Di colore verde, custodito nella baracca accanto ai rastrelli e alle pale, prendeva vita allorché lo si riempiva d'acqua dello stagno, e poi dal suo beccuccio ecco riversarsi un'abbondante pioggia sulle aiuole rinsecchite, in un gesto - e lo sentivamo - di grande benignità verso le piante. Chissà, però, se l'annaffiatoio avrebbe avuto tanta parte fra i nostri ricordi qualora non fossimo stati educati a osservare le cose. Perché malgrado tutto, lo siamo. I nostri pittori imitano di rado gli olandesi e le loro nature morte, ma la fotografia aiuta a prestare attenzione ai particolari, e i film ci hanno insegnato che gli oggetti sullo schermo partecipano delle vicende dei personaggi e devono perciò essere notati. E poi ci sono i musei, dove vengono esposti quadri che celebrano non solo figure umane e paesaggi, ma anche una moltitudine di oggetti. L'annaffiatoio ha dunque tutti i presupposti per occupare una posizione ragguardevole nella nostra immaginazione. E chissà che proprio qui, nell'aggrapparsi a forme dai contorni netti, non sia racchiusa una speranza di salvezza dal nulla e dal caos.
Czesław Miłosz, Il cagnolino lungo la strada, a cura di Andrea Ceccherelli, Adelphi, Milano 2002, p. 157.
Vetrina di un negozio di giocattoli. Bergen, estate 2009.
Bastano un paio di giorni di vacanza, lontana dalle corse di routine, e si solleva come un vento, a volte carico di foglie e sabbie arrivate qui da ogni dove, simili a quelle che puntualmente a primavera mi ritrovo a spazzare dagli anfratti del cortile di casa, a Cala G., dopo averla tenuta chiusa dalla fine dell'estate o, quando va bene, da Natale. Sabbia, anche rossa, e foglie secche che parlano del potente maestrale dell'inverno che riesce a raggiungere - per poi ritornare qui, dove nasce - luoghi a volte belli e facili da ricordare, altre solo immaginati, altre ancora impossibili.
La testa a riposo, come si suol dire, come il piccolo giardino poco calpestato, stanotte ha restituito una poesia di M. che non affiorava da secoli. La scrisse intorno ai nostri vent'anni, e mi piaceva. Stamattina, al risveglio, miracolosamente ricordando le sue atmosfere, mi è sembrata più bella di allora. Ho cercato la raccolta, intitolata semplicemente Poesie, l'ho trovata; si apre con una dedica: A B., con tracce rosse d'inchiostro, lungo lungo un sentiero, ecc., ecc.Vabbe', non è importante. La poesia che dicevo è questa:
indifferente ai mille modi e al tempo e quasi alle viole
che tardano a fiorire o al fascino
del negativo, alla buona tavola che ci rimane,
alle ricerche e all'ironia che sai
ben giocolare sul meraviglioso naufragio
dei nostri pensieri, io, ancora
sdegnoso
scortato da un branco di uccelli neri
come se già sapessero
...
[è lunghissima]
(in epilogo, ritrovati
a girare tranquilli
lo zucchero e il caffè e tu gli spiccioli
nella tasca destra come una scaramanzia
o un erotico accenno
ma involontario e poi servono sempre
nel pagare il conto
o da aneddoti
per stupire per altre mancanze. Ma lì
non hai sentito quel bacio
che t'è arrivato dal vento, quel rimorso
quel desiderio quando almeno uno
di noi con gli occhi le labbra a sorriso
dava dietro al riflesso fra i tavoli
sorpreso e benedetto
a quella luce
fra le reclames gli avanzi delle carte dei bicchieri?)
Puntualmente penso: "L'anno prossimo non mi fregate" e invece ecco: anche quest'anno mi trovo coinvolta nella macchina da guerra che le mie sorelle hanno attivato per stare tutti insieme, stanotte, nella grande casa di nostra madre.
Perché non ho mai il coraggio di portare un pacco bomba? Perché?
Mento. Spudoratamente mento. Borbotto solo per non dargliela vinta, ecco, ma ormai si sa che sono felice che stiamo un po' insieme, coi ragazzi che tornano dai quattro punti d'Europa per passare qualche giorno coi vecchi bacucchi di casa, quali ormai siamo, justement, ai loro occhi. Perché la vita è così, e del suo scorrere te ne accorgi soprattutto quando ti ritrovi in queste rare occasioni: i ragazzi sono cresciuti e hanno preso il nostro posto, c'è qualche nuovo bambino piccolissimo, e anche il vuoto lasciato da chi non c'è più è reso meno doloroso dalla loro presenza, ed è bello poterlo dire, indicare, con un sorriso.
Càpitano, a volte, dalle nostre parti certi tipi, ai quali non si può pensare senza un vero terrore anche se il giorno in cui li abbiamo conosciuti è lontano. Fa parte di questo genere di personaggi la moglie di un mercante, Caterina Lvovna Izmailova, che non cessò mai di recitare uno spaventevole dramma, per cui i signori della nostra nobiltà la chiamavano con il dolce nome di "Lady Macbeth del distretto di Mzensk".
Nikolaj Semënovič Leskov, Una Lady Macbeth del distretto di Mzensk, traduzione di Vittoria de Gavardo, Passigli, Firenze 1987, p. 15.
* * *
L'ho letto tutto d'un fiato il libro che dura quanto un viaggio in autobus da una parte all'altra della città, se avessi un autobus da prendere, attraversare una città, e non questi vicoli, da una piazza all'altra di una grande casa. Stanze. Un libro, quando lo bevi, vuol dire che funziona. La scrittura di Leskov resta potente, nonostante la traduzione. Ma non ho voglia di parlare di questo, sono in vacanza e la letteratura è - anche - un'occupazione faticosissima, come sa chi vi si immerge nella quotidianità e arriva alla sera sbucando dalle profondità dell'oceano. Insomma, non ne voglio parlare se non per esprimere un interrogativo, anzi: due. A prescindere dallo scrittore russo e dal suo racconto, scritto nel 1865, cosa spinge un uomo dalla penna d'oro a costruire personaggi femminili così squisitamente mortiferi? E cosa porta, invece, un altro, nel 2010, a consigliare con entusiasmo un libro così carino, un unico librino - uso il diminutivo di proposito perché sto parlando di un racconto dove i diminutivi abbondano - incentrato su una passione portatrice di morte? Ma così, come promemoria di una lettura curiosa, e anche per ringraziare, per quanto mi riguarda, in amicizia.
Oggi, per la prima volta in vita mia, sono entrata in un penitenziario per incontrare un folto gruppo di detenuti ("di massima sicurezza", come si dice) che hanno partecipato a un laboratorio di scrittura guidato da un amico scrittore, il quale mi ha chiamata a esaminare il prodotto finale: una settantina di componimenti poetici. Così ho incontrato i suoi allievi – insieme alla piccola giuria che ho presieduto, composta dal maestro e da un'altra persona del mestiere – per premiarne alcuni, ma scegliendo di menzionandoli tutti, perché ciscun loro scritto era terribilmente interessante, mai banale, almeno per noi che non viviamo in alcun modo quella speciale condizione esistenziale. Così, dopo un susseguirsi di cancelli che si aprivano per subito richiudersi alle nostre spalle con sordo rumore metallico, siamo entrati nella cappella del carcere, che ha un soffitto incredibilmente alto, a formare uno spazio conico impossibile da scaldare. L'aria era effettivamente gelida. I poeti ci aspettavano già seduti nelle bancate: composti, attentissimi. Un pomeriggio fatto di volti, sorrisi, risate (poche), facce chiuse, occhi bassi ed età, soprattutto età, che non dimenticherò facilmente. Ho voluto scrivere questo post per ricordare l'esistenza di uomini e donne invisibili che sostano da lungo tempo in una situazione di estremo dolore e alla quale alcuni di loro sono destinati per sempre. Voglio farne, di questo post, un inutile augurio a chi ho incontrato per il tempo di un pugno di parole scritte bene.
Come dentro
a una clessidra
di lucido cristallo,
simili a granelli di sabbia,
contavo gli sbagli della mia vita.
Li ho fatti scivolare
nel palmo della mano
finché il loro peso impietoso
schiacciava le mie dita.
("Nella mia vita" di G.P., primo componimento premiato)
Ci sono creature che sanno tutto ma non capiscono nulla. Altre che non sanno nulla ma capiscono tutto.
L'innata propensione affettiva verso le une e lo altre produce effetti concreti nella conformazione della propria esistenza. Il colore della soglia. Dalla stessa porta entra il dolore e la felicità, al cubo.
La Sardegna è storicamente una terra che produce mitologie e mitografie. Finiti i tempi delle osservazioni scientifiche alla Maurice Le Lannou, in cui la geografia dell’isola si “leggeva” come un libro di storia – essendo, appunto, l’isola piuttosto defilata dai processi proprio per le sue caratteristiche fisiche – è curioso constatare come ancora oggi, invece, alcuni fenomeni conservino, per così dire, una certa “fissità”.
sms ore 17:07 del 16/12/2010 "Libera, finalmente!!… Sarà pure che "è del mondo che sono figli, i figli", ma la mamma che li ha partoriti ne rivendica una percentuale non indifferente!!"
Lo sapevo che sarebbe stata una giornata importante. Proprio nel momento che Bondi esprime il suo "sentimento di mancanza di stima" a Bocchino e lo invita ad "andarsi a nascondere a Montecarlo", qui inizia a nevicare. Spegniamo la tv, andiamo fuori a respirare. Ciao, buon ritorno a casa.
Per fortuna nella casa di un'unica stanza che occupammo non c'era nessuna roccia affiorante. Ma con le cinque brandine dei capomastri e il pagliericcio in un angolo per i manovali, non restava quasi spazio per cuocere la pasta nel piccolo focolare d'angolo. Il lavoro era duro e le ore non passavano mai. Mi inventavo delle storie per sopportare meglio la noiosa ripetitività del mio compito: mescolare sabbia e calce. Quando il tempo era brutto i capomastri andavano all'osteria, si ubriacavano di vino a buon mercato discutendo fra loro, e proseguivano poi quelle dispute mentre giacevano sulle loro cigolanti brandine militari, coprendo di insulti le rispettive famiglie. In giornate come quelle noi manovali si veniva mandati a raccogliere legna per cuocere la pasta o a cercare asparagi selvatici da vendere per pochi soldi all'esportatore locale di prodotti sardi: agnellini, formaggi e maialini da latte. Vagabondare tra quelle rocce fantastiche in cerca di asparagi mi eccitava e mi divertiva. Ma il momento più felice fu il giorno che tornammo a Orani: indossare l'abito della domenica e indossare una camicia pulita, incontrare gli amici.
Il dottor Cusinu pagò i capomastri per il lavoro svolto a quella data e ci offrì un bicchiere del suo vino con un sorriso ipocrita. Il vino, la prospettiva dei giorni di vacanza, la buffa strada con le sue sculture spettrali, il bel tempo, tutto contribuiva al buonumore dei capomastri. Nessuno, vedendoci, avrebbe riconosciuto in noi la cupa processione di lavoratori di tre settimane prima, in marcia uno dietro l'altro come dei monaci. Traversando il fiume abbiamo riso, ci abbiamo buttato dei sassi e pisciato come bambini. Al nostro arrivo a Orani, diretti verso casa, le donne che stavano spazzando fuori dall'uscio smisero per un attimo, guardandoci passare: ci vedevano come una banda di pezzenti, mentre noi ci sentivamo degli eroi che avevano vinto battaglie.
Costantino Nivola, Memorie di Orani: con venticinque disegni dell'autore e un ritratto di Saul Steinberg; a cura di Aldo Buozzi, Milano, Scheiwiller, 1996, pp. 99-100.
Passava un giorno. Poi un altro. E un altro ancora. La miseria rendeva triste la gente di Dar-Sbitar. Da Aini, stavano com’erano sempre stati. C’era solo un po’ più di miseria. I bambini si reggevano un po’ meno solidamente sulle gambe. I volti, a casa, si scavavano, diventavano più grigi. Gli occhi di tutti, costantemente dilatati, avevano un lampo febbricitante. Eppure, cosa straordinaria, in città Omar incrociava esseri sorridenti, che stavano bene, sazi. Gioiosi nella disgrazia, nell’indigenza generale. Dovevano sicuramente scambiarsi delle occhiate tra loro quando nessuno li sorvegliava...
Mohammed Dib, La casa grande, traduzione di Gaia Amaducci, Epoché, Milano 2004, p. 133.
Oltre alla legge, declina anche il desiderio. Ma gli italiani, oltre a non riconoscere più alcun sistema di regole, non sanno neanche più desiderare. Un po' è il frutto dell'eccesso di consumismo degli anni passati. Due esempi per tutti: "Bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti" e "adulti coatti, più che desideranti, al sesto tipo di telefono cellulare". Possibilità ampliate anche dalla maggiore facilità di accesso al credito al consumo, cresciuto persino negli anni della crisi: +5,6 per cento nel 2008 e +4,7 per cento nel 2009, "mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009". "Forse aveva ragione chi profetizzava che il capitalismo avrebbe trionfato con la strategia del rinforzo continuato dell'offerta – osservano i ricercatori Censis – strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri". Ma il desiderio inappagato è una spinta formidabile, che invece in Italia adesso manca, o meglio, c'è ancora, c'è ancora, ma è "diventato esangue, senza forza".
(Da una lettura di Rosaria Amato del rapporto annuale Censis: qui.)
Mentre in Europa ci si sforzava di "esprimere" attraverso le strutture compositive come faceva la pittura, riuscendo in questo modo, sia pure con mezzi decorativi, ad organizzare lo spazio all'interno del quadro, gli americani – e Griffith in particolare – scoprivano la possibilità suggestive delle immagini nei loro rapporti reciproci: scoprivano cioè le virtù del montaggio.
L'unità dal punto di vista praticata sino al 1909 aveva avuto come principale conseguenza di dividere il "mondo del dramma" da quello dello spettatore. Al pari della ribalta, lo schermo separava come una lastra di vetro due mondi di natura diversa.
Il merito principale di Griffith fu di insorgere contro questo arbitrio. Pensando che la macchina da presa, molto maneggevole, permetteva di avvicinarsi o allontanarsi a piacere dai personaggi e di muoversi liberamente attorno ad essi, li fece agire in uno spazio che non era più limitato dalla stessa cornice della scena. Il campo poteva abbracciare uno spazio più o meno vasto a seconda della necessità dell'azione. Una stessa scena poteva quindi essere vista sia da vicino che da lonatno, secondo punti di vista che andavano dal campo totale al primo piano.
Come nota André Malraux: "È dalla visione in piani, cioè dall'indipendenza dell'operatore e del regista nei confronti della scena stessa, che nacque la possibilità d'espressione del cinema, che il cinema nacque come arte". Il montaggio, dunq...
Miiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii, che due...! Ehm, no, volevo dire: Jean Mitry, Storia del cinema sperimentale, Mazzotta, Milano, 1971, p. 18. Errata corrige: lonatno >>> lontano.
In programma: Primi assaggi dei cablo di Wikileaks (raccolti da Dust), già definito dalla critica più autorevole come "la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange".Se vuoi leggere una recensione mica male clicca qui.
– Uhm. Tanto lo so che alla fine del film ci legano alla sedia per il grosso dibattito. – Ma no, tranqua, è prevista… no! È già in corso una biccherata!
Non è la carta di un bacio Perugina – viene da qui, ed è una frase che mi piace (anche il disegnino mi piace) leggere in successione a un altro appunto dei quaderni di Bolaño che compare nel video: "Imposible escribir poemas. Estoy enamorado."
Non voglio spiegare la mia suggestione (ognuno legga come meglio crede); dico solo che l'ironia è una concreta possibilità di salvezza, non solo per la poesia.
Era inverno e scendeva la notte. Un vento gelido, che proveniva direttamente dall'Artico, soffiava sul mare d'Irlanda, spazzava Liverpool, sibilava attraverso la pianura del Cheshire (dove i gatti reclinavano le orecchie per il freddo, quando lo sentivano sbuffare nel camino) e, infilandosi attraverso il vetro abbassato, andava a colpire gli occhi dell'uomo seduto nel furgone Bedford. L'uomo non batteva ciglio. (1) Come si fa a non restare folgorati da un autore che inizia un romanzo in questo modo? Uno che si prende 414 caratteri per descrivere con precisione da climatologo l'arrivo di un soffio di vento sul viso di un uomo che aspetta non si sa cosa chiuso dentro un furgone nella notte?... Mi ricorda il prologo di The Big Leboski, tra l'altro. Insomma, mi è presa male: passata da Nada a Un piccolo blues(il secondo, Le petit bleu de la côte ouest, l'ho letto in lingua originale), con Posizione di tirosono al mio sesto Manchette nel giro di un mese, una passione trasmessami dallo zombi del cinemino, diciamo pure, che nel corso del tempo ha spesso citato in diversi post del suo blog lo scrittore francese.
Prima di restituirlo alla biblioteca dove l'ho preso in prestito, ricopio (operazione che mi dà gusto quando un libro mi è piaciuto) la nota biografica di Manchette posta in pagine non numerate alla fine dell'edizione Einaudi del 1981 di Posizione di tiro (1981 è la data del copyrigh, a onor del vero, perché l'anno di edizione in Einaudi non viene mai riportato a chiare lettere, cosa che – so per esperienza – puntualmente fa scervellare i bibliotecari catalogatori). Ah, la limpidezza!
"Nato nel 1942, Jean-Patrick Manchette è approdato alla scrittura del noir attraverso la traduzione di autori angloamericani. Mestiere che non abbandonò neanche dopo essere diventato uno scrittore affermato, traducendo tra gli altri Ross Thomas, Robert Rittel, Donald Westlake, Robert Bloch. Il processo di avvicinamento di Manchette al romanzo è passato comunque anche attraverso il cinema e la televisione, per i quali iniziò a scrivere sin dal 1966. Entrato in contatto con la "Série Noire" per una traduzione, pubblicò il suo primo romanzo nel 1971, Laissez bronzer les cadavres, scritto a quattro mani con Jean-Pierre Bastid, con cui aveva già collaborato alla realizzazione del film Salut les copines! nel 1967. Nello stesso anno Manchette pubblicò anche L'Affaire N' Gustro, lucida analisi dell'affare Ben Barka in cui l'autore, additando le responsabilità dello stato e della polizia, rese evidente il suo impegno politico. Dopo essersi imposto anche come critico e saggista, nel 1972 rivelò con il romanzo Nada, trasformato in film da Claude Chabrol l'anno seguente, il senso e le prospettive di tutta la sua opera. Il Nada del titolo è l'espressione cara a Hemingway che, filtrata attraverso John D. MacDonald, indicava le prospettive di tutta la sua opera. Dopo anni di intensa attività in cui Manchette adottò anche diversi pseudonimi scrivendo romanzi erotici, adattamenti a film o novelle per ragazzi, nel 1977 sospese la sua attività di scrittore alla ricerca di una nuova risposta ai rapporti tra forma e contenuto, di una limpidezza della scrittura che rendesse conto, nel linguaggio, della nuova realtà: con l'unica interruzione di questo Posizione di tiro, splendida risposta alla sua esigenza.
Vassili era tornato a Nascar poco tempo prima di Franzisca. Aveva riaperto la vecchia casa ereditata da tzia Anghéla, una lontana parente morta di vecchiaia. La donna, durante la sua lunga vita, aveva preso la mania di conservare la carta stagnola che avvolgeva i cioccolatini, e con essa decorava altarini e nicchie che puntellavano le pareti della bicocca così che la visione d'insieme – col senno di poi – sembrava un altare messicano.
Entrato in possesso della casa, il ragazzo intonacò muri e soffitti con la calce viva, appese un po' ovunque i curiosi vestiti acquistati nei mercati di terre lontane, collocò nelle nicchie scatole di ambra e d’ottone ricolme di gioielli berberi, pakistani, persiani e prese a venderli ai ragazzi di Nascar scontenti delle fogge proposte dai mercanti del luogo.
Nella casetta si raccontava spesso di quegli altri mondi, la sera, quando il negozio chiudeva, Vassili accendeva gli incensi, peparava bevande speziate o tè verde, per i ragazzi, per Franzisca.
Aveva modi dolci e tutto intorno era calmo. In realtà, sotto la sua apparente aria pacifica, Vassili celava un animo duro come pietra di sale, rivelandosi solo allorquando si parlava di Barbarìa. Avrebbe imbiancato con la calce viva l’intero borgo di Nascar, fosse stato possibile, e buttato fuori i suoi abitanti.
La pietra di talco, che ancora si estraeva dalle miniere nascaresi, aveva tracciato nel cuore e nella mente un solco dolente che si riapriva ogni volta, a distanza di poche settimane dal ritorno dai suoi viaggi. L’unico modo di abitare il luogo era vivere circondato dalla chincaglieria portata dalle terre lontane dove andava a cercare se stesso.
Ritornò a Nascar per un'ultima volta nell’anno che Franzisca si scervellava pensando a un modo diverso di abitare le isole.
L’anno che decise il suo destino o meglio: la sua destinazione.
Vassili vendette quel che restava dei gioielli e le ultime stole del Madagascar; le disse: – Vieni con me. – Ma ripartì da solo e non tornò mai più.
Pena cantada a boche lena
ancas chi ballan e non treman
prenda rujada in sa peléa
prenda chi truncat tropéa.
Andarono via quasi tutti. I senza terra, i contaminati, gli altezzosi, i laureati, quelli senza fantasia, quelli con troppa fantasia. I migliori. E quasi più nessuno ritornava.
Franzisca declamava sottovoce: – Giorni d’inverno trucioli, il mio amico con gli occhi rossi, segue il funerale del ghiaccio, e io sono geloso del morto.
La madre la osservava ignara e tranquilla: –È la febbre che esalta e la fa languire.
Inverno. La stanza era piena di musica, di luce e del folle desiderio di non essere più da nessuna parte. Fuori, la piazza dell’antico convento e il paese tutto bianco. Contro la finestra batteva il solo vero re dell’isola, quel vento forte che ti cerca ovunque, stana e costringe a danzare sui pensieri.
Febbre. Parole gialle. Le nuvole girando scappavano.
– Portatemi via.
Il corpo non era più al sicuro. La casa traballava. Si è mai vista una casa natia diversa da un nido?
La madre sciolse un’aspirina in mezzo bicchere d’acqua.
A mezzogiorno, quando l’assenza di ombre gettò sulle cose una insopportabile luce, Franzisca prese il volo.
Poi su FF arriva l'apasionada, con i suoi sottotitoli in italiano, e capisci con gratitudine che forse ne vale la pena affacciarsi di tanto in tanto in quella strana landa...
Dall’intervista concessa da Roberto Bolaño a Raul Schenardi, alla fiera del libro di Torino (maggio 2003), a due mesi dalla morte dello scrittore.*
CORTÁZAR, GLI SCRITTORI E L’APPARTENENZA POLITICA
Appartengo a una generazione cresciuta leggendo Cortázar a diciassette anni, e in un certo momento incarnava il punto più alto cui si potesse arrivare. In modo un po' irrazionale, perché non c'è mai un "punto più alto", e non è nemmeno necessario arrivare a un punto più alto, ma siccome eravamo giovani, e ai giovani si consentono queste esagerazioni, Cortázar rappresentava il massimo cui potevamo aspirare. Col tempo il mio autore preferito in lingua spagnola è diventato Borges. Cortázar ora è il secondo, diciamo che continuo ad amarlo e a leggerlo con grande piacere. Io non sono mai stato d'accordo con la falsa dicotomia fra il Cortázar autore di racconti e il romanziere. Io penso che se c'è stato qualcuno al mondo che sapeva come strutturare un libro, dal punto di vista teorico, era Cortázar. Ne sapeva molto di più di García Márquez, che scrive quasi intuitivamente, soprattutto se paragonato a Cortázar, molto più di Donoso… Vargas Llosa, c'è stato un momento in cui aveva un senso della struttura più o meno chiaro, ma al livello di Cortázar nessuno. E del resto uno scrittore non può mai tentare di scrivere un romanzo o un racconto “alla maniera di…”, anzitutto perché in qualche misura ciò implica un parricidio, e io non ho mai visto Cortázar come un padre, tutt'alpiù come una specie di fratello maggiore, nonostante la grande differenza di età. Lui aveva la virtù della gioventù permanente, dell’energia permanente, e anche dell'ingenuità permanente. Io l’ho conosciuto quando avevo 22 anni, in Messico, e già allora non ero d'accordo con molte sue posizioni politiche, soprattutto per quanto riguarda Cuba, o per quella che Cortázar riteneva dovesse essere la posizione dello scrittore di fronte ai compagni di una determinata lotta. Io credo che uno scrittore non debba chiedere il permesso a nessuno per scrivere, tanto meno a dei militanti, che di solito sono quelli che ne sanno meno di queste cose. Ma lui era molto impegnato nella lotta politica, e oltre tutto leale nei confronti del suo impegno – cosa che mi sembra degna di lode –, e quindi aveva di questi problemi, che io invece non ho mai avuto, anzitutto perché dai pochi gruppi di sinistra nei quali ho militato sono stato cacciato. Per mia fortuna.
SCRIVERE POESIA
La poesia nei Detectives è fondamentalmente la metafora della fragilità e della portatilità della letteratura. Non c'è arte più facile – solo all'inizio, dopo diventa la più difficile di tutte – che scrivere una poesia, che fare poesia. Ricordo che a quel tempo in qualche ambiente circolava addirittura l'idea che la poesia potevano scriverla anche quelli che non sapevano scrivere, perché bastava mettere giù parole in libertà. La poesia d'avanguardia era molto di moda e si associava spesso all'idea di cambiare la vita e di cambiare vita, e per me in fondo la poesia – perlomeno come la vedevo all'epoca in cui ho scritto I detectives, è già passato del tempo – è una metafora della fragilità. Una fragilità assoluta. Gente che non solo dal punto di vista letterario, ma nemmeno da quello economico, non aveva futuro, e si aggrappava alla poesia, e faceva bene a farlo… Però aggrapparsi alla poesia durante un naufragio è come aggrapparsi al tappo di una bottiglia di champagne: non ti terrà a galla. La poesia poi è un'arte portatile: per leggere un romanzo servono tempo e una serie di comodità minime, mentre un sonetto puoi leggerlo in mezzo minuto. Altro problema è capirlo. Così, per me la poesia quando scrivevo I detective era la porta d'ingresso nell'ignoto, e in quella materia sconosciuta, probabilmente, stavo aspettando la vera poesia, ma anche la porta d'ingresso stessa era poesia, una poesia bastarda, poco rigorosa, esagerata…
LE RADICI NELLA TRADIZIONE LETTERARIA LATINOAMERICANA E I DEBITI CON LE LETTERATURE NORDAMERICANA ED EUROPEA
Per essere sinceri, io, modestamente, come diceva Vittorio Gassman, ho letto moltissimo, e da molte letture ho tratto profitto. In questo senso ho debiti nei confronti di parecchie letterature. Non credo che ci sia un'influenza diretta di quella nordamericana, ma sicuramente c'è un'influenza che riguarda di fatto tutti gli scrittori latinoamericani e che proviene dai due rami fondamentali del romanzo nordamericano, Melville e Twain. I detective ha senz'altro un debito con Mark Twain. Belano e Lima non sono altro che una trasposizione di Huckleberry Finn e Tom Sawyer. È un romanzo che scorre secondo un moto costante, che è il Missisippi. Insomma, il mio debito con Twain è enorme, anche perché è un autore che amo moltissimo. Ho letto molto anche Melville, e mi affascina. In effetti, per civetteria, preferirei credere di essere più in debito con Melville che con Twain, ma sfortunatamente penso di dovere di più a Mark Twain. Melville è un autore apocalittico… Twain è il giorno e Melville la notte, e la notte impressiona sempre molto di più. Ma per quel che riguarda la letteratura nordamericana moderna, la conosco poco e male. La conosco abbastanza fino agli scrittori della generazione precedente a Bellow. Updike l'ho letto abbastanza, ma non so perché lo facessi, sicuramente era un atto masochista, perché ogni pagina di Updike mi porta sull'orlo dell'isteria. Mailer mi piace più di Updike, anche se ritengo che come scrittore, come prosista, Updike sia più solido. Credo che gli ultimi scrittori nordamericani che ho letto a fondo e che conosco bene siano quelli della "generazione perduta": Hemingway, Faulkner, Scott Fitzgerald, Thomas Wolff. Mi sento molto più in debito, in qualche misura, con gli europei, nel senso che le mie prime letture sono state di poesia e io leggevo soprattutto poeti europei, e passare dalla poesia europea alla narrativa europea è stato molto facile.
SUL CONCETTO DI “SCRITTORE NAZIONALE”
Io credo che sia soprattutto per paura che García Márquez si vede come il più grande scrittore colombiano di tutti i tempi, o Vargas Llosa come il miglior scrittore peruviano. Tutti gli scrittori latinoamericani, e penso anche gli spagnoli, in fondo hanno molta paura e cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem. Io non ho mai avuto paura della morte e inoltre non credo nel pantheon. Guarda, quando finisce è finita e non resta niente, perciò io sto con Borges quando disse: “Dopo la morte, verrà l'oblio”, e molte teste di cazzo gli dicevano: “Ma no, Maestro, dopo la sua morte resteranno i suoi libri”. Lui li ascoltava e doveva pensare: guarda che branco di imbecilli! Perché lui alludeva all'oblio nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà, l'oblio è un destino comune di tutto quanto, non solo degli esseri umani, e in questo senso gli scrittori latinoamericani che si pongono sempre questo obiettivo che sta fra il clericalismo e la vigliaccheria, be', cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem, e il modo migliore per farlo è diventare lo scrittore nazionale di un paese. Io invece credo nella povertà intrinseca dell'essere umano. Un animale come noi, provvisto di viscere e muscoli, pochi, ossa debolissime, privo di esoscheletro... avere lo scheletro dentro invece che fuori mi sembra una cazzata assoluta... Guarda, si muore ed è finita, fanculo, non credo nel pantheon degli uomini illustri, e non voglio essere lo scrittore nazionale di nessun posto, e in questo senso non mi hanno mai preoccupato la nazionalità o cose del genere. L'unica cosa di cui mi preoccupo quando scrivo è di salvaguardare una certa verosimiglianza negli idiomi che impiego. Voglio dire: quando parla un peruviano dev'essere un peruviano che sta parlando, e quando parla un messicano o un centroamericano dev'essere un messicano o un centroamericano.
*Titoletti e suddivisione in paragrafi sono miei. Per la lettura integrale dell’intervista invio all’Archivio Bolaño.
LA BATTAGLIA FUTURA
Trailer del documentario "La battalla futura", in programma alla settimana dell'autore alla Casa de las Americas di Madrid (dal 23 novembre 2010), quest'anno dedicata a Roberto Bolaño. Fonte: qui.