Vassili era tornato a Nascar poco tempo prima di Franzisca. Aveva riaperto la vecchia casa ereditata da tzia Anghéla, una lontana parente morta di vecchiaia. La donna, durante la sua lunga vita, aveva preso la mania di conservare la carta stagnola che avvolgeva i cioccolatini, e con essa decorava altarini e nicchie che puntellavano le pareti della bicocca così che la visione d'insieme – col senno di poi – sembrava un altare messicano.
Entrato in possesso della casa, il ragazzo intonacò muri e soffitti con la calce viva, appese un po' ovunque i curiosi vestiti acquistati nei mercati di terre lontane, collocò nelle nicchie scatole di ambra e d’ottone ricolme di gioielli berberi, pakistani, persiani e prese a venderli ai ragazzi di Nascar scontenti delle fogge proposte dai mercanti del luogo.
Nella casetta si raccontava spesso di quegli altri mondi, la sera, quando il negozio chiudeva, Vassili accendeva gli incensi, peparava bevande speziate o tè verde, per i ragazzi, per Franzisca.
Aveva modi dolci e tutto intorno era calmo. In realtà, sotto la sua apparente aria pacifica, Vassili celava un animo duro come pietra di sale, rivelandosi solo allorquando si parlava di Barbarìa. Avrebbe imbiancato con la calce viva l’intero borgo di Nascar, fosse stato possibile, e buttato fuori i suoi abitanti.
La pietra di talco, che ancora si estraeva dalle miniere nascaresi, aveva tracciato nel cuore e nella mente un solco dolente che si riapriva ogni volta, a distanza di poche settimane dal ritorno dai suoi viaggi. L’unico modo di abitare il luogo era vivere circondato dalla chincaglieria portata dalle terre lontane dove andava a cercare se stesso.
Ritornò a Nascar per un'ultima volta nell’anno che Franzisca si scervellava pensando a un modo diverso di abitare le isole.
L’anno che decise il suo destino o meglio: la sua destinazione.
Vassili vendette quel che restava dei gioielli e le ultime stole del Madagascar; le disse: – Vieni con me. – Ma ripartì da solo e non tornò mai più.
Pena cantada a boche lena
ancas chi ballan e non treman
prenda rujada in sa peléa
prenda chi truncat tropéa.
Andarono via quasi tutti. I senza terra, i contaminati, gli altezzosi, i laureati, quelli senza fantasia, quelli con troppa fantasia. I migliori. E quasi più nessuno ritornava.
Franzisca declamava sottovoce: – Giorni d’inverno trucioli, il mio amico con gli occhi rossi, segue il funerale del ghiaccio, e io sono geloso del morto.
La madre la osservava ignara e tranquilla: – È la febbre che esalta e la fa languire.
Inverno. La stanza era piena di musica, di luce e del folle desiderio di non essere più da nessuna parte. Fuori, la piazza dell’antico convento e il paese tutto bianco. Contro la finestra batteva il solo vero re dell’isola, quel vento forte che ti cerca ovunque, stana e costringe a danzare sui pensieri.
Febbre. Parole gialle. Le nuvole girando scappavano.
– Portatemi via.
Il corpo non era più al sicuro. La casa traballava. Si è mai vista una casa natia diversa da un nido?
La madre sciolse un’aspirina in mezzo bicchere d’acqua.
A mezzogiorno, quando l’assenza di ombre gettò sulle cose una insopportabile luce, Franzisca prese il volo.
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