12 novembre 2010

Per sua fortuna

Dall’intervista concessa da Roberto Bolaño a Raul Schenardi, alla fiera del libro di Torino (maggio 2003), a due mesi dalla morte dello scrittore.*

CORTÁZAR, GLI SCRITTORI E L’APPARTENENZA POLITICA
Appartengo a una generazione cresciuta leggendo Cortázar a diciassette anni, e in un certo momento incarnava il punto più alto cui si potesse arrivare. In modo un po' irrazionale, perché non c'è mai un "punto più alto", e non è nemmeno necessario arrivare a un punto più alto, ma siccome eravamo giovani, e ai giovani si consentono queste esagerazioni, Cortázar rappresentava il massimo cui potevamo aspirare. Col tempo il mio autore preferito in lingua spagnola è diventato Borges. Cortázar ora è il secondo, diciamo che continuo ad amarlo e a leggerlo con grande piacere. Io non sono mai stato d'accordo con la falsa dicotomia fra il Cortázar autore di racconti e il romanziere. Io penso che se c'è stato qualcuno al mondo che sapeva come strutturare un libro, dal punto di vista teorico, era Cortázar. Ne sapeva molto di più di García Márquez, che scrive quasi intuitivamente, soprattutto se paragonato a Cortázar, molto più di Donoso… Vargas Llosa, c'è stato un momento in cui aveva un senso della struttura più o meno chiaro, ma al livello di Cortázar nessuno. E del resto uno scrittore non può mai tentare di scrivere un romanzo o un racconto “alla maniera di…”, anzitutto perché in qualche misura ciò implica un parricidio, e io non ho mai visto Cortázar come un padre, tutt'alpiù come una specie di fratello maggiore, nonostante la grande differenza di età. Lui aveva la virtù della gioventù permanente, dell’energia permanente, e anche dell'ingenuità permanente. Io l’ho conosciuto quando avevo 22 anni, in Messico, e già allora non ero d'accordo con molte sue posizioni politiche, soprattutto per quanto riguarda Cuba, o per quella che Cortázar riteneva dovesse essere la posizione dello scrittore di fronte ai compagni di una determinata lotta. Io credo che uno scrittore non debba chiedere il permesso a nessuno per scrivere, tanto meno a dei militanti, che di solito sono quelli che ne sanno meno di queste cose. Ma lui era molto impegnato nella lotta politica, e oltre tutto leale nei confronti del suo impegno – cosa che mi sembra degna di lode –, e quindi aveva di questi problemi, che io invece non ho mai avuto, anzitutto perché dai pochi gruppi di sinistra nei quali ho militato sono stato cacciato. Per mia fortuna.

SCRIVERE POESIA
La poesia nei Detectives è fondamentalmente la metafora della fragilità e della portatilità della letteratura. Non c'è arte più facile – solo all'inizio, dopo diventa la più difficile di tutte – che scrivere una poesia, che fare poesia. Ricordo che a quel tempo in qualche ambiente circolava addirittura l'idea che la poesia potevano scriverla anche quelli che non sapevano scrivere, perché bastava mettere giù parole in libertà. La poesia d'avanguardia era molto di moda e si associava spesso all'idea di cambiare la vita e di cambiare vita, e per me in fondo la poesia – perlomeno come la vedevo all'epoca in cui ho scritto I detectives, è già passato del tempo – è una metafora della fragilità. Una fragilità assoluta. Gente che non solo dal punto di vista letterario, ma nemmeno da quello economico, non aveva futuro, e si aggrappava alla poesia, e faceva bene a farlo… Però aggrapparsi alla poesia durante un naufragio è come aggrapparsi al tappo di una bottiglia di champagne: non ti terrà a galla. La poesia poi è un'arte portatile: per leggere un romanzo servono tempo e una serie di comodità minime, mentre un sonetto puoi leggerlo in mezzo minuto. Altro problema è capirlo. Così, per me la poesia quando scrivevo I detective era la porta d'ingresso nell'ignoto, e in quella materia sconosciuta, probabilmente, stavo aspettando la vera poesia, ma anche la porta d'ingresso stessa era poesia, una poesia bastarda, poco rigorosa, esagerata…

LE RADICI NELLA TRADIZIONE LETTERARIA LATINOAMERICANA E I DEBITI CON LE LETTERATURE NORDAMERICANA ED EUROPEA
Per essere sinceri, io, modestamente, come diceva Vittorio Gassman, ho letto moltissimo, e da molte letture ho tratto profitto. In questo senso ho debiti nei confronti di parecchie letterature. Non credo che ci sia un'influenza diretta di quella nordamericana, ma sicuramente c'è un'influenza che riguarda di fatto tutti gli scrittori latinoamericani e che proviene dai due rami fondamentali del romanzo nordamericano, Melville e Twain. I detective ha senz'altro un debito con Mark Twain. Belano e Lima non sono altro che una trasposizione di Huckleberry Finn e Tom Sawyer. È un romanzo che scorre secondo un moto costante, che è il Missisippi. Insomma, il mio debito con Twain è enorme, anche perché è un autore che amo moltissimo. Ho letto molto anche Melville, e mi affascina. In effetti, per civetteria, preferirei credere di essere più in debito con Melville che con Twain, ma sfortunatamente penso di dovere di più a Mark Twain. Melville è un autore apocalittico… Twain è il giorno e Melville la notte, e la notte impressiona sempre molto di più. Ma per quel che riguarda la letteratura nordamericana moderna, la conosco poco e male. La conosco abbastanza fino agli scrittori della generazione precedente a Bellow. Updike l'ho letto abbastanza, ma non so perché lo facessi, sicuramente era un atto masochista, perché ogni pagina di Updike mi porta sull'orlo dell'isteria. Mailer mi piace più di Updike, anche se ritengo che come scrittore, come prosista, Updike sia più solido. Credo che gli ultimi scrittori nordamericani che ho letto a fondo e che conosco bene siano quelli della "generazione perduta": Hemingway, Faulkner, Scott Fitzgerald, Thomas Wolff. Mi sento molto più in debito, in qualche misura, con gli europei, nel senso che le mie prime letture sono state di poesia e io leggevo soprattutto poeti europei, e passare dalla poesia europea alla narrativa europea è stato molto facile.

SUL CONCETTO DI “SCRITTORE NAZIONALE”
Io credo che sia soprattutto per paura che García Márquez si vede come il più grande scrittore colombiano di tutti i tempi, o Vargas Llosa come il miglior scrittore peruviano. Tutti gli scrittori latinoamericani, e penso anche gli spagnoli, in fondo hanno molta paura e cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem. Io non ho mai avuto paura della morte e inoltre non credo nel pantheon. Guarda, quando finisce è finita e non resta niente, perciò io sto con Borges quando disse: “Dopo la morte, verrà l'oblio”, e molte teste di cazzo gli dicevano: “Ma no, Maestro, dopo la sua morte resteranno i suoi libri”. Lui li ascoltava e doveva pensare: guarda che branco di imbecilli! Perché lui alludeva all'oblio nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà, l'oblio è un destino comune di tutto quanto, non solo degli esseri umani, e in questo senso gli scrittori latinoamericani che si pongono sempre questo obiettivo che sta fra il clericalismo e la vigliaccheria, be', cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem, e il modo migliore per farlo è diventare lo scrittore nazionale di un paese. Io invece credo nella povertà intrinseca dell'essere umano. Un animale come noi, provvisto di viscere e muscoli, pochi, ossa debolissime, privo di esoscheletro... avere lo scheletro dentro invece che fuori mi sembra una cazzata assoluta... Guarda, si muore ed è finita, fanculo, non credo nel pantheon degli uomini illustri, e non voglio essere lo scrittore nazionale di nessun posto, e in questo senso non mi hanno mai preoccupato la nazionalità o cose del genere. L'unica cosa di cui mi preoccupo quando scrivo è di salvaguardare una certa verosimiglianza negli idiomi che impiego. Voglio dire: quando parla un peruviano dev'essere un peruviano che sta parlando, e quando parla un messicano o un centroamericano dev'essere un messicano o un centroamericano.
* Titoletti e suddivisione in paragrafi sono mieiPer la lettura integrale dell’intervista invio all’Archivio Bolaño.

LA BATTAGLIA FUTURA

Trailer del documentario "La battalla futura", in programma alla settimana dell'autore alla Casa de las Americas di Madrid (dal 23 novembre 2010), quest'anno dedicata a Roberto Bolaño. Fontequi.

2 commenti:

http://rassegnastampabolano.blogspot.com/ ha detto...

L'importanza di questa intervista, pubblicata su pulp libri nel 2003 e ignorata per anni e sconosciuta ai più, comincia ad essere riconosciuta anche in America Latina. Bolano non concedeva mai interviste se non in forma scritta, al contrario di questa.
Proprio in queste settimane è stata pubblicata da uno dei più importanti siti latinoamericani dedicati a Bolano
http://garciamadero.blogspot.com/2010/11/bolano-en-turin.html

che è riuscito perfino a procurarsi presso la casa editrice spagnola Anagrama una foto che ritrae Bolano e raul Schenardi.
carmelo

bianca ha detto...

Non ho ritenuto di dover dare l'informazione (importante) sulla modalità dell'intervista rilasciata eccezionalmente non in forma scritta preferendo – come faccio solitamente – inserire nel post il link della fonte originale, dove la si può leggere non semplicemente "a specchietto". Piuttosto credo sia interessante evidenziare la preferenza dello scrittore per la forma scritta anche per quanto riguardava le interviste. Da qualche parte c'è la sua motivazione? Quel che intuisco non mi basta...
Grazie di tutto ai due Archivio B.