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18 settembre 2016

Possiamo raccontare la storia

«Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo, doveva assolvere un compito difficile, andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione, andò nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non sappiamo più dire le preghiere, ma conosciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse e Rabbi Israel di Rischin dovette anch'egli misurarsi con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E, ancora una volta, questo bastò.» 
Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. it. di G. Russo, Einaudi, Torino 1993, p. 353.

La citazione, in realtà, è la quarta acqua del bollito: l'ho trovata nelle prime pagine di un bellissimo saggio di Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto (Nottetempo, 2014), in cui il filosofo invita a leggere il conciso e perfetto racconto chassidico come un'allegoria della letteratura. Ma come ogni narrazione mistica che si rispetti, a me sembra che possa toccare anche altri registri, infatti lo conservo qui, perché sicuramente mi tornerà in mente per altri mumble.
Letizia Battaglia - Pasolini

22 maggio 2016

A coro in manu

Questo componimento è di Forico Sechi di Nughedu San Nicolò paese di Francesco Masala e della dolcissima Franca C., maestra a Ozieri, amica mia trascritta nella variante del mio sardo e al femminile. Una poesia a cui sono affezionata anche perché mi riporta al periodo in cui scoprii tanti poeti minori dell'Otto e Novecento, mai sentiti nominare sin lì, e soprattutto mi porta il ricordo del primo laboratorio di lettura espressiva che, da operatrice culturale alle prime armi, giovanissima, condussi in biblioteca per un gruppo di vivaci bambine di Orani (ricordo Anna Nivola, Karin Viola e Ambra Coi, in particolare), che poi recitarono alcune poesie in sardo e in italiano alla cosiddetta "Festa per gli anziani". Era l'estate del 1984; l'amministrazione comunale inaugurava alcuni nuovi servizi, tra cui l'assistenza domiciliare per le persone anziane che vivevano ormai da sole. Un'ottima iniziativa, ma anche il segno di come tutto nella comunità andava cambiando, nel bene e nel male. Non aveva mai smesso di farlo, in realtà, però del cambiamento ci sono segnali più forti e chiari di altri, diciamo. Ora però sto divagando, e questo non è un post di sociologia.

– Fra', mi parli di Forico Sechi?
– Sì, certo... [e sorride] Mastru Foricu era falegname e intagliatore, era nato nel 1911, la data di morte non la ricordo, ma te lo faccio sapere... Scrivile le date, eh, perché è un poeta meraviglioso, passato nel dimenticatoio, anche in rete non si trova quasi nulla. Pensa che è considerato un innovatore della poesia in sardo a taulinu: ha coniugato la metrica rigida della poesia sarda "classica" con i mezzi linguistici della poesia moderna. A lui si sono ispirati molti altri poeti. Pensa che, negli anni '70, venivano qui alcuni professoroni dell'università di Sassari per discutere di poesia con lui, un vero cenacolo poetico con un falegname che aveva fatto solo qualche anno di scuola elementare. È una bella storia, no?
– Bella, sì, e penso, penso... Però, forse, "professoroni" è meglio evitarlo, a scanso di equivoci.
– No, no, io lo dico veramente! [E ride, e rido anch'io.]
Fammi avere la data di morte, per piacere, intanto io continuo a raccontare...

Alla prima Festa degli anziani di Orani, "A coro in manu" di Forico Sechi di San Nicolò la disse (disse, nota bene, non recitò) a memoria Ambra, una bambina di nove anni, bellissima (cosa lo dico a fare), alta come il padre Lorenzo, occhi neri e grandi come la sua mamma nuorese. La scelsi, la poesia, per la musicalità dei primi versi soprattutto, per la semplicità, perché nominava con affetto la genitorialità e perché trasmetteva fiducia in un sentimento totalmente desueto che credo si possa ancora chiamare bontà. Basta. Ora diche un poesie.

"A coro in manu", naraiat babbu
"A coro in manu", naraiat mama
"Depes esser chin tottu a coro in manu".
E in sa vida mia,
in dolu e in allegria
semper cussu cussizu ap'ammentau.
Peri si in fittianu
s'esser a coro in manu
m'at penas e iffados procurau.

Eppuru so cuntenta,
chin tottu sos iscaddos chi apo tentu,
chi fidele a su narrer sia istada.
Ca sa die chi ando pro no torrare,
tand' apo a narrer a tottus:
custu liberu serro de sa vida
chene rancores; sa die est finia,
ma deo so cuntenta. E si a lontanu
apo de andare, dio cherrer
andare che a semper a coro in manu. 


By Letizia Battaglia