Mentre in Europa ci si sforzava di "esprimere" attraverso le strutture compositive come faceva la pittura, riuscendo in questo modo, sia pure con mezzi decorativi, ad organizzare lo spazio all'interno del quadro, gli americani – e Griffith in particolare – scoprivano la possibilità suggestive delle immagini nei loro rapporti reciproci: scoprivano cioè le virtù del montaggio.
L'unità dal punto di vista praticata sino al 1909 aveva avuto come principale conseguenza di dividere il "mondo del dramma" da quello dello spettatore. Al pari della ribalta, lo schermo separava come una lastra di vetro due mondi di natura diversa.
Il merito principale di Griffith fu di insorgere contro questo arbitrio. Pensando che la macchina da presa, molto maneggevole, permetteva di avvicinarsi o allontanarsi a piacere dai personaggi e di muoversi liberamente attorno ad essi, li fece agire in uno spazio che non era più limitato dalla stessa cornice della scena. Il campo poteva abbracciare uno spazio più o meno vasto a seconda della necessità dell'azione. Una stessa scena poteva quindi essere vista sia da vicino che da lonatno, secondo punti di vista che andavano dal campo totale al primo piano.
Come nota André Malraux: "È dalla visione in piani, cioè dall'indipendenza dell'operatore e del regista nei confronti della scena stessa, che nacque la possibilità d'espressione del cinema, che il cinema nacque come arte".
Il montaggio, dunq...
Miiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii, che due...!
Ehm, no, volevo dire: Jean Mitry, Storia del cinema sperimentale, Mazzotta, Milano, 1971, p. 18.
Errata corrige: lonatno >>> lontano.
Il montaggio, dunq...
Miiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii, che due...!
Ehm, no, volevo dire: Jean Mitry, Storia del cinema sperimentale, Mazzotta, Milano, 1971, p. 18.
Errata corrige: lonatno >>> lontano.
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