26 gennaio 2011

Vita e destino

In quella babele di lingue non ci si capiva, ma si era comunque uniti da un medesimo destino. Esperti di fisica molecolare e di antichi manoscritti dividevano il pancaccio con pastori croati e contadini italiani che non sapevano scrivere nemmeno il proprio nome. Chi, a suo tempo, era solito ordinare la colazione al cuoco o angustiava la governante con la propria inappetenza, ora andava a lavorare fianco a fianco con chi mangiava solo baccalà, l'uno e l'altro in ciabatte di suole di legno, sbirciando angosciati l'arrivo del  Kostträger, il "kostrìga", come lo chiamavano gli inquilini russi delle baracche, il portasbobba.
Nelle sorti della gente del lager la somiglianza nasceva dalla differenza. Un giardino lungo una polverosa strada italiana, il cupo fragore del Mare del Nord, un coprilampada di pergamena arancione in casa di un dirigente alla periferia di Bobrujsk: il loro passato poteva avere poco in comune, ma non c'era detenuto per cui non fosse meraviglioso.
E più era stata dura la vita prima del lager, più ci si ostinava a mentire. Una menzogna priva di finalità pratiche che era piuttosto un inno alla libertà, perché fuori dal lager non si poteva essere stati infelici.
Vasilij Grossman, Vita e destino, traduzione di Claudia Zanghetti, Adelphi, Milano 2010, p. 15. 
 

Nessun commento: