutare la famiglia a uscire da situazioni di indigenza o quasi. Ma ambiscono anche a fare una vita diversa, a conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a crescere libere, a emanciparsi, andando a fare le serve in terra anzena
Sembra un paradosso, vero? Non lo è, o almeno, dagli esiti spesso edificanti della loro emigrazione, di cui nel libro sempre si dà conto, non lo è stato. 
Ciò detto, cosa vanno a fare le ragazze in città? Vanno a servire in casa delle famiglie benestanti, cioè a fare le tzeràccas. E quando va meglio, cioè quando sono trattate civilmente e non accolte subito con “tu sei la mia serva”, come accade a Pietrina, cosa vanno a fare? Vanno a fare le domestiche. Da tzeràccas – parola sarda che deriva dal greco antico, e significa serva – all'italiano domestica, che a sua volta viene dal latino domo, e dice di colei che si prende cura della casa e, dunque di chi la abita; e nelle due differenti parole per designare sostanzialmente la stessa attività, c'è una mobilità di suono, ma anche di senso, che in primis passa nella muta richiesta di rispetto del proprio lavoro. 
Dunque vanno a lavorare come come collaboratrici famigliari o colf, come si direbbe oggi, a casa di gente ricca e anonima, o anche in case importanti: Giovanna Maretta, ad esempio, che aprì la strada dell'emigrazione femminile a Perdasdefoghu, suo paese natale, partì nel 1917, a 14 anni, e rientrò nel 1945. Lavorò nella casa romana di Edda Ciano, la moglie del ministro Galeazzo Ciano, genero di Benito Mussolini, «per questo, sbagliando di grosso – scrive Mameli –, al paese la chiamavano sa seràcca de Mussolini». Ma erano le malelingue ad appellarla in quel modo, perché Maretta, tornata al paese signora», in realtà era anche un po' invidiata, perché era cambiata, era diversa, e il contrasto con le ragazze che erano rimaste lì era troppo evidente. Portava la sciarpa di seta, lunghe collane, il rossetto, mentre le altre ragazze di Foghesu avevano lo scialle color caffé e rossetto «mai visto». 

Delia, della seconda ondata migratoria femminile, parte per Roma nel 1968, ha 15 anni appena compiuti, aveva appena ultimato le scuole medie, le piaceva studiare, le piaceva il teatro, era intelligentissima e curiosa, tant'è che pure così piccola e piena di malinconia (i primi giorni piangeva sempre e pensava ai genitori rimasti soli, seduti davanti al camino «con pochi legnetti») restò incantata dalla parlata italiana, ed ebbe anche fortuna: trovò lavoro come baby sitter presso i Kezich-De Manzolin, ossia a casa del già affermato critico cinematografico Tullio Kezich, dove fu rispettata e anche voluta bene, come se ne può e se ne deve volere a una ragazzina. Era poco più di una bambina, infatti, e quei signori, che evidentemente erano persone per bene, si presero a loro volta cura di Delia, facendole intraprendere anche un persorso di crescita personale: patente a 18 anni, corso di stenodattilografia, Kezich che le fa battere a macchina i suoi articoli sul cinema destinati al Corriere della Sera. Tant'è che, quando Delia trova un vero e proprio lavoro in un centro meccanografico, continua a vivere in casa dei Kezich; esce alle sette e mezza del mattino, rientra alle cinque del pomeriggio, e a partire da quell'ora sta con il piccolo Giovanni. Poi arrivò il lavoro in banca, uno stipendio vero, i progetti per un vero futuro...

C'è la storia di Francesca Zou, alias Cichedda di Nughedu San Nicolò, alunna di una maestra degna rappresentante di quella che Albino Bernardini in quegli stessi anni battezzò come La scuola nemica: veniva infatti puntualmente pestata in classe. Così, dall'età di sette anni, Cichedda preferisce fare le commissioni in casa di Cicìta Tanda, e poi serva malpagata, sino a quando, informata che i bigliettoni rossi da diecimila lire si potevano trovare solo varcando il mare, decide di partire. E Parte. Tra l'altro è una delle rare ragazze che lo fa con una valigia vera (un topos dell'emigrazione che Mameli non trascura di descrivere), comprata in una merceria di Ozieri. Le altre ragazze del libro, alla partenza, solitamente mettevano quel minimo di abbigliamento e biancheria posseduti dentro una federa bianca, insieme a un po' di pane e formaggio per il lungo viaggio. Cichedda ebbe un'esperienza di lavoro anche interessante sotto il profilo dell'arricchimento culturale, perché conobbe il mondo del cinema romano di quegli anni strepitosi per il cinema italiano: il figlio dei suoi datori di lavoro era stato scelto a far parte di un cast fortuitamente, mentre si trovava a passeggio con Cichedda il un parco della città , e quindi la ragazza prese ad accompagnare il piccolo Valerio a Cinecittà, dove Monicelli girava Deserto rosso... 

Toccante la storia di Carrùla, serva nelle campagne tra l’Ogliastra e il Sarrabus dall’età di otto anni …

Curiosa la storia di Cecilia Melis, domestica a Cagliari dall'età di 12 anni, che emigra a Roma per lavorare in casa di De Quirico. Ma naturalmente non sa chi sia, e raccontando di sé alle compagne che incontrava nelle ore libere alla stazione Termini (ribatezzata dalle emigrate "Stazione Sardegna") diceva di prestare servizio «a casa di un vecchio che dipinge»...
Sophie Calle, Voir la mer, 2011

18 luglio 2015

Ragazze sarde a Roma

Giacomo Mameli ha sempre dedicato un'attenzione fuori dal comune al mondo del lavoro femminile, con stile giornalistico e letterario a un tempo. Nelle cronache e nei libri mette in luce le esistenze concrete, quasi che, sulle orme di Wittgenstein, voglia ricordarci che non bastano dati freddi per comprendere i processi sociali, economici e culturali: esistono atteggiamenti e valori determinanti che emergono solo attraverso storie di vita. Storie non sempre facili da individuare e comprendere, perciò, dato che si tratta di interpretarle, è necessario avere doti di semiologo per proporre quelle maggiormente "rappresentative" al fine di rivelare un mondo. Doti che l'autore possiede. Osservatore storico del territorio, ha sempre descritto con maestria paesaggi fisici e umani, arricchendoli di toponimi locali, nomi e soprannomi, non trascurando piante e animali, ma soprattutto ha raccontato i paesi, spesso poveri di cose ma ricchi di storia.
Dedicato alle professioniste dell'isola è Donne sarde (2005) e in La ghianda è una ciliegia (2006) c'è una parte importante sulla fatica quotidiana delle donne contro la fame durante la seconda guerra mondiale. Ricordo la cernitrice di carbone dello struggente racconto “Italia è morta”, che di quel lavoro morirà; o “Le donne del rosmarino”, in cui l'anziana testimone racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la drammaticità, infatti, i racconti sono spesso venati di ironia, ossia di quella particolare leggerezza di cui sono capaci coloro che possiedono la virtù di spostare il proprio destino in una dimensione più abitabile, con le parole.
Con il volume da pochi giorni in libreria, Le ragazze sono partite (CUEC, 2015), Mameli elegge Perdasdefogu a ossevatorio dell'emigrazione femminile sarda del dopoguerra, caratterizzata dalla prestazione di lavori di cura. Il racconto è composto coralmente nell’arco di più generazioni; le voci appartengono a donne molto giovani, spesso quasi bambine, tanto forti quanto coraggiose: Pietrina, innanzittutto, che tiene l'ordito del racconto, poi Clelia, Giovanna, Erminia, Cecilia, Silvana, Carrula, Elena, Delia, Odilia, Secondina, Cichedda, Giuanna e tante altre. Scrive Mameli: «Nell'isola e altrove per il lavoro femminile non c'era posto. La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi», così la Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio. «Il lavoro è sostantivo maschile». Anche in Sardegna, in quegli anni del dopoguerra, «c'erano state le miniere, e anche quelle erano soprattutto per i maschi, che ci morivano di tumore nero [...] Cominciavano a sorgere anche le ciminiere della petrolchimica. A Portotorres tremila tute blu, nemmeno venti le ragazze. Idem a Ottana e a Machiareddu. Vicino a Foghesu sorgeva la cartiera di Arbatax. A Sarroch la raffineria per rifornire di benzina le macchine. Tutte quelle erano fabbriche per giovani e meno giovani che lasciavano il latte delle mammelle di pecore e capre per ungersi con i derivati del petrolio e della virgin nafta […] Per le ragazze la strada era un'altra e una sola: domestica. O serva». ... 

Ragazze sarde a Roma, di Bastiana Madau (stralcio della recensione pubblicata nel mensile Lo Straniero, n. 181, luglio 2015).

1 giugno 2015

Tutte significative

È appena uscito in libreria Le ragazze sono partite (CUEC, 2015) di Giacomo Mameli, in cui il giornalista e scrittore con continua a farci conoscere l'universo del lavoro femminile sardo, a cui anche in precedenti volumi ha prestato una grande attenzione, e in particolare in Donne Sarde (2005) dedicato alle imprenditrici e professioniste dell'isola di oggi. Per raccontare il mondo del lavoro nei suoi diversi aspetti, Mameli raccoglie storie di vita, mettendo in luce le esistenze concrete delle persone delle piccole comunità del territorio e mostrandoci una sezione della realtà tagliata attraverso il tempo, così da rendere presenti sia gli istanti del passato importanti – per meglio afferrare il nostro presente –, sia il futuro che ci aspetta, dipendentemente dall'interazione con i problemi della contemporaneità. L'idea che viene fuori da ogni suo libro è in Sardegna ci sono i segni di un mutamento che non ha mai smesso di compiersi. Come già anche in La ghianda è una ciliegia (2006) in Le ragazze sono partite l'autore elegge Perdasdefogu, suo paese natale, a ossevatorio di fenomeni che sono vastissimi: nel primo attraverso il racconto corale dell'enorme scotto pagato dalla povera gente in termini di perdita di vite umane e di estrema povertà durante la seconda grande guerra, nel secondo – attraverso una polifonia di voci di giovani donne – il fenomeno dell'emigrazione femminile, in special modo del dopoguerra. La postfazione del volume è affidata all’antropologa Martina Giuffrè, docente all'Orientale di Napoli e alla Sapienza di Roma, specialista di migrazioni, autrice di L’arcipelago migrante. Eoliani d’Australia e del saggio “Genere” contenuto in Antropologia e Migrazioni.

Le ragazze del libro sono emigrate verso Roma e Milano e nelle fabbriche della Svizzera e della Germania, e le tante storie sono tenute dal racconto di Pietrina, che tiene l'ordito delle narrazioni di Clelia, Evelina, Giovanna, Erminia, Bonaria, Silvana, Carrula, Elena, Delia, Eugenia, Odilia, Secondina di Lodine (la sola barbaricina del libro), Cichedda e tante altre. Partono perché ambiscono a poter guadagnare qualcosa che gli consenta di aiutare la famiglia, ma anche per sperimentare una vita diversa, conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a emanciparsi, andando a fare lavori domestici presso le famiglie benestanti delle città del Continente, ossia a fare le «seràccas». E quando gli dice bene, cioè quando sono trattate civilmente e non accolte subito con un «tu sei la mia serva», come accade a Pietrina, a fare le domestiche. Prestano servizio anche in case “importanti”: ad esempio Maretta – apripista dell'emigrazione femminile foghesina, nel 1917, a 14 anni – lavorò nella casa romana di Edda, moglie di Galeazzo Ciano; Delia, partita per Roma nel 1968, a 15 anni, fece la baby-sitter presso i Kezich-De Manzolin, ossia a casa del già affermato critico cinematografico Tullio Kezich, dove fu trattata bene, tanto da riuscire a intraprendere anche un persorso di crescita personale; Cecilia Melis, domestica a Cagliari dall'età di 12 anni, emigrò a Roma per lavorare in casa di De Quirico, ma naturalmente non sapeva chi fosse, e a chi le domandava dove prestava servizio rispondeva «a casa di un vecchio che dipinge». Peraltro Cecilia – affezionata all'anziano pittore, che le prestò a sua volta assistenza quando la ragazza, rimasta incinta di un tizio che non si sarebbe mai fatto vivo, andò in ospedale per partorire – continuò a vivere nella casa in piazza di Spagna insieme alla piccola Betrice, che poi si laureerà in Storia dell'arte all'Accademia di Brera.

Sono tante e tutte significative le storie delle ragazze che, per lo più nel dopoguerra, lasciano il paese e le famiglie poverissime, e di tutte Mameli dà anche l'esito della loro emigrazione, in un modo della narrazione straordinario, che cattura il lettore sin dalle prime pagine. Ancor più il libro è importante perché rinvia indirettamente a tematiche aperte, che vanno dal nuovo fenomeno migratorio che investe la Sardegna a quelle dell'immigrazione femminile, in particolare delle cosiddette “badanti”. Il successivo ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro, infatti, aprirà il problema dell'insostituito lavoro di cura, per cui il libro stimola anche alla riflessione sui problemi legati allo spostamento delle donne da ogni sud del mondo, che a loro volta lasciano i figli ancora piccoli e i propri anziani per assistere gli anziani del nostro occidente.
 
Bastiana Madau, Le ragazze sono partite, Il manifesto sardo, 1 giugno 2015.
Sono tante e tutte significative le storie delle ragazze che, per lo più nel dopoguerra, lasciano il paese e le famiglie poverissime, e di tutte Mameli dà anche l’esito della loro emigrazione, in un modo della narrazione straordinario, che cattura il lettore sin dalle prime pagine. Ancor più il libro è importante perché rinvia indirettamente a tematiche aperte, che vanno dal nuovo fenomeno migratorio che investe la Sardegna a quelle dell’immigrazione femminile, in particolare delle cosiddette “badanti”. Il successivo ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro, infatti, aprirà il problema dell’insostituito lavoro di cura, per cui il libro stimola anche alla riflessione sui problemi legati allo spostamento delle donne da ogni sud del mondo, che a loro volta lasciano i figli ancora piccoli e i propri anziani per assistere gli anziani del nostro occidente. - See more at: http://www.manifestosardo.org/le-ragazze-sono-partite/#sthash.4rsH7b8x.dpuf
Sono tante e tutte significative le storie delle ragazze che, per lo più nel dopoguerra, lasciano il paese e le famiglie poverissime, e di tutte Mameli dà anche l’esito della loro emigrazione, in un modo della narrazione straordinario, che cattura il lettore sin dalle prime pagine. Ancor più il libro è importante perché rinvia indirettamente a tematiche aperte, che vanno dal nuovo fenomeno migratorio che investe la Sardegna a quelle dell’immigrazione femminile, in particolare delle cosiddette “badanti”. Il successivo ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro, infatti, aprirà il problema dell’insostituito lavoro di cura, per cui il libro stimola anche alla riflessione sui problemi legati allo spostamento delle donne da ogni sud del mondo, che a loro volta lasciano i figli ancora piccoli e i propri anziani per assistere gli anziani del nostro occidente. - See more at: http://www.manifestosardo.org/le-ragazze-sono-partite/#sthash.4rsH7b8x.dpuf
Sono tante e tutte significative le storie delle ragazze che, per lo più nel dopoguerra, lasciano il paese e le famiglie poverissime, e di tutte Mameli dà anche l’esito della loro emigrazione, in un modo della narrazione straordinario, che cattura il lettore sin dalle prime pagine. Ancor più il libro è importante perché rinvia indirettamente a tematiche aperte, che vanno dal nuovo fenomeno migratorio che investe la Sardegna a quelle dell’immigrazione femminile, in particolare delle cosiddette “badanti”. Il successivo ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro, infatti, aprirà il problema dell’insostituito lavoro di cura, per cui il libro stimola anche alla riflessione sui problemi legati allo spostamento delle donne da ogni sud del mondo, che a loro volta lasciano i figli ancora piccoli e i propri anziani per assistere gli anziani del nostro occidente. - See more at: http://www.manifestosardo.org/le-ragazze-sono-partite/#sthash.4rsH7b8x.dpuf

20 aprile 2015

I SENZA CUORE

Ci sono persone il cui cuore se lo sono mangiati i cani: lo noti dall'amarezza, ma tracce del muscolo che fu appaiono in certi gesti o nei silenzi. Altre, semplicemente, atrocemente, sembrano nate senza: al suo posto, da sempre, un registratore di cassa.

25 dicembre 2011

Regali di Natale

La notte di Natale del 1996 nel canale di Sicilia è avvenuto il più grande naufragio della storia del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel tentativo di sbarcare nel nostro paese, circa trecento clandestini di origine pakistana, indiana e tamil, muoiono per l’affondamento di una "carretta del mare" del tutto inadeguata a sopportare un tale carico. Il fatto passa quasi completamente sotto silenzio. Nulla avviene durante quei giorni di festa e quando all’inizio di gennaio arrivano dalla Grecia le prime denunce dell’accaduto, la reazione delle autorità italiane è il rifiuto di credervi: come poteva veramente essere successa una tragedia di simili proporzioni senza che il mare e le coste siciliane ne portassero la traccia? Infatti anche a distanza di settimane non era ancora venuto a galla alcun resto del naufragio. Ma allora che cosa era accaduto?
Nei mesi seguenti i pescatori di Portopalo di Capo Passero, che battevano quel tratto di mare, trovarono ogni giorno nelle proprie reti, insieme al pescato, corpi umani. L'avvio di qualsiasi indagine avrebbe significato la chiusura dello spazio di pesca per un tempo indeterminato. Che fare allora di quei cadaveri? Tutti presero la stessa decisione.
Giovanni Maria Bellu in un libro-inchiesta del 2004 intitolato "I fantasmi di Portopalo", ricostruisce l'incredibile vicenda, raccontandola in prima persona, dimostrando che quel naufragio è davvero avvenuto e che un intero paese ha custodito per anni un atroce segreto. Ma il libro è anche il racconto di un viaggio, quello di Anpalagan, un giovane tamil che, insieme a un gruppo di amici, aveva vinto, nella sua cittadina dello Sri Lanka, una "borsa di studio" messa a disposizione dalla comunità: 6500 dollari per pagare i trafficanti che lo avrebbero dovuto portare in Europa. Un viaggio in condizioni estreme, che durò mesi e che finì tragicamente a poche miglia dall’arrivo.
Avete mai letto questo libro? Lo avete mai regalato? Fatelo.

27 aprile 2011

Sui populismi

Negli anni '20-'30, la Germania pre-nazista esaltò il Blut und Boden, il sangue e la terra, come fonte di legittimazione politica ben più forte della democrazia. Oggi lo slogan è imbellito  si parla di radicamento territoriale, davanti a una sinistra intimidita e plaudente – ma la sostanza non cambia. La brama di radici, ancora una volta, impedisce il camminare dell'uomo e lo sguardo oltre la propria persona, il proprio recinto. Consanguineità e territorio divengono fonti di legittimazione più forti della Resistenza.
Barbara Spinelli, qui.

8 aprile 2011

Antoni e Diagne



Antoni Cuccu, senza saperlo, era un editore. Trascriveva e stampava le gare poetiche della Sardegna e vendeva i libretti nelle feste paesane. Prima di morire ha lasciato in eredità il mestiere a Tediane Diagne, un migrante senegalese che conobbe, ormai anziano, il giorno che un tappettino di orecchini e braccialetti si aprì accanto alla sua valigia. Diagne, ricordando il suo vecchio amico, lo chiama ancora "babbu". Se siete fortunati, le sere d’estate e sino a novembre inoltrato, nelle feste che si rincorrono da Santa Maria Navarrese a Tonara, non è difficile incappare nel suo banco di libri: ne ha di bellissimi.


 Antoni Cuccu. Fotogramma tratto da "La valigia di Tidiane Cuccu", di Antonio Sanna e Umberto Siotto, ArKaosfilm, 2009.

7 aprile 2011

Quarto passo

«"Emigro. Vado a cercare lavoro."
"Cosa sai fare?"
"… nulla."
"Almeno sei onesto. Ma non sei buono neppure come operaio. Troppo magro. Scheletrico, non si vede un muscolo. Scommetto che soffri spesso di diarrea, tutti noi magri soffriamo spesso di diarrea, ma ci sono magri utili e magri da mandare al macello, per quello che servono alla società. Non ti ci vedo a spalare carbone in Belgio. Diventerai uno spacciatore piagnucolante in qualche locale equivoco di Amsterdam o di Barcellona, finché ti troveranno con una siringa in un braccio, in un vicolo, su un sacco della spazzatura, stecchito."
"Le auguro di aver torto."
"Non mi credi profeta?"
"Non ho motivi di dubbio ma non posso neppure giurarci."

"Ho previsto la caduta del dollaro con sei mesi di anticipo, nell'86, fossi stato ricco mi sarei arricchito ancora, invece così con quello che ho guadagnato mi son fatto la casa a Nettuno per quando vado in pensione. Quattro bagni. Avrò quattro bagni, da vecchio. Quasi come in nave. Ho previsto la vittoria del Torino nel derby e ho fatto tredici, una volta, molti anni fa, mi sono comprato la lavatrice nuova e ho ripianellato la casa dove abito, se ti ci vedo bazzicare attorno giuro che ti lancio i doberman. Sono un ottimo profeta, ci azzecco quasi sempre. Tu è quasi un miracolo che stai in piedi, forse non arriverai neppure ad Amsterdam, ti conviene confessare e farti qualche annetto di galera, mangi e bevi a spese dello Stato, ti rimetti fisicamente, fai un po' di pettorali, se diventi onesto potrai andare a spalare carbone in Belgio. E potresti pure guadagnarci: mettiamo il caso che tu conosca qualche famoso uomo politico o magnate di quella vostra isola di merda, tuo amico di stravizi, allora staresti a cavallo, un buon pentimento con chiamata in correo vale un pacchetto di dollari e una galera dolce dolce e breve ch'è quasi un albergo."

"Mi dia il tempo di commettere un reato e penso alla sua offerta."
"Formale berbenista, chi cazzo ti credi di essere soltanto perché non ho prove? Se mi rompi i coglioni trovo le prove e ti mando a sudare a Rebibbia."
"Perché?"
"Ricorda quello che ti dico: un passo falso, uno solo e finisci male. Ti conosciamo e ci siamo rotti i coglioni di gente come te."
"Chi?"
"Noi. La legge. E che minchia sono i trimpanus?"
"Tamburi di pelle di cane morto d'inedia, molto antichi."
"Mi vuoi sfottere, a me?"
Ruggero si sente preso per lo zaino e sollevato in alto, agita le gambe a vuoto, Una forza lo solleva e lo porta fino a una panca dove lo lascia cadere come un sacco di letame.

Ruggero tremante fa fatica a sollevarsi.

Il mare è pacato, quasi senza onde. Il comandante è sparito. Non c'è più nessuno. Sul ponte di comando hanno spento i fari. Ed è buio nel buio.

Silenzio. Il ronfare della nave fa parte della notte, non si sente più.

Il respiro di Ruggero Gunale si allunga. Bagliori ogni tanto dietro le palpebre.»

Sergio Atzeni, Il quinto passo è l'addio, Arnoldo Mondadori, Milano 1995, pp. 159-161.

6 aprile 2011

Janìle


Su janile 'e homines e 'eminas chi nde colant su mare in chirca 'e una patria prus galana de cussa inùve sun naschìos, ma chi accattan solu unu janìle chi si nat morte. 
(El destino de hombres y mujeres que cruzan el mar en busca de un lugar más acogedor de la patria, como las golondrinas, pero sólo hay un destino que se llama muerte.)
Ho tradotto – spero non troppo maldestramente – il mio sardo in spagnolo, per mostrare come, in entrambe le lingue, le parole destino e destinazione si dicano in egual modo: janìle, nell'una, destino nell'altra. La seconda accezione del sardo e dello spagnolo, è quella su cui deve concentrarsi la nostra attenzione.  
(Reposu appent sos traballos tuos, frade.)

5 aprile 2011

Rundines

Sas benennidas siedas rundines a domo mia.
Paolo Mossa (Bonorva, 1821-1892)


Cala Cipolla (Chia)

4 aprile 2011

Agenzie di viaggi

"Nel 2004 The Guardian diede notizia di una ricerca condotta dall’università di Plymouth che stimava in 4000 l'anno le vittime delle migrazioni via mare in tutto il mondo, metà delle quali sulle rotte verso l'Italia e la Spagna. All'epoca, dunque, le vittime 'europee' a partire dal 1996, cioè dall'entrata in vigore del trattato di Schengen, erano stimate in ventimila, a fronte di 200.000 (fonte: ministero dell'interno italiano) persone giunte via mare nel nostro territorio. Che significa (se attribuiamo alle rotte spagnole metà delle vittime) un morto annegato ogni venti persone in Italia via mare."
Giovanni Maria Belluoggi.


Le convenzioni internazionali e la Costituzione obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2) ma ci sono nazioni – come la nostra – che misconoscono tali obblighi e non hanno più alcun rispetto per le antiche leggi del mare. Come già ricordato qui.

(Grazie ad Alfredo Bini per l'immagine.)


15 novembre 2010

Rondini

Vassili era tornato a Nascar poco tempo prima di Franzisca. Aveva riaperto la vecchia casa ereditata da tzia Anghéla, una lontana parente morta di vecchiaia. La donna, durante la sua lunga vita, aveva preso la mania di conservare la carta stagnola che avvolgeva i cioccolatini, e con essa decorava altarini e nicchie che puntellavano le pareti della bicocca così che la visione d'insieme – col senno di poi – sembrava un altare messicano.
Entrato in possesso della casa, il ragazzo intonacò muri e soffitti con la calce viva, appese un po' ovunque i curiosi vestiti acquistati nei mercati di terre lontane, collocò nelle nicchie scatole di ambra e d’ottone ricolme di gioielli berberi, pakistani, persiani e prese a venderli ai ragazzi di Nascar scontenti delle fogge proposte dai mercanti del luogo.
Nella casetta si raccontava spesso di quegli altri mondi, la sera, quando il negozio chiudeva, Vassili accendeva gli incensi, peparava bevande speziate o tè verde, per i ragazzi, per Franzisca.
Aveva modi dolci e tutto intorno era calmo. In realtà, sotto la sua apparente aria pacifica, Vassili celava un animo duro come pietra di sale, rivelandosi solo allorquando si parlava di Barbarìa. Avrebbe imbiancato con la calce viva l’intero borgo di Nascar, fosse stato possibile, e buttato fuori i suoi abitanti.
La pietra di talco, che ancora si estraeva dalle miniere nascaresi, aveva tracciato nel cuore e nella mente un solco dolente che si riapriva ogni volta, a distanza di poche settimane dal ritorno dai suoi viaggi. L’unico modo di abitare il luogo era vivere circondato dalla chincaglieria portata dalle terre lontane dove andava a cercare se stesso.
Ritornò a Nascar per un'ultima volta nell’anno che Franzisca si scervellava pensando a un modo diverso di abitare le isole. 
L’anno che decise il suo destino o meglio: la sua destinazione
Vassili vendette quel che restava dei gioielli e le ultime stole del Madagascar; le disse: – Vieni con me. – Ma ripartì da solo e non tornò mai più.

Pena cantada a boche lena
ancas chi ballan e non treman
prenda rujada in sa peléa
prenda chi truncat tropéa.

Andarono via quasi tutti. I senza terra, i contaminati, gli altezzosi, i laureati, quelli senza fantasia, quelli con troppa fantasia. I migliori. E quasi più nessuno ritornava.
Franzisca declamava sottovoce: – Giorni d’inverno trucioli, il mio amico con gli occhi rossi, segue il funerale del ghiaccio, e io sono geloso del morto.
La madre la osservava ignara e tranquilla: – È la febbre che esalta e la fa languire.
Inverno. La stanza era piena di musica, di luce e del folle desiderio di non essere più da nessuna parte. Fuori, la piazza dell’antico convento e il paese tutto bianco. Contro la finestra batteva il solo vero re dell’isola, quel vento forte che ti cerca ovunque, stana e costringe a danzare sui pensieri.
Febbre. Parole gialle. Le nuvole girando scappavano.
– Portatemi via.
Il corpo non era più al sicuro. La casa traballava. Si è mai vista una casa natia diversa da un nido?
La madre sciolse un’aspirina in mezzo bicchere d’acqua.
A mezzogiorno, quando l’assenza di ombre gettò sulle cose una insopportabile luce, Franzisca prese il volo.

3 novembre 2010

Meig

Benevennidas siades rundines in domo mia.


Il dono che ogni immigrato ci fa è prima di tutto la sua storia. Forse è per questo che la radice del termine migrazione, "meig", contiene il concetto di scambio di doni. 


 Federico Greco, Voci migranti, 2010.