Ma perché anticipare i fatti? Shagar non ha ancora visto il cordone di sicurezza intorno all’università, i manganelli, i lacrimogeni, il fumo e il fuggifuggi generale.
Né ha notato quel contadino olivastro, povero e giovanissimo che indossava la divisa militare e stava in piedi fuori del recinto, con la canna del fucile infilata tra due sbarre, per puntarla pazientemente verso i manifestanti, quasi avesse imparato il mestiere andando a caccia di capriolo con un nobile europeo del Medio Evo. Lei non è stata ancora colpita da un manganello che le avrebbe lasciato un segno blu sul braccio destro. Quella Shagar viene dopo. La Shagar di adesso ha diciassette anni ed è una matricola del Dipartimento di Storia.
Si era davvero iscritta a quel corso di studi, solo perché era stata influenzata in tal senso dal professore che aveva avuto a scuola per tre mesi? Difficile stabilirlo: tante cose possono succedere in pochi giorni, quindi figuriamoci in cinque anni di vita di una ragazzina che era cresciuta amando i libri come un topolino di biblioteca. Un giorno, mentre stava in quella della sua scuola, le era capitato tra le mani un volume sulle leggende egiziane antiche. Da lì era passata a tutti gli altri testi disposti nella stessa fila e, alla fine, aveva scelto di studiare Storia all’università.
Agosto 1967. A tavola, durante il pranzo, suo padre avrebbe annunciato la notizia, ridendo:
– Una laurea con la lode e la menzione di merito.
Lei non rise. Senza dire niente, andò a rinchiudersi nella sua stanza.
Anno accademico 1967-1968. Shagar era tutta concentrata sugli studi dell’anno preparatorio del magister, il titolo per l’abilitazione alla docenza universitaria. Andava e veniva dalla sua facoltà. Frequentava le lezioni e la biblioteca. Leggeva, riempiva le schede di citazioni e note, consegnava la ricerca che le era stata assegnata, puntuale ed efficiente come una macchina. Ma la sua anima che fine aveva fatto? Se ne era andata via alla chetichella per appartarsi in un posto lontano. Lei non si arrabbiava, non piangeva, né prendeva una pausa. Nei giornali, alla radio e sulle bocche dei parenti e dei vicini circolavano tanti discorsi sul Sinai e sui soldati dispersi in mezzo al deserto. Lei captava tutto e tirava avanti per la sua strada, come se nulla fosse.
– Perché hai cambiato idea? – le avrebbe chiesto il suo professore, aggiungendo: – Hai sempre voluto specializzarti in storia faraonica. Che cos’è successo di nuovo?
Gli avrebbe semplicemente risposto:
– Studierò Storia Moderna. Credo che sia quello che voglio.
Qualche anno dopo, Shagar avrebbe indicato quella svolta con l’espressione ‘inversione a U’: era un cambiamento netto e integrale, come quando, in macchina, sterzi tutto a sinistra per percorrere la stessa strada in senso contrario. Si era procurata tre scatoloni di cartone per riporvi i testi di storia, mitologia e architettura dell’antico Egitto che avrebbe tolto dagli scaffali: vi erano quelli dello studioso egiziano Salìm Hassan, con le copertine sbiadite che riportavano soltanto il nome dell’autore; quelli francesi e inglesi, con le copertine lucide decorate da perfette riproduzioni di particolari delle Valli dei Re e delle Regine; quelli che aveva comprato da quando aveva undici anni; quelli che aveva fotocopiato dalla biblioteca dell’università e poi rilegato con delle copertine rigide di color verde oliva, confezionate da un artigiano della zona di al-Azhar, vecchio amico di suo nonno ‘Abd al-Ghaffàr che glielo aveva indicato. Sistemati tutti quei libri negli scatoloni, lei si era guardata intorno. Missione non ancora compiuta: restavano da sistemare i quadri. Erano delle semplici riproduzioni su carta che aveva fatto incorniciare. A questo scopo lei le aveva arrotolate e legate con un nastro sottile per portarle in un negozio del centro. Dopo quindici giorni le aveva riprese in consegna: erano quattro grandi quadri, ognuno racchiuso in una cornice e protetto da un vetro. Li aveva portati a fatica fino alla via principale, dove le erano passati davanti tre tassì, con gli autisti che rifiutavano di tirarla su insieme a quel carico. Finalmente, ne era giunto uno di buon cuore che aveva accettato di accompagnarla e quindi l’aveva anche aiutata ad arrivare con i quadri fino alla porta di casa.
Sopra il letto, proprio di fronte alla porta della stanza, aveva appeso l’immagine di Maat, la signora con la bilancia, dea della verità e della giustizia. Quella figura femminile guardava alla propria destra. Seduta alla scrivania, Shagar riusciva, con una piccola rotazione a manca, a vedere il viso di Maat che, rivolto tutto in una direzione, lasciava in mostra solamente il profilo sinistro. La lunga piuma di struzzo, messa in posizione verticale, era tenuta ferma da un nastro rosso legato intorno alla testa della dea, all’altezza della fronte. Iscrizioni geroglifiche apparivano sullo sfondo.
Sulla parete a sinistra, proprio dietro di lei quando stava alla scrivania, si trovavano altri due quadri: il primo raffigurava Iside. Lo sfondo era celeste, la dea aveva i capelli crema e azzurro, mentre la sua corona, formata dal disco solare e dalle corna di Hathor, era parzialmente dipinta di un giallo ocra misto al colore del legno di rosa, usato anche per il viso, le spalle e le braccia. Iside reggeva lo scettro reale con la mano destra. Accanto alla sua immagine era appesa quella della dea vacca, Hathor, raffigurata insieme al faraone bambino Amenhotep II. Entrambi i loro corpi erano color ocra. I capelli di Amenhotep II e le macchie del manto della vacca – macchie a foggia di stelle rappresentanti le anime dei morti – erano verdi. Seduto sulle ginocchia sotto l’arco formato dal ventre e dalle zampe di Hathor, il piccolo faraone stava su uno sfondo azzurro chiaro, con la testa alzata nell’atto di allattarsi alla mammella. Sopra la sua scrivania Shagar aveva messo l’immagine di Nut, la dea del cielo. Era una donna che toccava la terra, da un lato, con le punte delle mani, e dall’altro, con quelle dei piedi. Le gambe, le braccia e il fusto decorato da stelle formavano un arco, circondato dal corpo del suo fratello e sposo, Geb. Dio della terra, quest’ultimo le giaceva nel grembo, mentre le piante gli crescevano sulla schiena.
Shagar tirò giù i quadri, li avvolse in un lenzuolo e li legò insieme. Prese la copia del papiro di Ani che teneva sempre sulla scrivania, e la buttò in uno dei tre scatoloni. Chiese a sua madre di aiutarla a spostarli fuori della stanza. Poi si procurò una scala, per portarli uno a uno nel solaio. Sua madre le domandò allora perché stesse facendo tutto ciò, lei borbottò delle parole incomprensibili. Tornata nella sua camera, si guardò in giro: ormai non vi era rimasto più niente, eccetto gli scaffali con sopra qualche vocabolario, la piccola libreria completamente vuota, la scrivania, il letto e la toeletta. La stanza sembrava spoglia, misera e fredda. Lei si sdraiò sul letto e si addormentò.
Una cartolina colorata, grande quanto il palmo di una mano, infilata sotto il vetro della scrivania: raffigurava l’enorme bilancia con i due piatti che Thot, il dio della scienza, era fermo in piedi a osservare, tenendo i suoi fogli nella mano sinistra e la penna nella destra. Shagar si accorgeva ora di avere dimenticato di togliere quell’immagine il giorno prima. La guardò e decise di lasciarla lì.
Radwa Ashur, Atyàf. Fantasmi dell’Egitto e della Palestina, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanelli, Ilisso, Nuoro 2008, pp. 43-46.
Radwa Ashur, Atyàf. Fantasmi dell’Egitto e della Palestina, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanelli, Ilisso, Nuoro 2008, pp. 43-46.