In quella babele di lingue non ci si capiva, ma si era comunque uniti 
da un medesimo destino. Esperti di fisica molecolare e di antichi 
manoscritti dividevano il pancaccio con pastori croati e contadini 
italiani che non sapevano scrivere nemmeno il proprio nome. Chi, a suo 
tempo, era solito ordinare la colazione al cuoco o angustiava la 
governante con la propria inappetenza, ora andava a lavorare fianco a 
fianco con chi mangiava solo baccalà, l'uno e l'altro in ciabatte di 
suole di legno, sbirciando angosciati l'arrivo del  Kostträger, il "kostrìga", come lo chiamavano gli inquilini russi delle baracche, il portasbobba.
Nelle
 sorti della gente del lager la somiglianza nasceva dalla differenza. Un
 giardino lungo una polverosa strada italiana, il cupo fragore del Mare 
del Nord, un coprilampada di pergamena arancione in casa di un dirigente
 alla periferia di Bobrujsk: il loro passato poteva avere poco in 
comune, ma non c'era detenuto per cui non fosse meraviglioso.
E
 più era stata dura la vita prima del lager, più ci si ostinava a 
mentire. Una menzogna priva di finalità pratiche che era piuttosto un 
inno alla libertà, perché fuori dal lager non si poteva essere stati 
infelici.
Vasilij Grossman, Vita e destino, traduzione di Claudia Zanghetti, Adelphi, Milano 2010, p. 15.  

 
 

 

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