27 dicembre 2016
12 dicembre 2016
Letture e dialoghi in biblioteca. Credits.
Insomma, è andata. Sono contenta che il nutrito pubblico che ha
partecipato alla prima presentazione del mio libro Simone, le Castor.
La costruzione di una morale (Cuec, 2016), alla Biblioteca "S. Satta" di Nuoro, abbia avuto un alto livello
di ascolto, grazie anche alle mie compagne di presentazione – Maria
Giovanna Ganga, Vannina Mulas, Alessandra Pigliaru –, diversamente brave, molto brave, ciascuna giocando con alto profilo il suo compito. Grazie
di cuore, in particolare, ad Alessandra, anche autrice della
nota introduttiva al saggio, che in questa occasione ha confermato una
grande acutezza di analisi e nel contempo la capacità, piuttosto fuori
dal comune, di porgerla con limpidezza e semplicità a chi ascolta.
Grazie soprattutto per le domande che mi ha posto sull'attualità del
pensiero di Simone de Beauvoir, in cui crede, e in cui credo io,
altrimenti non avrei scritto quel che ho scritto.
In questo senso sono grata anche agli interventi arrivati dal pubblico presente, curioso e generoso. A tutte e a tutti devo il “battesimo” felice del libro, che mi incoraggia a proseguire quest'avventura, portando Simone, le Castor anche in altri luoghi – comuni, biblioteche, associazioni –, per ricordare o per far conoscere per la prima volta l'opera, il pensiero, i temi ancora attualissimi affrontati da una delle voci più interessanti e significative del nostro non archiviato Novecento.
Last but not least, grazie al mio editore, per avere coraggiosamente creduto in un'opera di argomento “non sardo”, ma che un pubblico di lettori e lettrici sardi, sardissimi, sta mostrando di sapere accogliere e apprezzare. Ci sono dei motivi, e lui, che insieme a me ci ha creduto, li sa, li conosce.
In questo senso sono grata anche agli interventi arrivati dal pubblico presente, curioso e generoso. A tutte e a tutti devo il “battesimo” felice del libro, che mi incoraggia a proseguire quest'avventura, portando Simone, le Castor anche in altri luoghi – comuni, biblioteche, associazioni –, per ricordare o per far conoscere per la prima volta l'opera, il pensiero, i temi ancora attualissimi affrontati da una delle voci più interessanti e significative del nostro non archiviato Novecento.
Last but not least, grazie al mio editore, per avere coraggiosamente creduto in un'opera di argomento “non sardo”, ma che un pubblico di lettori e lettrici sardi, sardissimi, sta mostrando di sapere accogliere e apprezzare. Ci sono dei motivi, e lui, che insieme a me ci ha creduto, li sa, li conosce.
23 novembre 2016
La costruzione di una morale per la felicità
Gli anni che vanno dal 1930 al 1970, oltre all’esperienza orrenda del nazi-fascismo e della II Guerra Mondiale, sono stati il tempo che ha rivelato tre filosofe che segnano profondamente il nostro tempo. Simone Weil e la sua ispirazione etico-religiosa; il suo gnosticismo la porta verso una ricerca dell’Assoluto che non può esprimersi se non nella vicinanza agli ultimi. Hanna Arendt che indaga la trasformazione plebiscitaria delle democrazie e il male come comportamento banale della specie umana, che aspetta solo le condizioni di giustificazione per rivelarsi in tutto il suo potere terrorifico.
Simone de Beauvoir, che esperisce il tentativo di creazione di una nuova morale che parta dalla certezza che le morali tradizionali non superino la consapevolezza della limitatezza dell’essere umano. Tre pensatrici che fanno del Da-sein heiddeggeriano più che una chiave interpretativa, una condizione.
L’essere gettati nel mondo obbliga. Hanna Arendt rifiuterà l’ultima filosofia di Heiddegger, privilegiando l’agire come essere per gli altri, ritornando sui passi di Husserl e Kant. Il 14 aprile del 1986 a Parigi decedeva Simone de Beauvoir. Bastiana Madau con il suo Simone, le Castor. La costruzione di una morale non si limita a celebrarla, ma con un saggio filosofico intenso ricostruisce il suo pensiero e la sua ricerca. La costruzione morale, che a suo dire, attraversa l’intera opera: dai saggi ai romanzi alla sterminata autobiografia. [...]
Continua nel sito del periodico Sardegna Soprattutto cliccando sul titolo dell'articolo di Nicolò Migheli: Simone de Beauvoir e la costruzione di una morale per la felicità
17 novembre 2016
Contributo a un convegno di detective deleddiani
Non
avrei mai immaginato che rispolverare il sempre caro Jackie Élie
potesse farmi amare ancor di più lei, e invece è accaduto
esattamente questo. Tant'è che me li figuro insieme, mentre
chiacchierano davanti al camino, D&D, con qualche miliardo di
cose da dirsi. E semmai dovessero decidere di tenere insieme un
seminario nell'aldilà, io mi c'iscriverò di sicuro, appena arrivo.
Chiaro che non ho alcuna fretta. Intanto appunto con calma una mappa
che mi consenta di poter dialogare con gli esperti dei misteri della
scrittura deleddiana, o meglio: della loro soluzione, e più
precisamente con i filologi che si sono rivelati, dopo un pluriennale
e certosino lavoro, dei formidabili detective. In primis Dino Manca,
professore di filologia della letteratura italiana all'Università di
Sassari, autore di una strepitosa edizione critica di Cosima,
appena uscita per la Edes, in cui mette in luce – dopo un tempo
infinito! – i diversi “crimini” operati sulla volontà
dell'autrice con interventi sul testo originale di varia natura e
varia mano; e secondo – ma non in ordine di importanza rispetto
all'alta qualità della detection – il giovane
ricercatore Giambernardo Piroddi, autore di uno studio raffinatissimo
sulla Deledda pubblicista intitolato Grazia
in Terza pagina. Deledda elzevirista nel carteggio col «Corriere
della Sera» (1909 – 1936). Io non mi soffermerò
su nessuna delle opere in particolare (invito a leggerle), né sugli
aspetti più tecnicistici. Sono invece interessata agli
strumenti concettuali di cui si dotano i curatori delle edizioni
deleddiane e voglio delinearne alcuni che mi sembrano importanti per
inquadrare l'opera critica complessiva.
Al
fondo del lavoro filologico c'è una filosofia vicinissima alle
parole, ma a parole che innanzitutto sono cose. Nel volume che
inaugura la collana «Filologia
della letteratura degli italiani» e intitolato Tra
le carte degli scrittori,
Dino Manca, che ne è l'autore – eccetto per il saggio "Tra le
carte di Salvator Ruju", a firma di Gianbernardo Piroddi –
propone una
ricognizione documentata e ragionata di una parte della produzione di
testi e di avantesti di autori sardi vissuti a cavallo tra Otto e
Novecento e conservata presso la Biblioteca Universitaria di Sassari.
Queste sono le cose, i supporti fisici più prossimi agli autori
trattati nel saggio: Salvatore Farina, Pompeo Calvia, Sebastiano
Satta, Salvator Ruju e Grazia Deledda. Si tratta di manoscritti
autografi e idiografi che gli studiosi mettono sistematicamente a
confronto con le diverse, successive edizioni al fine di individuare
ed emendare eventuali errori legati alla loro trasmissione e
interpretazione. Abbiamo anche il manoscritto del romanzo L'edera
– uscito in edizione critica
per la collana della Cuec "Centro di Studi filologici sardi" –,
che Grazia Deledda donò alla Biblioteca sassarese il 24 agosto del
1914, originariamente in carte sciolte e poi rilegate con cartoncino
rivestito in pergamena e tela verde recante nel dorso la scritta a
stampa: Grazia Deledda [in
nero] L’edera [in
rosso]. E da questo oggetto prende avvio la raffinatissima perizia di
Dino Manca che attesta, ad esempio, che l’esemplare autografo
presenta numerose correzioni, aggiunte, varianti a margine o
nell'interlinea, soppressioni, sostituzioni, ecc., che attestano un
processo di elaborazione tormentato, ricco di ripensamenti. Il tutto
è messo a confronto con le edizioni a stampa già avvenute, perché,
alla data della donazione, L'edera era
già uscito in francese e in tedesco, nel 1907, e in italiano, in La
Nuova Antologia, nel 1908, a
puntate, ma lo stesso anno anche in volume. Insomma, c'è tutta
un'analisi minuziosa su quanto e come sia stato accolto nelle stampe
il processo di correzione, e direi anche che si tratta di un'indagine
davvero affascinante, almeno per me che amo la carta, la scrittura e
i suoi misteri, ma anche la loro detection. In primis, dunque,
questa sorta di Sherlok Holms che è il filologo, deve dotarsi delle
fonti più prossime all'emissione dei messaggi, cosa che hanno fatto
sia Dino Manca e sia – per la parte che concerne Deledda
pubblicista – Giamberndardo Piroddi
C'è
un secondo concetto guida al fondo del lavoro di ricostruzione e
interpretazione dei testi in cui mi sembra si possa ritrovare la
stessa ragion d’essere della filologia, e che consiste nello
stabilire «il certo dei testi» piuttosto che «il vero delle cose»,
ma inevitabilmente, poi, il confronto tra le due dimensioni si
interseca.
«La verità è verità testuale e la verità testuale è quella che
esprime la volontà dell’autore», ha
scritto Dino Manca. E le edizioni
critiche dell'opera di Grazia Deledda questa vogliono offrirci... ma
intanto prepariamoci.
Dentro
il testo cosa c'è?
In
principio c'è la parola e quindi la lingua.
E
la lingua che cos'è?
La
lingua è un sistema di segni geneticamente estranei
alla realtà extra-letteraria, cioè agli elementi storici,
concettuali o immaginari della realtà: quali correnti di pensiero,
nella realtà? Quale religione? Quale idea di letteratura? Quali
correnti artistiche? Quale realtà, tout-court? A questa è il testo
che rinvia, costituendo il materiale su cui lavora la lingua.
Andiamo
quindi a vedere cosa sia quel confronto, quella distanza tra il
«certo del testo» e il «vero delle cose».
Per
dire di questo secondo elemento è utile rammentare il mito di
ambientazione egizia che troviamo nel Fedro di
Platone (370 a.C.), e che Socrate racconta a Fedro, un giovane
ateniese appassionato dell'arte del discorso. Il
protagonista del mito è Teuth, il dio delle arti e dei mestieri, un
inventore dalle grandi abilità che il faraone era solito promuovere
con entusiasmo. Un giorno Teuth gli propone l'invenzione della
scrittura, spiegando che essa serve a ricordare, ma il faraone
stavolta non approva e dice di considerare la scrittura come
phármakon, una
formula vana e superba, nemica del vero, non essendo altro che una
copia sbiadita della voce che ripete senza ricordare, destinando
inesorabilmente gli umani ad allontanarsi dalla verità, che può
scaturire solo dalla parola detta in presenza dell’anima di chi
parla. E così rifiuta il dono del dio.
Duemilatrecento
anni dopo, da Parigi, è il suo collega Jacques Derrida che risponde
a Platone, confutando l'intera
tradizione filosofica occidentale che a suo dire è incentrata su
tale mito, che lui chiama fonologocentrismo,
cioè un mito fondato sulla centralità del logos come
voce, contrapposto alla
scrittura in quanto operazione in cui sussiste la totale assenza del
soggetto che l'ha prodotta e perciò lontana dal vero. Sulla base di
questo confronto tra presenza e assenza si rende possibile quel
fenomeno che Derrida chiama différance.
“Differanza” è la parola coniata dal filosofo per dire che il
segno
scritto è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, tra
il testo e l'essere a cui esso rinvia c'è sempre qualcosa che
differisce, uno scarto che non può mai essere definitivamente
colmato, ma lascia sempre soltanto tracce. In questa situazione il
compito del lavoro del filologo è quello di indagarle, di cercare le
tracce del vero
anche
fra le righe, nell'interlinea, nel non detto di cui il testo è
traccia; come dire: fra le pieghe di un'opera d'arte... In
un secondo senso, "differire" significa anche rinviare,
mettere una distanza. Il testo, infatti, gode di vita propria, si
rende disponibile al di là del suo tempo: è la scrittura in sé che
ne garantisce la sua decifrabilità, leggibilità e interpretazione
illimitate.
Stante
a quella distanza tra il «certo dei testi»
e
il «vero delle cose», l'interrogazione del filologo è
un'operazione assai complessa e affascinante. A maggior ragione
perché l’arte
del racconto, del romanzo, come l'arte tout-court, restituisce
all’oggetto che l'autore o l'autrice vuole rappresentare una nuova
luce e una rinnovata dimensione di sensibilità attraverso il
procedimento dello «straniamento», ossia mediante la sottrazione
dell’oggetto stesso che si vuole rappresentare dall’automatismo
del suo ordinario «riconoscimento», per riconvertirlo in «visione».
Al fine di rendere concreto questo concetto prendo come esempio un'opera visiva: la statua dedicata a Grazia Deledda con cui la sua città natale ha voluto renderle omaggio. A proposito di prossimità alle parole-cose e alla volontà dell'autrice, trovo che l'opera realizzata dal Maestro nuorese Pietro Costa sia vicina alle parole di Cosima. Lo è nell'aurea complessiva che emana la sua forma assolutamente femminile, nei particolari dello sguardo e dei lineamenti del viso, così "lontani", come trascesi, di quella mano sinistra che significativamente indica nient'altro che se stessa, nella rappresentazione di un corpo-angelo, corpo-nave... Nella sua complessiva tensione, ecco, penso che l'opera di Costa possa offrire un'idea piuttosto autentica dell'impeto interiore che guidava la giovinetta nuorese Grazia Deledda, alias Cosima, la quale sapeva, pur senza conoscerla – perché sapere e conoscere sono concetti diversi –, in perfetta e precoce solitudine, già da giovanissima sapeva della straordinarietà del suo karma, ossia di un destino dovuto non a chissà quali forze arcane e misteriose, bensì al complesso di situazioni eccezionali che già creavano le sue narrazioni. Grazia voleva varcare il mare, ogni mare del pianeta Terra, non solo il Mediterraneo.
Ecco, come al cospetto di una statua, anche di fronte a un testo, noi non siamo di fronte all'Essere, alla verità, al "vero delle cose", ma al suo "simulacro", a una statua dell'essere, a una "parvenza" dell'essere. L'ordinario «riconoscimento» tradotto in visione è, dunque, un punto da tenere fermo, anche quando ci troviamo di fronte a un artificio narrativo. E di ciò era pienamente consapevole la stessa Deledda, come ci fa capire anche Giambernardo Piroddi allorché, nel suo splendido Grazia in Terza pagina, analizzando il carteggio che la scrittrice ebbe con Angelo Degubernatis (direttore della rivista quindicinale illustrata italiana e straniera Natura ed arte [Vallardi di Milano, dal 1891]), mette in risalto come anche nell'orizzonte pubblicistico deleddiano vi fosse la piena consapevolezza della differenza tra facta e ficta, tra realtà e finzione, tra il davvero accaduto e l'inventato, tra la cronaca e la fiction o, come la chiama Piroddi, la «finzionalità narrativa».
Ciò detto è legittimo e, anzi, doveroso domandarsi dove poggia la "visione" e quindi stagliare le proprie analisi in un contesto che abbia precise coordinate storiche e geografiche, senza le quali avremmo parole appese nient'altro che a se stesse con il rischio di perdere la loro portata comunicativa. Così è importante conoscere che Grazia Deledda inizia il suo complesso percorso di formazione a Nuoro, piccolo borgo dell’ex regno di Sardegna, antropologicamente connotato. E che fu quel mondo che parlava sardo che Grazia Deledda osò tradurre con altri codici, già consapevole di rivolgersi non al mondo a lei più prossimo (che, anzi, non la capiva), bensì di volere comunicare con un mondo distante dal suo, ma non perché volesse allontanarsene, tutt'altro: la sua volontà era quella di comunicare a un mondo lontano che il suo microcosmo era un universo: di sentimenti, di emozioni, di valori e di ambiguità che già sapeva essere costitutivi non della gente di Nuoro, non della gente di Sardegna, bensì della condizione umana.
Con questo sentimento del mondo e della vita Grazia attuò la sua operazione artistica sul microcosmo nuorese e sardo, e fu la traduzione in scrittura della sua Weltanshaung a rendere possibile che l'isola entrasse a far parte dell’immaginario europeo. Quella che era una realtà geografica e antropologica precisa si trasformò, con le sue storie, nella "terra del mito", assurgendo a metafora di una condizione esistenziale, quella del "primitivo" o del "primordiale". E ciò avveniva in un momento storico in cui la cultura del Novecento stava recuperando a sé questa categoria. La recuperava nel senso che dava valore al "primitivo" come il luogo per eccellenza dove rappresentare il disagio esistenziale creato da quel processo iniziato nella seconda metà del XIX secolo conseguente all'espansione industriale e al progresso scientifico, che vide le grandi masse contadine riversarsi nelle città. Gli artisti europei del XX reagirono alle trasformazioni della società moderna, agli eventi politici, alle logiche illuministiche del Positivismo che negavano il riconoscimento e la riconquista di una dimensione in cui tornassero ad avere importanza anche le istanze individuali. E molti di essi trovarono rifugio nei valori del primordio, alla ricerca di esperienze di vita autentiche e originali: «Gauguin le cercava a Tahiti, Van Gogh collezionava stampe giapponesi, Picasso inventava il cubismo, ispirato all’arte tribale africana, e lo stesso Paul Klee riprendeva la decorazione del tessuto africano».
Al proposito è molto interessante la mostra di 107 dipinti in corso proprio in questo periodo al Museo MAN, intitolata Soggettivo – Primordiale. Un percorso nell'espressionismo tedesco attraverso le collezioni dell'Osthaus Museum di Hagen, che pone l'accento sull'aspetto fondamentale che ha legato tra loro le ricerche artistiche delle diverse correnti espressioniste: a partire da una società massificata, appunto, la ricerca di valori in cui tornasse ad avere importanza il singolo, con i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo.
Sono piuttosto convinta che Grazia Deledda parlasse anche a questa Europa e ne fosse pienamente consapevole. Con le sue visioni perturbanti, era esattamente nel cuore della produzione artistica della crisi. Lo era con la potenza che emanava ogni fondale scenografico su cui faceva muovere i suoi personaggi, con i paesaggi come modulo narrativo per cui ognuno di essi, nella straordinaria varietà del paesaggio sardo, corrisponde allo stato d'animo della o del protagonista; con la psiche rappresentata di volta in volta con il vento, la notte che incombe, la descrizione di una finestra vuota...; con le descrizioni che suscitano l'idea di un'isola archetipo di tutti i luoghi – senza tempo o imperniata di un tempo perduto –, l'idea di uno spazio ontologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere... Mi torna in mente un componimento che Fernando Pessoa scrisse nel 1911, "Il guardiano di greggi", compreso nella raccolta Una sola moltitudine, perché calza perfettamente con la prospettiva da cui Grazia Deledda guardava il mondo:
Al fine di rendere concreto questo concetto prendo come esempio un'opera visiva: la statua dedicata a Grazia Deledda con cui la sua città natale ha voluto renderle omaggio. A proposito di prossimità alle parole-cose e alla volontà dell'autrice, trovo che l'opera realizzata dal Maestro nuorese Pietro Costa sia vicina alle parole di Cosima. Lo è nell'aurea complessiva che emana la sua forma assolutamente femminile, nei particolari dello sguardo e dei lineamenti del viso, così "lontani", come trascesi, di quella mano sinistra che significativamente indica nient'altro che se stessa, nella rappresentazione di un corpo-angelo, corpo-nave... Nella sua complessiva tensione, ecco, penso che l'opera di Costa possa offrire un'idea piuttosto autentica dell'impeto interiore che guidava la giovinetta nuorese Grazia Deledda, alias Cosima, la quale sapeva, pur senza conoscerla – perché sapere e conoscere sono concetti diversi –, in perfetta e precoce solitudine, già da giovanissima sapeva della straordinarietà del suo karma, ossia di un destino dovuto non a chissà quali forze arcane e misteriose, bensì al complesso di situazioni eccezionali che già creavano le sue narrazioni. Grazia voleva varcare il mare, ogni mare del pianeta Terra, non solo il Mediterraneo.
Ecco, come al cospetto di una statua, anche di fronte a un testo, noi non siamo di fronte all'Essere, alla verità, al "vero delle cose", ma al suo "simulacro", a una statua dell'essere, a una "parvenza" dell'essere. L'ordinario «riconoscimento» tradotto in visione è, dunque, un punto da tenere fermo, anche quando ci troviamo di fronte a un artificio narrativo. E di ciò era pienamente consapevole la stessa Deledda, come ci fa capire anche Giambernardo Piroddi allorché, nel suo splendido Grazia in Terza pagina, analizzando il carteggio che la scrittrice ebbe con Angelo Degubernatis (direttore della rivista quindicinale illustrata italiana e straniera Natura ed arte [Vallardi di Milano, dal 1891]), mette in risalto come anche nell'orizzonte pubblicistico deleddiano vi fosse la piena consapevolezza della differenza tra facta e ficta, tra realtà e finzione, tra il davvero accaduto e l'inventato, tra la cronaca e la fiction o, come la chiama Piroddi, la «finzionalità narrativa».
Ciò detto è legittimo e, anzi, doveroso domandarsi dove poggia la "visione" e quindi stagliare le proprie analisi in un contesto che abbia precise coordinate storiche e geografiche, senza le quali avremmo parole appese nient'altro che a se stesse con il rischio di perdere la loro portata comunicativa. Così è importante conoscere che Grazia Deledda inizia il suo complesso percorso di formazione a Nuoro, piccolo borgo dell’ex regno di Sardegna, antropologicamente connotato. E che fu quel mondo che parlava sardo che Grazia Deledda osò tradurre con altri codici, già consapevole di rivolgersi non al mondo a lei più prossimo (che, anzi, non la capiva), bensì di volere comunicare con un mondo distante dal suo, ma non perché volesse allontanarsene, tutt'altro: la sua volontà era quella di comunicare a un mondo lontano che il suo microcosmo era un universo: di sentimenti, di emozioni, di valori e di ambiguità che già sapeva essere costitutivi non della gente di Nuoro, non della gente di Sardegna, bensì della condizione umana.
Con questo sentimento del mondo e della vita Grazia attuò la sua operazione artistica sul microcosmo nuorese e sardo, e fu la traduzione in scrittura della sua Weltanshaung a rendere possibile che l'isola entrasse a far parte dell’immaginario europeo. Quella che era una realtà geografica e antropologica precisa si trasformò, con le sue storie, nella "terra del mito", assurgendo a metafora di una condizione esistenziale, quella del "primitivo" o del "primordiale". E ciò avveniva in un momento storico in cui la cultura del Novecento stava recuperando a sé questa categoria. La recuperava nel senso che dava valore al "primitivo" come il luogo per eccellenza dove rappresentare il disagio esistenziale creato da quel processo iniziato nella seconda metà del XIX secolo conseguente all'espansione industriale e al progresso scientifico, che vide le grandi masse contadine riversarsi nelle città. Gli artisti europei del XX reagirono alle trasformazioni della società moderna, agli eventi politici, alle logiche illuministiche del Positivismo che negavano il riconoscimento e la riconquista di una dimensione in cui tornassero ad avere importanza anche le istanze individuali. E molti di essi trovarono rifugio nei valori del primordio, alla ricerca di esperienze di vita autentiche e originali: «Gauguin le cercava a Tahiti, Van Gogh collezionava stampe giapponesi, Picasso inventava il cubismo, ispirato all’arte tribale africana, e lo stesso Paul Klee riprendeva la decorazione del tessuto africano».
Al proposito è molto interessante la mostra di 107 dipinti in corso proprio in questo periodo al Museo MAN, intitolata Soggettivo – Primordiale. Un percorso nell'espressionismo tedesco attraverso le collezioni dell'Osthaus Museum di Hagen, che pone l'accento sull'aspetto fondamentale che ha legato tra loro le ricerche artistiche delle diverse correnti espressioniste: a partire da una società massificata, appunto, la ricerca di valori in cui tornasse ad avere importanza il singolo, con i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo.
Sono piuttosto convinta che Grazia Deledda parlasse anche a questa Europa e ne fosse pienamente consapevole. Con le sue visioni perturbanti, era esattamente nel cuore della produzione artistica della crisi. Lo era con la potenza che emanava ogni fondale scenografico su cui faceva muovere i suoi personaggi, con i paesaggi come modulo narrativo per cui ognuno di essi, nella straordinaria varietà del paesaggio sardo, corrisponde allo stato d'animo della o del protagonista; con la psiche rappresentata di volta in volta con il vento, la notte che incombe, la descrizione di una finestra vuota...; con le descrizioni che suscitano l'idea di un'isola archetipo di tutti i luoghi – senza tempo o imperniata di un tempo perduto –, l'idea di uno spazio ontologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere... Mi torna in mente un componimento che Fernando Pessoa scrisse nel 1911, "Il guardiano di greggi", compreso nella raccolta Una sola moltitudine, perché calza perfettamente con la prospettiva da cui Grazia Deledda guardava il mondo:
Dal
mio villaggio io vedo quanto dalla terra si può vedere
dell’Universo. Per questo il mio villaggio è grande quanto
qualsiasi altro luogo, perché io sono della dimensione di quello che
vedo, e non della dimensione della mia altezza.
© Mag |
30 ottobre 2016
Pianto per la Basilica di San Benedetto da Norcia
Nei nostri 16-20 anni, ricordo, l'Umbria era un mito: c'era il jazz, c'erano le colline verdissime, un fermento culturale enorme e che tuttavia arrivava mite, pacifico, in anni cosiddetti di piombo. Era l'Umbria, pensavamo, l'oriente del nostro occidente. Non dico della nostra gioia quando, intorno ai 20 anni, si presentò l'occasione di andare a lavorare a Norcia per un mese, durante le vacanze dall'università, come assitenti e animatori in un soggiorno estivo per ragazzini e ragazzine disabili. Non erano anni facili, ripeto, per l'intero Paese, e all'università quel buio si sentiva, e noi eravamo veramente affamati di bellezza. Fu così che di quella basilica me ne innamorai...
Crollano i gioielli della storia e della storia dell'arte, insieme a i miti, e nemmeno questo, con chissà quante altre cose, avevamo messo in conto. Che vita strana, strana, strana...
Crollano i gioielli della storia e della storia dell'arte, insieme a i miti, e nemmeno questo, con chissà quante altre cose, avevamo messo in conto. Che vita strana, strana, strana...
29 ottobre 2016
Rosa e crisantemu
Non ho mai creduto – se non, forse, quando ero molto piccola – che mio padre conoscesse tutti i fiori del mondo, pure se lui, indirettamente, diceva di sì quando parlava dei crisantemi: "Su crisantemu es su viore pius bellu 'e su mundhu!" diceva, difendendo dal sorriso divertito di mia madre la coltivazione che ne faceva nell'orto, dove in bella fila, alla fine dell'estate, inziavano a spuntare i fiori bianchi e gialli.
Più tardi, andata a vivere da sola, ogni tanto li portava anche a me in bel mazzetto, i crisantemi dell'orto, in special modo quelli bianchi anticos, come li chiamava, che sono più grandi e rotondi di quelli in vendita nei negozi di fiori. No, a mamma no, naturalmente: per lei portava a casa solo ciclamini, orchidee, rose selvatiche, rametti di corbezzolo e di mirto.
Così è andata che anch'io ho preso ad amarli, i crisantemi, anche se a casa mia non ne ho più avuti dal 1999, e solo li compro per portarglieli insieme alle rose per mia madre. Tra me e le mie sorelle, infatti, con novembre ritorna anche l'aneddoto, per cui "no, a mamma niente crisantemi". Però ricordo di quella volta che, battibeccando ancora sui fiori, per un momento babbo la spuntò sulla bontà della sua coltivazione tirando fuori la carta che dovette credere definitivamente vincente: "Mari', est inoche chi non cumprendimus sas cosas zustas! Badiadìlos sos giapponesos: in Giappone su cristantemu es su viore 'e sa vida!". Il bel viso di mia madre si illuminò di stupore e meraviglia, ma appunto, durò solo un momento, ché pronta rispose: "Ma nd'ana a iscìre meda sos giapponesos!".
Così è andata che anch'io ho preso ad amarli, i crisantemi, anche se a casa mia non ne ho più avuti dal 1999, e solo li compro per portarglieli insieme alle rose per mia madre. Tra me e le mie sorelle, infatti, con novembre ritorna anche l'aneddoto, per cui "no, a mamma niente crisantemi". Però ricordo di quella volta che, battibeccando ancora sui fiori, per un momento babbo la spuntò sulla bontà della sua coltivazione tirando fuori la carta che dovette credere definitivamente vincente: "Mari', est inoche chi non cumprendimus sas cosas zustas! Badiadìlos sos giapponesos: in Giappone su cristantemu es su viore 'e sa vida!". Il bel viso di mia madre si illuminò di stupore e meraviglia, ma appunto, durò solo un momento, ché pronta rispose: "Ma nd'ana a iscìre meda sos giapponesos!".
(Ciao mamma, ciao babbo.)
Tina Modotti, Rose, Messico 1924 |
27 ottobre 2016
25 ottobre 2016
Recensione di Maria Paola Masala al libro di Bastiana Madau "Simone, le Castor. La costruzione di una morale"
Desiderare aspramente la felicità, e su questo desiderio fondare una morale. Lo ha fatto Simone De Beauvoir, declinando a suo modo un tema assai caro alla tradizione letteraria francese, le bonheur, e riuscendo a costruire intorno ad esso un progetto di vita, dove il cambiamento, la messa in discussione del presente, l’accettazione di un avvenire aperto sono la strada per afferrare il mondo.
A disegnare un ritratto, denso di pensiero e di empatia, della grande filosofa e romanziera francese, voce tra le più significative della filosofia e della letteratura impegnata, è l’intellettuale oranese Bastiana Madau, scrittrice, operatrice culturale di valore ed editor. Il suo interesse per lei viene da lontano.
Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera. Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-Paul Sartre divise vita, pensiero, impegno politico.
Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro) [Ora anche in edizione cartacea, a 14 euro. N.d.blogger], Simone, le Castor. La costruzione di una morale percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile.
Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera. Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-Paul Sartre divise vita, pensiero, impegno politico.
Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro) [Ora anche in edizione cartacea, a 14 euro. N.d.blogger], Simone, le Castor. La costruzione di una morale percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile.
Scrivere di Simone De Beauvoir, ci dice Bastiana Madau, significa confrontarsi con un’intellettuale non ignora mai il mondo reale, e non trascura lo smacco: la sua scrittura e la sua riflessione sono sempre divise tra individuo e collettività, rivolte alla condizione umana, fatta di uomini e donne che fanno i conti con un corpo, un tempo, un luogo, una condizione sociale. La sua figura segna così il passaggio a un modello innovativo di intellettuale, che non può più permettersi di scrivere per sé, ma deve approdare a un impegno “militante”, accettare il rischio di vivere «la grande avventura di essere me stessa».
Il saggio di Bastiana Madau riattraversa tutti i temi beauvoiriani segnati dalle contraddizioni dell'esistenza: lo smarrimento dell'essere umano di fronte alla mancanza di valori assoluti, Dio su tutti; la superiorità della coscienza, unico giudice a cui rispondere; l'impegno per una morale basata su principii indiscutibili ma sulla consapevolezza del limite comune a tutti gli esseri umani. Particolare attenzione è dedicata anche alla condizione della donna, che De Beauvoir affronta nel suo capolavoro, Il secondo sesso, testo imprescindibile della storia del pensiero femminile. Quanto al titolo del saggio di Bastiana Madau – che sarebbe davvero bello e utile poter leggere anche in versione cartacea – Castor era il nomignolo con cui Sartre chiamava la sua compagna. A idearlo fu René Gabriel Eugène Maheu, alias Herbaud, professore di filosofia a Londra e amico di entrambi (e di Paul Nizan), che giocò con il cognome Beauvoir e il termine inglese beaver, castoro. Ma a renderlo vivo e pregnante fu il filosofo esistenzialista. Lo racconta l’interessata in Memorie di una ragazza per bene, e più tardi ne L’età forte. «Un giorno scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali: BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore».
Maria Paola Masala, De Beauvoir, ovvero il progetto della felicità, L’Unione Sarda, venerdì 2 settembre 2016. (Riproduzione riservata)
Bastiana Madau, Simone, le Castor. La costruzione di una morale, con una nota introduttiva di Alessandra Pigliaru, Cuec, Cagliari 2016. (Immagine di copertina)
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21 ottobre 2016
Musica e sabir
Musica e
pensiero, oltre le gabbie etnocentriche che imbrigliano l’arte, le
terre e l’abitare il mondo; una musica non "etnica", bensì – con provocazione
fonetica e filosofica lieve – "etica", in simpatia con i popoli stanziali o
erranti del pianeta. Così la costa della terra immaginta da Alberto Cabiddu e i Fortun de Serau nell'ottimo cd Ethic music from Sardistan diventa un luogo i cui confini sono accarezzati da un raffinato linguaggio musicale sospeso fra memoria e
sogno.
I
temi dei 14 brani sono quelli del viaggio e della nostalgia, della
passione e della ricerca di sè, dell'attraversamento di
labirinti fortunati ed estatici, della percezione del mistero
dell’amore, dell'umanità sospesa tra arrivo e partenza. Al ritmo della
kalimba e degli udu drums accompagnati dal violoncello, dalla chitarra,
dall’harmonium, dalla melodica, dalle launeddas e benas, si alza
ipnotica la voce di Cabiddu, che da canto solo si sdoppia,
rimandando al collettivo dei canti barbaricini e a diverse, ritmiche
coralità al confine tra Sardegna e Maghreb, Caucaso e Asia centrale, con
citazioni di Astor Piazzolla.
Il progetto della formazione Fortun de Sarau
si snoda con un primo canto tradizionale sardo, Andimironnai,
che già rivela una spinta creativa potente, sfociando in
un folklore immaginifico e bizzarro, in una babele di idiomi sonori e musicali che nei modi e nei ritmi evocano la cultura millenaria a cui appartiene anche la tradizione dell'isola: nella danza, nel canto
corale e persino nelle "note" delle onde marine, dei venti, degli aerofoni
palustri.
Le
musiche del repertorio tradizionale, sia riarrangiate e sia originali,
sono di Alberto Cabiddu, che propone composizioni in cui anche la rielaborazione dei motivi sardi arcaici evita quell'inciampo che a
volte si coglie nelle sperimentazioni e sfocia, invece, in un
linguaggio di grande nitidezza. Quasi tutti i testi delle canzoni sono
in sardo: le strofe amorose di Andimironnai a Passu Torrau, In Ora Mala; la bellissima Cantu cuadu; S’Arredu, Dilliri, Su Faddidorgiu, In Bonora. In altre diverse lingue i brani Tauron de Furas, il celebre cantico Santa Maria strela dò Dia, Mariama Nega; mentre in Sid Yhs’Ag sa’Ahdorah
– che parla di un libro sacro e del miracolo del ridere – siamo di
fronte a una lingua sconosciuta, che vorrebbe, forse, evocare il sabir, la lingua franca che si sviluppò nel Mediterraneo orientale sul finire
del Medioevo per mettere in contatto i tanti parlanti di estrazione
diversa, le cui rotte commerciali e sapienziali s’incrociavano nel Mare
Bianco (così chiamavano il Medterraneo le popolazioni arabe).
I Fortun de Sarau, dunque, sono: Alberto Cabiddu (voce,
kalimba, udu, riq, percussioni, harmonium), Carlo Cabiddu (chitarra e
voce), Gianluca Pischedda (violoncello e voce), Massimo Cau (armonium,
benas, melodica e voce), Alessandro Garau (batteria e percussioni). Il
cd contiene anche 8 stampe illustrate dal pittore cagliaritano Giorgio Polo ed è prodotto
da Gianni Menicucci per Tajrà, un'etichetta indipendente che si è già caratterizzata come un laboratorio di ricerca: tra le sue produzioni nate dall’incontro di musica, letteratura e poesia orale, sono memorabili gli
album Tajrà, la voce creativa e Tajrà, la voce della memoria, contenenti, tra gli altri brani, un Duru duru bittese per la preziosa voce di Tomasella Calvisi, un'imponente Sa Pastorina di Su Concordu Lussurzesu, l'ironica Pibere in sambene del coro polifonico femminile di Fonni Su Veranu, la bella voce di Paola Giua in Cant dels occels, rielaborazione di un classico corso di Iskeliu, ensemble fondato dal colto musicista e ricercatore tempiese
Sandro Fresi, la voce ormai di repertorio di Maria Multineddu, classe 1910, cantante e chitarrista di Tempio Pausania scomparsa a 90 anni, interprete
impareggiabile di antichi moduli come la "graminatogghja", un'artista che ancora oggi incanta gli
appassionati del cantu a chiterra. (Bastiana Madau)
16 ottobre 2016
15 ottobre 2016
I colori di oggi, all'alba
Sono "gli occhi del cuore" di Louis Stettner (7 novembre 1922 – 13 ottobre 2016) a lasciarci questa foto, che, tra le tante e splendide che ci ha regalato, forse è quella che amo di più. Siamo nella Parigi del '47, i due bambini con berretto ad Aubervilliers vengono verso di noi; sullo sfondo si staglia come un fiume interminabile il lastricato della strada; a lato le case modeste. Una donna elegante attraversa la strada; indossa un capotto scuro, ha la borsa, il passo svelto e leggero.
14 ottobre 2016
Forza motrice. Appunti sul Nobel a Dylan
Ho molto apprezzato l'analisi di Tiziano Scarpa del Nobel a Dylan a proposito di poesia che "non richiede la forza motrice della lettura", richiamando l'importanza dell'ascolto delle parole dette o cantate. Come nelle gare poetiche che hanno tramandato una parte considerevole del patrimonio poetico sardo, insomma, ma vale per tutto il Mediterraneo. Al Cairo, ad esempio, ancora oggi, ogni giovedì, sparano dai megafoni disseminati nelle botteghe dei vicoli i versi che Rami affidò alla voce di Umm Kulthum (da sempre inseparabili). In questo senso ho trovato interessante anche il commento di Salman Rushdie, che definisce Dylan come il brillante erede di una lunga tradizione bardica. Ma il Nobel a Dylan apre ad altre molteplici suggestioni, ed è anche per questo motivo che lo ritengo proprio un gran bel Nobel. I pareri che ho letto, comunque, sono diversi e anche dissonanti. Io mi limito a riportare qui quelli più interessanti raccolti tra i miei amici, che, cosa lo dico a fare, pure se inquieti per l'attribuzione del Nobel al menestrello (scusate, è per evitare la ripetizione), comunque amano Dylan (ma non è questo il punto).
Uno di loro, ad esempio, a proposito dell'assenza della lettura individuale come "forza motrice" della parola (la caratteristica di questo Nobel, appunto, che poi è il motivo che ha irritato Baricco & C.: "Cosa c'entra Dylan con la letteratura?") domanda (ma la sua è una domanda più seria):
"Quanto dell'attuale mondo della comunicazione ricerca l'abolizione di quella forza motrice?".
C'è di che riflettere, in effetti, perché la diminuzione della lettura individuale è un problema vero, a cui, fino ad ora, non si è trovata risposta. Anche se, osserva giustamente un altro amico, non è questione che si possa risolvere premiando una voce che affida le sue parole solo alla scrittura, e dunque autori come Roth o DeDeLillo, ad esempio, piuttosto che Dylan.
E sin qui l'ala di mezzo, diciamo, abbastanza contenta ma con qualche perplessità. Ma non è finita.
Tra li amici mia c'avemo pure l'ala dura. Quest'ultima si è allertata perché nell'attribuzione del Nobel a Dylan ha visto agire un sorta di messaggio subliminale "che ha qualcosa di devastante", dice uno dei suoi più autorevoli rappresentanti: "Non bastano carta e penna per fare letteratura, le parole scritte, da sole, non possono più aspirare a viaggiare nello spazio e nel tempo, hanno bisogno di altri supporti, dell’immagine del loro autore, di una voce irripetibile trasmessa da un microfono, di una melodia, che s’impongono persino quando, ed è il caso di molti, quelle poetiche parole non si capiscono; e complementariamente, non serve più leggere, non ce n’è più bisogno... The times they are really a changin’, but in a bad way...". Ed è tutto un elevarsi da incubo di palchi, palcoscenici, reading, festival, e mo' basta, però, aifestivalletterarivaccitu. (Questo amico è un bravo e assai schivo scrittore, oltre che un grande lettore e una persona assai schiva, appunto, ma che schivo... [faccina + cuori].)
Insomma, una considerazione assai pessimistica, ma almeno in parte inconfutabile, considerato che certi fenomeni culturali, magari interessanti e belli in sé, non sono serviti di una virgola ad aumentare i dati sulla benedetta "forza motrice", almeno nel nostro Paese. Tra parentesi, anche se non dovrebbe essere rilevante, pure l'ala dura delli amici mia adora Dylan.
Concludo the pippon dando la parola a due rappresentanti della cerchia di amici più geograficamente vicini alla scrivente, che ancora oggi, a distanza di un giorno dal Nobel, mi sembrano discretamente contenti:
Amico 1 g.v.a.s.: "Per noi sardi [il Nobel a Dylan] è una conferma, io sostengo sempre che sono stato educato alla narrazione da romanzieri analfabeti. Persone che conoscevano la tecnica del dire, erano maestri della parola, facevano le pause giuste in modo da favorire la memorizzazione di chi ascolta e in loro il ricordo. Non è letterattura perché non è scritta? E chi se ne importa."
Uno di loro, ad esempio, a proposito dell'assenza della lettura individuale come "forza motrice" della parola (la caratteristica di questo Nobel, appunto, che poi è il motivo che ha irritato Baricco & C.: "Cosa c'entra Dylan con la letteratura?") domanda (ma la sua è una domanda più seria):
"Quanto dell'attuale mondo della comunicazione ricerca l'abolizione di quella forza motrice?".
C'è di che riflettere, in effetti, perché la diminuzione della lettura individuale è un problema vero, a cui, fino ad ora, non si è trovata risposta. Anche se, osserva giustamente un altro amico, non è questione che si possa risolvere premiando una voce che affida le sue parole solo alla scrittura, e dunque autori come Roth o DeDeLillo, ad esempio, piuttosto che Dylan.
E sin qui l'ala di mezzo, diciamo, abbastanza contenta ma con qualche perplessità. Ma non è finita.
Tra li amici mia c'avemo pure l'ala dura. Quest'ultima si è allertata perché nell'attribuzione del Nobel a Dylan ha visto agire un sorta di messaggio subliminale "che ha qualcosa di devastante", dice uno dei suoi più autorevoli rappresentanti: "Non bastano carta e penna per fare letteratura, le parole scritte, da sole, non possono più aspirare a viaggiare nello spazio e nel tempo, hanno bisogno di altri supporti, dell’immagine del loro autore, di una voce irripetibile trasmessa da un microfono, di una melodia, che s’impongono persino quando, ed è il caso di molti, quelle poetiche parole non si capiscono; e complementariamente, non serve più leggere, non ce n’è più bisogno... The times they are really a changin’, but in a bad way...". Ed è tutto un elevarsi da incubo di palchi, palcoscenici, reading, festival, e mo' basta, però, aifestivalletterarivaccitu. (Questo amico è un bravo e assai schivo scrittore, oltre che un grande lettore e una persona assai schiva, appunto, ma che schivo... [faccina + cuori].)
Insomma, una considerazione assai pessimistica, ma almeno in parte inconfutabile, considerato che certi fenomeni culturali, magari interessanti e belli in sé, non sono serviti di una virgola ad aumentare i dati sulla benedetta "forza motrice", almeno nel nostro Paese. Tra parentesi, anche se non dovrebbe essere rilevante, pure l'ala dura delli amici mia adora Dylan.
Concludo the pippon dando la parola a due rappresentanti della cerchia di amici più geograficamente vicini alla scrivente, che ancora oggi, a distanza di un giorno dal Nobel, mi sembrano discretamente contenti:
Amico 1 g.v.a.s.: "Per noi sardi [il Nobel a Dylan] è una conferma, io sostengo sempre che sono stato educato alla narrazione da romanzieri analfabeti. Persone che conoscevano la tecnica del dire, erano maestri della parola, facevano le pause giuste in modo da favorire la memorizzazione di chi ascolta e in loro il ricordo. Non è letterattura perché non è scritta? E chi se ne importa."
Amico 2 g.v.a.s.: "È un timore forse fondato", scrive, rispondendo all'ala dura delli amici mia, "ma non vedrei un sintomo del problema nel Nobel dato a Bob Dylan (che caso mai ha altri significati). La sua radice sta in altri processi storici in corso. Possiamo anche sostenere che per molti versi ci troviamo in un'epoca di decadenza. Non sarebbe la prima volta nella storia dell'umanità. Ricordiamo però che la lettura in solitaria, come esperienza individuale, è un fenomeno molto meno universale e di lunga durata di tutte le altre espressioni letterarie e narrative (in senso lato). È un fenomeno molto europeo e molto moderno (nel senso di Età moderna). In Italia è sostanzialmente un fenomeno tutto contemporaneo (nell'Ottocento, il secolo "del romanzo", in Italia non si leggeva quasi nulla, ma c'era l'opera!). Alcune riserve onestamente le trovo un po', come dire, elitarie, a volte proprio reazionarie (a volte). Non mi preoccuperei troppo, insomma. Le storie, la poesia e i narratori non scompariranno mai finché esisterà la nostra specie."
13 ottobre 2016
Sull'abbronzatura dei provocatori del nulla
L'abbronzatura dei provocatori del nulla è particolarmente
fosforescente. Dà sul verdino, con sfumature giallo ocra che lasciano
intravedere dei pois che sfumano verso il viola. Ma terso. Ter-so. Un
capolavoro di ingegneria termo nucleare apotropaica senza capo né coda. I
provocatori abbronzati sono una sagoma sagomata verso il tendine che
balla come un fiore delicato sopra un treno in corsa verso il
vattelapesca, ma appena attenuato dalla noia che scaturisce senza se e
senza ma, incontrollabile come un. U.n., ripeto, ma anche n.u., perché
sono attirati dai palindromi, oltre che dalle creme solari. Grazie,
buonasera.
10 ottobre 2016
Autunno a Bidderosa
Non ricordo più da chi ho sentito questa storia quando ero bambina; forse dalla catechista, o forse alla radio, magari a Cararai. Non so. Fatto sta che di tanto in tanto, pur essendomi sottratta ormai da tempo immemore da ogni catechesi e pure da tutti i Cararai, mi torna in mente come un invito alla rassegnazione o a una resa sfinita alle cose non volute e involute, ma troppo più grandi della mia capacità di contrastarle.
– Signore, hai detto che non mi avresti mai abbandonata, ma mi sono voltata e ho visto solo le mie orme sulla spiaggia.
8 ottobre 2016
Danzatrice
Entra in studio e mi fa:
"Per cortesia, mi vedi se la danzatrice che sta ballando con Roberto Bolle è la figlia di Massimo Ranieri?".
"Come sia chiama?"
"Luisa".
E e mi appresto a digitare (un po' seccata, mi ha disturbato): Lu i sa Ca l...
"No, ho detto Ranieri"
"Ma scusa, non è la figlia di Giovanni Calone?"
"Ahahahah!"
E ride, o scemm e guerr.
7 ottobre 2016
H
Non ero più entrata al San Francesco da quando è morta mamma, poco più di un anno fa, e dunque ancora non avevo visto l'esito dei lavori che al suo ingresso sono durati un tempo infinito e, spesso, disagiato. Così, oggi, come sono entrata nell'immenso androne realizzato, ho avuto la suggestione di accedere al Teatro La Fenice, ma disadorno. C'era solo un omino al centro di una specie di recinto, che mi fa: "signora, il numeretto deve prenderlo di là, oltre il proscenio". A lato una donna, piccolissima anche lei e circondata di piante, piantine, orchidee come alberi, più alte di lei. Ho preso il numeretto, prenotate le analisi e sono tornata nell'androne, attraversandolo in diagonale, che sono più di cento passi, sino ai fiori. Mi sentivo triste e io non la sopporto la tristezza, mi sembra una mancanza di rispetto di sé, e quando posso reagisco. Ho comprato un ciclamino, per il buon augurio, per la tiroide ballerina, che fa vedere teatri negli androni degli ospedali.
5 ottobre 2016
Codici per detective selvaggi
Quasi un elenco del telefono, in codice, per agenti segreti: profumo di antico, implicitamente nemico della rivoluzione e dei Gggiovani.
Giuseppe A. Samonà alla voce "Rocci" in Quelle cose scomparse, parole, p.108.
L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.
Tiziana Drago, "Il liceo classico e i suoi nemici", Il manifesto (di avantieri).
Tiziana Drago, "Il liceo classico e i suoi nemici", Il manifesto (di avantieri).
4 ottobre 2016
Costa Caddu
Sorpreso da un'immagine di uomini in cammino
Solitamente non faccio caso a chi va e viene dal socialino, a meno
che, ovvio, non si tratti di amici e amiche con cui interagisco
abitualmente. Nessun problema, dato che per me vale la serena regola che
da ogni posto è bene allontanarsi, di tanto in tanto, e impiegare il
proprio tempo in altri modi, e poi magari ritornare, per poi riandarsene
e, semmai, se se ne ha voglia, ritornare ancora.
Tutto questo popò introduttivo solo per dire che, invece, c'è anche chi è andato e non è mai più ritornato, come un tipo tipone con cui interagivo poco ma che che leggevo sempre, perché scriveva cose bellissime, che quasi mi veniva voglia di conservare. E qualche giorno dopo la morte di José Saramago l'ho fatto, menomale: ho conservato questo, che propongo con alcuni stralci, perché l'originale è lunghissimo, oltre che scritto da dio.
Tutto questo popò introduttivo solo per dire che, invece, c'è anche chi è andato e non è mai più ritornato, come un tipo tipone con cui interagivo poco ma che che leggevo sempre, perché scriveva cose bellissime, che quasi mi veniva voglia di conservare. E qualche giorno dopo la morte di José Saramago l'ho fatto, menomale: ho conservato questo, che propongo con alcuni stralci, perché l'originale è lunghissimo, oltre che scritto da dio.
"Quando penso a
Saramago e ai suoi romanzi, vengo sorpreso da un'immagine di uomini in
cammino. Tantissimi, insieme, chi a piedi, chi su un carro. Non si
conoscono, prima di incamminarsi, si conosceranno camminando insieme. Le
moltitudini in viaggio sono presenti in tutti o quasi i suoi romanzi
storici. [...] Nell'immagine mi si confondono gli operai che andranno a
costruire il convento di Mafra, i pellegrini di Fatima tra i quali
Ricardo Reis, Giuseppe e Maria incinta che vanno a Betlemme per il
censimento. […] Viaggi a volte simili a deportazioni (e il pensiero va a I quaranta giorni del Mussa Dagh), ma sempre illuminati da un
affiorare involontario e incontrollato di umanità.
Il viaggio è distanza (sia detto con perspicacia). Quando Hans Castorp sale sulla montagna magica dove il cugino Joachim è ricoverato, si stupisce di come lo spazio generi effetti di oblio che siamo soliti attribuire al tempo, e al tempo solo. I personaggi, anzi gli uomini, di Saramago, rappresentano quegli effetti modificandosi insieme alla storia, anche quando, come nel caso di Ricardo Reis, vogliono difendere il loro spazio, immergendosi in una trincea psicologica. Gli uomini di Saramago sono mobili e continuamente riplasmati dalla storia e dalla loro interazione con la storia. I loro viaggi sono la nostalgia che gli uomini della fine del ventesimo secolo provano, obbligatoriamente, per il viaggio. Infatti, degli uomini di Saramago nessuno viaggia per viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa essere solo, forse, e ancora, quella del viaggio."
(La foto dalla terrazza di Cala d'Ambra è di ieri sera.)
Il viaggio è distanza (sia detto con perspicacia). Quando Hans Castorp sale sulla montagna magica dove il cugino Joachim è ricoverato, si stupisce di come lo spazio generi effetti di oblio che siamo soliti attribuire al tempo, e al tempo solo. I personaggi, anzi gli uomini, di Saramago, rappresentano quegli effetti modificandosi insieme alla storia, anche quando, come nel caso di Ricardo Reis, vogliono difendere il loro spazio, immergendosi in una trincea psicologica. Gli uomini di Saramago sono mobili e continuamente riplasmati dalla storia e dalla loro interazione con la storia. I loro viaggi sono la nostalgia che gli uomini della fine del ventesimo secolo provano, obbligatoriamente, per il viaggio. Infatti, degli uomini di Saramago nessuno viaggia per viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa essere solo, forse, e ancora, quella del viaggio."
(La foto dalla terrazza di Cala d'Ambra è di ieri sera.)
Cala d'Ambra, 3 ottobre 2016, © Mag |
2 ottobre 2016
Mantra
Cosa? È finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso noi. È forse finita quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour? Col cazzo che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.
(Bluto [John Belushi] in "Animal House" di John Landis, 1978.)
[pic]
[pic]
27 settembre 2016
Madre d'inverno
Se vedete in un giardino le viole
divise in due per colore, tutte
le gialle di qua, e tutte le viola
di là, e se vedete una gialla una sola
finita per sbaglio di là, e se in tasca
avete per caso qualcosa
ripiantate nella sua giusta
aiuola quella spaesatissima viola,
si sta un po’ anzi tanto a disagio
di là.
divise in due per colore, tutte
le gialle di qua, e tutte le viola
di là, e se vedete una gialla una sola
finita per sbaglio di là, e se in tasca
avete per caso qualcosa
ripiantate nella sua giusta
aiuola quella spaesatissima viola,
si sta un po’ anzi tanto a disagio
di là.
25 settembre 2016
Un ricordo dell'Avvocato Gallo
Conoscevo abbastanza bene l'anziano editore di Juvence, Alessandro Gallo, avendo collaborato con lui in diverse occasioni: per la fiera "Oltre mare" di Napoli, per la sempre grande Torino (vedremo cosa accadrà, adesso...), per le "Conversazioni del Mediterraneo" nelle città della Val di Noto, in Sicilia, per "Più libri, più liberi" a Roma, per presentazioni e rassegne in Sardegna. Ci siamo confrontati nel tempo su tanti aspetti culturali ed editoriali: aveva un grande esperienza e lavorava dando fiducia e strumenti. Fu uno dei miei punti di riferimento gli anni in cui io mi sono intensamente occupata della realizzazione e della cura di una bellissima collana di narrativa che ha ospitato anche autori e autrici del composito mondo arabo. Era un uomo d'"altri tempi", un vero uomo di cultura, e ci davamo del lei. Fui felice il giorno che lui, non certo facile ai complimenti, mi disse: "Lei è molto abile". "Abile" non me lo aveva mai detto nessuno e, dunque, lì per lì non riuscii ad afferrare bene la valenza che dava Gallo alla parola, ma archiviai con tranquillità e gratitudine sentendo di avere la sua non scontata stima, la sua fiducia.
L'Avvocato Gallo, così lo chiamavo, oltre a essere un editore puro (in Juvence, che ha un catalogo di alto livello scientifico, ha veramente investito un patrimonio) è morto qualche tempo fa. Oltre al dispiacere personale, per averlo conosciuto da vicino, anche ospite della sua bella casa romana, ho temuto per il suo progetto editoriale, perduta la guida, consapevole di come non sia facile, soprattutto in Italia, resistere sul fronte delle letterature arabe contemporanee. La "mia" collana, intanto, praticamente non esiste più: è ferma, inattiva, essendo stata, per così dire, buttata alle ortiche, ossia progettata in una situazione in cui erano e sono carenti gli strumenti che possono derivare soltanto dall'autentica consapevolezza del valore del progetto. Il valore che, appunto, ha sempre dato Gallo al suo e che anche io davo al "mio": il nostro grande punto in comune, e forse, chissà, la mia "abilità". Veniamo al dunque.
Oggi apprendo con gioia, invece, che, morto l'Avvocato Gallo, i miei timori su Juvence erano infondati: la piccola casa editrice ha resistito, ce l'ha fatta. Pertanto, ricordando l'amico editore, volentieri faccio pubblicità a quest'ultima sua pubblicazione. Lunga vita a Juvence.
Trachite rossa
Orani, Santa Gruche. Porta d'ingresso nel cortile della casa dove nacque e visse Marianna Bussalai. Una dimora settecentesca, ancora bellissima, che fu degli Angioj, con le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la corte all’ingresso e il cortile interno, dove ancora cresce rigoglioso il melograno.
22 settembre 2016
Zanna Bianca
Nun ce sta nient a fa', dicono a Napoli: anche dietro la faccia(ta) della persone perbene può nascondersi il o la delinquente. Così, stamattina, mi torna in mente la scritta sulle mura aureliane, lato San Lorenzo, a Roma, ai tempi di quand'ero ragazza: "Sguinzajamo l'istinto!". Era firmata, tutt'attaccato, "forzaromaforzalupi". Giusto che la abbiano cancellata, e restituite le mura al loro antico splendore, ma l'avremmo dovuta tenere marchiata nella mente e nel cuore.
20 settembre 2016
Ricamatrici
Le opere di Alighiero Boetti, a distanza di anni, non smettono di stupirmi e ogni volta che ne scorro le immagini nei cataloghi scopro qualcosa di nuovo. Il grande artista italiano continua ad affascinarmi, insomma, e oggi ho pensato che se nelle didascalie delle sue opere avessi trovato anche i nomi delle artigiane che di volta in volta le hanno realizzate, forse gli avrei voluto ancora più bene.
Nelle foto provenienti da diversi siti internet (Artribune, Li vuoi quei kiwi, Culture Monster) alcune delle straordinarie ricamatrici afgane delle mappe e degli arazzi.
Nelle foto provenienti da diversi siti internet (Artribune, Li vuoi quei kiwi, Culture Monster) alcune delle straordinarie ricamatrici afgane delle mappe e degli arazzi.
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