«Fuori
dall'Italia, insomma, ho passato oramai più della metà della mia
vita […] e l'ho amato, quel fuori, di un amore intenso, l'ho fatto
mio dentro, pur via via convincendomi che nessun luogo, tanto meno
quello in cui per caso son nato, Roma, era mio, o meglio, che tutti i
luoghi lo erano, e anzi quelli del fuori diventato dentro più del
mio dentro originario, proprio perché in qualche modo eletti,
scelti. Che vuol dire sentirsi italiani all'interno di un tale
itinerario?
La
lingua, e più particolarmente come la si scrive. […]
Mischiando
Ortega y Gasset e Proust, aggiungo: non c'è miglior scuola di
scrittura che quella di doversi giostrare, per vivere, tradursi, fra
diverse lingue; o ancor più radicalmente: sempre, al di là e contro
ogni retorica della – inesistente – purezza, l'estraniamento
agisce al cuore di chiunque pensa e scrive, anche dentro la propria
lingua: sempre strappiamo senso, traduciamo, reinventiamo una lingua
a partire da un'altra, anche se per ventura lavoriamo con una
soltanto. Ed è un lavoro mai finito.»
Giuseppe Samonà, 12 apostati 12 critici dell'ideologia italiana, Enrico Damiani Editore, [s.l.] 2015, pp. 111-112.
«Eravamo
d’accordo perché le lingue perdano il loro orgoglio ed entrino
nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi
folli, dei trasalimenti che li rendono disponibili a tutte le lingue
del mondo: eravamo d’accordo perché una traduzione non sia una
chiarificazione, ma diventi la messa a disposizione di un elemento
nella diversità del mondo in una lingua che la accolga. Eravamo
d’accordo perché una traduzione non vada da una pura a un’altra
lingua pura, ma organizzi l’appetito reciproco delle lingue
nell’ossigeno impetuoso del linguaggio. Eravamo d’accordo perché
una traduzione non tema più l’intraducibile, ma annoveri e fecondi
tutti gli intraducibili possibili. Eravamo d’accordo perché una
traduzione onori anzitutto l’irriducibile opacità di ogni testo
letterario; perché, in questo mondo che ha infine una possibilità
di risvegliarsi, il traduttore diventi il pastore della Diversità.
Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e
di diversità. Egli capiva ciò che io dicevo. Lo sapeva già.»
Patrick
Chamoiseau, Pour Sergio, in La grotta della vipera, n. 72/73,
1995, pp. 22-23.
1 commento:
Grazie per averci fatto scoprire Pour Sergio...
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