Ho visto "Habemus papam" e ancora sono dentro le sue atmosfere. Per niente semplice scriverne ma non è importante farlo: ritornerò sulle metafore del film che mi sono rimaste quando capiterà, intanto che ho già voglia di rivederlo. Moretti ha ampliato e, se è possibile, affinato la potenza del suo linguaggio, o così è per me. Nel presente che decreta la fine della grandezza dell'uomo per l'incapacità di riconoscere la propria fragilità e (in) quella dei propri simili, saperla raccontare con rigore e tenerezza, questa fragilità, è la cifra che oggi fa grande il regista ai miei occhi.
(Un appunto nella moleskina mentre scorrevano i titoli di coda: La Chiesa ha bisogno di una guida che porti grandi cambiamenti, che abbia comprensione per tutti. La folla del film è contenta e applaude a queste parole di Michel Piccoli.)
Mi piacerebbe mettere nel blog la sequenza dell'interno dell'automobile con la psicanalista alla guida, il papa (senza l'accento) nel sedile accanto, e i due ragazzini, fratello e sorella, figli di lei, nei sedili posteriori. Mi riporta a un'altra, che amo moltissimo, di La stanza del figlio.
P.S.: Mi sono espressa un po' di più (come a volte accade confrontandosi) nella social recensione organizzata da Strelnik. Riporto anche qui.
Anche se il film mi è piaciuto moltissimo, mi ha fatto ridere e, molto, sorridere, forse non ci ho capito granché. Insomma, Strel, in fondo sono solo le tue “seghe mentali” che mi sento di condividere veramente: c’è una straordinaria forza in quest’uomo che rivendica la sua fragilità e la sua paura: quel suo “non ce la faccio” non è l’urlo di un pavido ma l’atto di rivolta da cui attingere il coraggio di ributtarsi sulla strada (senza cellulare), osservare la realtà da un altro punto di vista, ricostruire se stesso, ritrovare la passione (la recitazione), nuove parole per dialogare con la realtà (la scena finale, con Melville che ritrova parole sincere – come una nuova dimora -, il coraggio per dirle, l’empatia con con una folla che aspetta di poter ascoltare una parola sull’uomo e sul dolore; per contrasto, lo sconcerto dei cardinali che aspettano parole potenti e istituzionalmente risolutive… E anche su questo versante molte stratificazioni dell’umano, su cui insiste gran parte del film.) Troppo sfumate, meno semplici da analizzare sono le figure femminili, non isolate dal contesto. Ho trovato interessante e particolarmente ironica l’interazione tra la psicanalista/madre, Melville, i figli di lei, fratellino e sorellina, che battibeccano (Interno dell’automobile, sequenza molto simile a un’altra vista in “La stanza del figlio”. La psicanalista/madre: “Lei picchiava sua sorella da bambino?”; Melville: “Certo.”): c’è un invito allo spostamento su un piano meno esplicito del film? Non lo so. Invece non vedo contemplato, nella figura del papa, un discorso sul “fallimento”, dimensione esistenziale di chi non riesce a superare “la prova”, traducibile anche – semplificando – nella morale borghese del disgraziato che non dà prova di successo. La consapevolezza dell’inadeguatezza al ruolo nel punto in cui la propria umanità rischia l’annichilimento (un’esperienza così comune, altro che papa!) non mi sembra si possa definire come uno scacco. Non è a un’immagine di “fallimento” che conduce la tenda rossa che si apre sul nero dell’assenza e neppure è un’immagine di libertà. Forse rivedendo il film – cosa che ho idea di fare – la smetterò di parlarne così, solo per sottrazione.
P.S.: Mi sono espressa un po' di più (come a volte accade confrontandosi) nella social recensione organizzata da Strelnik. Riporto anche qui.
Anche se il film mi è piaciuto moltissimo, mi ha fatto ridere e, molto, sorridere, forse non ci ho capito granché. Insomma, Strel, in fondo sono solo le tue “seghe mentali” che mi sento di condividere veramente: c’è una straordinaria forza in quest’uomo che rivendica la sua fragilità e la sua paura: quel suo “non ce la faccio” non è l’urlo di un pavido ma l’atto di rivolta da cui attingere il coraggio di ributtarsi sulla strada (senza cellulare), osservare la realtà da un altro punto di vista, ricostruire se stesso, ritrovare la passione (la recitazione), nuove parole per dialogare con la realtà (la scena finale, con Melville che ritrova parole sincere – come una nuova dimora -, il coraggio per dirle, l’empatia con con una folla che aspetta di poter ascoltare una parola sull’uomo e sul dolore; per contrasto, lo sconcerto dei cardinali che aspettano parole potenti e istituzionalmente risolutive… E anche su questo versante molte stratificazioni dell’umano, su cui insiste gran parte del film.) Troppo sfumate, meno semplici da analizzare sono le figure femminili, non isolate dal contesto. Ho trovato interessante e particolarmente ironica l’interazione tra la psicanalista/madre, Melville, i figli di lei, fratellino e sorellina, che battibeccano (Interno dell’automobile, sequenza molto simile a un’altra vista in “La stanza del figlio”. La psicanalista/madre: “Lei picchiava sua sorella da bambino?”; Melville: “Certo.”): c’è un invito allo spostamento su un piano meno esplicito del film? Non lo so. Invece non vedo contemplato, nella figura del papa, un discorso sul “fallimento”, dimensione esistenziale di chi non riesce a superare “la prova”, traducibile anche – semplificando – nella morale borghese del disgraziato che non dà prova di successo. La consapevolezza dell’inadeguatezza al ruolo nel punto in cui la propria umanità rischia l’annichilimento (un’esperienza così comune, altro che papa!) non mi sembra si possa definire come uno scacco. Non è a un’immagine di “fallimento” che conduce la tenda rossa che si apre sul nero dell’assenza e neppure è un’immagine di libertà. Forse rivedendo il film – cosa che ho idea di fare – la smetterò di parlarne così, solo per sottrazione.
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