27 aprile 2011

L'irrequietezza non breve

"È sempre difficile, forse impossibile almeno per me rispondere alla domanda su chi e che cosa è stato un altro da me. Ebbene, se dovessi rispondere su chi è stato Luigi Pintor, risponderei subito: un eversore. Uno che voleva sovvertire la società in cui viveva. Di essa non gli piacevano né le leggi, né i costumi, né i modelli. Si ribellava a una oppressione? Mi pare che fosse diverso e di più. Prima ancora, guardando a lui, Luigi Pintor, mi sembrava che egli protestasse innanzitutto contro un modo di leggere la vita: sembrava provare una nausea per i codici e i sacrari posti sugli altari. E lo stupiva l'ipocrisia che stava al fondo di quei canoni. Anche se poi alla fine del suo amaro riflettere sembrava sempre chiedersi con un breve ghigno: ma di che siamo sorpresi? Certo, alla fonte del guasto era per lui il capitalismo, con la sua avidità insanabile. Luigi non era un riformista. Non lo era mai stato, anche quando scendeva con sarcasmo a denunciare e misurare l'avarizia della borghesia nei suoi riti di elemosina sociale. Il suo sogghigno era come dire: avete visto di che pasta sono fatti costoro? Ma c'era alle spalle come un'idea del Male del mondo, di una ingiustizia più vasta della violenza propria dell'ordine sociale imperante. E il furore e la collera contro tale ordine sociale in auge sembrava in lui accrescersi proprio in rapporto alla durezza dell'infelice condizione umana. Tanto più la borghesia era sordida. Dunque: un apocalittico mediterraneo? La cosa sorprendente in questo amarissimo e aspro narratore del male di vivere, era la testarda tenacia combattiva con cui egli si impegnava si potrebbe dire: ogni giorno nella lotta quotidiana, sullo scontro pratico della sinistra come essa era, nei suoi difetti e nelle sue più elementari speranze, nelle sue passioni e prove di ogni giorno. E come il suo gusto per la pagina alta e severa, per il canto disperato, si mischiavano all'elzeviro bruciante sul giornale, alla staffilata breve contro il nemico di classe, contro i trafficanti della politica. Qui  per me era il suo volto inconfondibile che tornava poi anche nelle pagine così stringenti e allusive dei suoi romanzi o memorie.
La perdita è grave, nel momento in cui la partita mondiale vede toccare nuove altezze e pone la guerra come asse centrale della politica. E sono alla prova, di nuovo, letture del mondo, sistemi mondiali di politica. Altri dirà della vocazione naturale di Luigi alla scrittura, della sua passione singolare a trasformare l'emozione etica in racconto e l'abbandono alla memoria come interrogazione sulla vita. A me è caro ricordare la sua alta irrequietezza sul senso dell'essere, e insieme come egli mescolava il suo stare quotidiano nella mischia con le domande sull'Ultimo. Qui vedo la cifra dell'uomo. 
Non era semplice Luigi. La sua irrequietezza non era breve. E la sua passione polemica a guardare in fondo – scavalcava anche la sua parte. Riflettendo su di lui, ora che è composto nella calma severa della morte, bisognerà risalire lontano a una vena, a una costa d'Europa maturata nella «guerra totale» (come l'ha definita Hobsbawm) apparsa sul globo a metà circa del Novecento e poi  nel tempo di Bush tornata a misurarsi col nuovo livello raggiunto dall'arte dell'uccidere. Qui per me vengono anche domande sul passato. Che vedemmo, che capimmo allora, in quell'incendio mondiale della nostra gioventù, quando Luigi sfiorava appena i vent'anni e già era nella bufera della insorgenza partigiana? E che non capii io della rottura del manifesto che ci divise? E ancora oggi non siamo riusciti a costruire un livello di incontro adeguato alle varianze faticose della sinistra oggi, pur dopo la novità straordinaria dei new global. Da che viene l'insuperato che ancora ci spacca? E come possiamo pensarti, ed evocarti, fratello che te ne vai, senza cercare risposta a queste domande? Dal tuo silenzio, come ancora ci chiami testardamente nella tua amara interrogazione sul domani...".
Pietro Ingrao, "Le pagine di un sovversivo", il manifesto, domenica 18 maggio 2003.

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