"Truffaut non ama ritagliare, buttare via, scartare. Anche nei suoi film si avverte questa tensione nostalgica nei confronti di tutto quanto la finzione è costretta, inevitabilmente a eliminare. Raccontare significa anche ritagliare via, rifiutare tangenti e ipotesi, sacrificare altre finzioni: egli sembra provare perfino un po' di nostalgia verso quelle valigie, quelle persone, quelle lettere, coinvolte in un film e disertate dall'occhio del cinema, che nessuno aprirà o degnerà più di uno sguardo.
Forse conosce anche lui quell'inquietante testimonianza di Marshall McLuhan che, avendo sottoposto alcuni film a degli africani non alfabetizzati, scoperse con stupore e interesse che questi badavano soprattutto ai personaggi che scomparivano dallo schermo, erano soprattutto sensibili alla loro progressiva esclusione: dove sono finiti, che storia hanno avuto?
Così – racconta McLuhan – eravamo costretti a ripensare le storie in modo diverso, mettendoci dentro un sacco di cose che per noi non erano necessarie. Dovevamo seguire il personaggio lungo la strada, fin quando non avesse voltato l'angolo. Egli non poteva semplicemente uscire dallo schermo.
Un aneddoto che certo sarebbe piaciuto a Truffaut. Anche lui, nelle sue lettere, non cancella mai. Si pone una domanda, la verifica, e si risponde da solo, magari in un post-scriptum. Ammette un errore, ma non lo occulta del tutto, vi sovrappone una correzione, ci lascia una traccia.
Così è più che esplicito con Helen Scott:
Mi dispiace aver iniziato la mia risposta aggressivamente, senza aver trovato poi il coraggio di sbatterla via e ricominciare da capo.
Non è vera ignavia, la sua: ama troppo i sentimenti, per potersene liberare disinvoltamente. Preferisce stratificare: anche i sentimenti, come le sceneggiature, sono delle tappe, e si possono perfezionare."
Da: "Sisifo felice o L'uomo che amava le lettere", saggio introduttivo di Marco Vallone a Autoritratto. Lettere 1945-1984 di François Truffaut, a cura di Sergio Tuffetti, Einaudi, Torino 1989, pp. LIV-LV.
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