Voce cupa di metallo convesso, pelli di animali, maschera di quercia scura, dura. Carnevale dolente, in lutto perenne. E insieme, uomini vestiti di bianco, rosso e nero, bardati di bottoni d'oro come cavalli vincitori, con gli agili lazoz a costringere in un percorso preciso gli uomini-bestia: pericolosi, belluini, da tener distanti dal resto dell'umano – che siamo noi. Tenuto a bada mentre ritmicamente danza sotto il peso della mastruka e di trecento campanacci di ferro, il mamuthone danza monotanamente sui pesanti cusinzos, danza nel limite della regola antica che gerarchicamente dispone chi con-tiene e chi è con-tenuto. Così a essere tenuto e preso, qui, è l’inumano, l'uomo-bestia, ridotto all’obbedienza nella sfilata rituale dal controllo dei lazos – o le sochas – degli issochadores: gli uomini integri, il cui viso è scoperto, il cui corpo è vestito con abiti leggeri, la cui abilità non è impedita dall'insostenibile pesantezza del metallo sonante. Uomini integri che catturano e costringono alla danza ripetitiva e straordianaria insieme, e spaventosa, il mamuthone.
Del microcosmo simbolico del rito barbaricino, qui solo sfiorato, oggi resta il gioco – ad affascinare i turisti che arrivano come mosche sugli arrosti –, la danza svuotata del fine antico di dominio del male, addomesticata e fatta armento portatile ovunque e in ogni stagione, uno dei marchi della "vera Sardegna". Così anche l'antica e umanissima aspirazione a contenere "il nemico" si confonde tra i coriandoli e le stelle filanti del carnevale contemporaneo.
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