28 febbraio 2010

L'antifascismo da madre a madre

A G. e A.

Costantino Nivola, Muro e melo (nel giardino della casa a Spring), 1951



E io vorrei scrivere di Marianna, ma non so come iniziare, e allora leggo anche per te Luna de marzu, una poesia che Montanaru sottotitolò con una semplice dedica: “a Marianna Bussalai”.
Luna de marzu sentìa / mi pares troppu istasera / Nues de onzi manera / t’attraversan su caminu, / currellende a s’affainu / sutta s’isprone ‘e su entu. / E tue in su firmamentu / b’andas bella passizera.
T’oscuras de improvvisu / e pare’ morta sa terra. / Inchizzìda est ogni serra / nieddu donzi padente. / Ma tue sighis sa via / cun tundu visu serenu. / Intantu in donzi terrenu / de custa muntagna sola / cuminzat calchi viola / a si mustrare timinde; / ca sun sa dies beninde / de sa bella primavera.
Tue che nunziadora / t’avanzas luna nontesta, / a preparare sa festa / de totta s’umanidade. / Sa tua serenidade / ti faghet cumparrer trista. / Ma tue già cun sa vista / bies sa novella ispera. / Luna de marzu, sentia / mi pares troppu istasera.
Questo è solo uno stralcio della lunga poesia che Montanaru dedicò alla sua amata amica, e mi sembra la cosa più giusta da fare – ecco trovata la chiave – iniziare a scrivere così di una donna che visse poeticamente i suoi anni, e tanto più nobilmente perché riuscì a coltivare la speranza in un contesto storico in cui sembrava regnare una profonda disperazione. Era lei, in tal senso, un'organizzatrice.
Primogenita di Antonietta Angioy e Salvatore Bussalai, Marianna nacque a Orani nel 1904. Qualche anno più tardi nacque Ignazia, la sorella che sempre fu legata a Marianna anche dall'inossidabile complicità ideale che segnò il loro operato di future antifasciste. "Signorina Ignazia", come tutti la chiamavano a Orani, era una donna di straordinaria simpatia e intelligenza, e – mi viene da pensare – agì secondo il poetico e politico dettato dell'ultimo Fortini: Composita solvantur (Le cose si dissolvono): proteggete le nostre verità. Con i suoi racconti (di cui anch’io, da bambina, sono stata fortunata fruitrice) e la cura dei documenti lasciati da Marianna, Ignazia coltivò e trasmise le idee della sorella maggiore: innanzittutto il sardismo autonomista e antifascista, passione che allora unì i giovani più emancipati della resistenza sarda al regime. Le due sorelle rimasero orfane di madre quando Marianna aveva soltanto cinque anni; il padre si trasferì a Nuoro e poi a Porto Torres per lavoro, convolando a terze nozze, e le bambine vennero affidate a Grazietta Angioy, loro zia materna; vissero nella casa settecentesca che fu degli Angioy, tra la piazza di Santa Gruche e S’Arzada ’e su Monte, a Orani: casa ricca di leggende per essere stata ancor prima l’abitazione estiva del Vescovo di Ottana e quindi ricchissima di quelle memorie che le due sorelle rivivevano nei loro racconti davanti al latte fumante e ai biscotti decorati con la glassa e serviti con stoviglie d’argento consumate dall’uso, come mi raccontava sempre nonna M. Una dimora ancora bellissima, con le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la corte all’ingresso e il cortile interno, dove ancora oggi cresce rigoglioso il melograno. Una casa attraversata dalla Storia, destinata a diventare il luogo delle riunioni clandestine antifasciste e una sorta di circolo culturale animato da un poetico gruppo di ragazze e di ragazzi, tra cui mio nonno A., che non ho mai conosciuto perché è morto giovane, ma che ho amato, anche lui, attraverso mille racconti. Così scrive Marianna in un prezioso documento autobiografico: “Il nostro piccolo gruppo viveva in un’atmosfera di poesia e di amicizia che ci impediva di rimpiangere le distrazioni della vita. I nostri autori prediletti, le intime confidenze, i fervidi scambi d’idee, sostituivano la bellezza esterna che mancava alla nostra vita. Libri preziosi, autori amati tenevano nella nostra gioventù, il posto di palazzi e di teatri, di balli e di feste, di viaggi e di amori, e ci offrivano l’universo in un compendio che a malapena ci lasciava sospettare le sue crudeli delusioni e le sue miserie infinite. Ore deliziose, generose amicizie, prime porte aperte sull’ideale…”. Un piccolo testo dove si legge anche un inno d’amore alla lettura, che riusciva ad assolvere, tra le altre, alla funzione di aprire una finestra sui sogni.
Così visse Marianna Bussalai, inventando una vita intensa per se e i suoi amici, anche nella malattia di cui pativa sin da bambina. Visse coltivando in pieno regime fascista le sue idee, leggendo e studiando la storia, la filosofia (in particolare incuriosendosi alla teosofia, corrente di pensiero che ricerca quel che accomuna Dio in tutte le religioni, ritenendo che tutte le religioni derivino da un’unica verità). Scriveva sin da bambina, iniziando molto presto a pubblicare in alcune riviste dell’epoca e in paricolare ne Il Solco, l’organo informativo e culturale del neonato Partito Sardo d’Azione, alla cui costituzione e formazione Marianna dedicò tutte le sue energie con passione, convinzione ed entusiasmo. E continuò a scrivere nonostante la censura e le angherie della polizia fascista, e nonostante questo – come Anna Achmatova, la grande poetessa russa che pure attraversò vicissitudini storiche e personali drammatiche –, continuando a operare nella ricerca della bontà degli uomini, nella fiducia di un riscatto possibile per la sua terra, nella fede in un ideale di giustizia e libertà.
Contemporaneamente continuava a tradurre i poeti sardi con l’idea di poterli divulgare e farne arrivare il canto oltre il mare. In questo senso Marianna aveva una concezione moderna della traduzione, riconoscendone la sua funzione di mediazione culturale e di conferma del valore dei componimenti scritti nella lingua madre. Un’idea all'avanguardia per quell’epoca, in Sardegna, anticipatrice e quindi poco condivisa, se teniamo presente che, sino a non molto tempo fa, il sardo non era riconosciuto come lingua ma identificato esclusivamente come rozzo e naturale mezzo di espressione per le necessità quotidiane. Tuttavia – scrive Marianna in una lettera a Montanaru – “il rapsodo non lo rinnega ancora, e sa trarre da esso nobili accenti e mirabili armonie! E le donne sarde, quiete e ignorate poetesse dell’ombra, quando liberano nei muttos o nelle meste cantilene l’ingenuo e appassionato cuore, sanno addolcirlo e ingentilirlo a meraviglia!”. Ecco, nella bellezza e nella verità dell'espressione – "quiete e ignorate poetesse dell’ombra" – c’è tutta la consapevolezza del suo destino eccezionale. 
La vita di allora era durissima, a Orani come in tutti villaggi sardi, e per una donna era un’impresa ardua, da tutti considerata folle, il progetto teso a rompere l’emarginazione dalla vita sociale e culturale imposta dai rigidi ruoli di genere. Ricordiamoci che in questa stessa epoca, a pochi chilometri dal borgo, a Nuoro, un’altra donna osava scrivere: si chiamava Grazia ed era considerata una strega e definita – neanche tanto alla spalle – "una puttana". Come invece finì e continuò la storia di Grazia Deledda lo sappiamo tutti. Strano, invece, col senno di poi, come invece le cronache della vita di Marianna siano arrivate sin qui con toni diversi da questo; almeno a me così è capitato di ascoltarle – da Ignazia, mia nonna, mia madre, mia tataia Caterina. Mi hanno sempre dato l’idea che Marianna fosse una creatura speciale: troppi particolari (qui un po' lunghi da raccontare) e l'espressione dolce e mite di queste "fonti orali", mi fanno credere che sia stata una ragazzina e poi una donna molto amata e da tutti stimata: dalle amiche e dagli amici, dalla gente di Orani (tranne, ovviamente, che da quel pugno di delatori di regime). Ignazia è stata proprio come un griot, sino all'ultimo, per tutte le persone care che l’andavano a trovare sino all'ultimo periodo, quando era molto anziana e malata, e anche di lei resterà sempre il ricordo di una donna straordinariamente intelligente, coraggiosa, colta, modesta e, per me, soprattutto molto simpatica. L’ascoltavo incantata e divertita: non si stancava mai di raccontare davanti al grande tavolo della cucina antica, stracolmo di libri, di lettere, delle testimonianze degli amici e intellettuali sardi che, a loro volta in età, continuavano a farle visita nella sua casa piena di memorie, anche per ritrovare un po’ di sé e di quel vento che li vide protagonisti di un pezzo importante della storia sarda contemporanea, allorquando si credeva ancora fervidamente nella Rinascita. E sin da bambina, a Ignazia chiedevo di raccontarmi di quella volta che Marianna nascose Emilio Lussu nella botola sotterranea della sua grande casa, delle continue irruzioni della polizia e di come durante a ogni "visita" Marianna si mettesse seduta con il telaio del ricamo in mano, in paziente attesa che la perquisizione finisse: "Non lo trovarono, eh, ma in quei giorni Marianna rischiò davvero la galera e il confino!". Un rischio che correva ogni volta in cui spediva le sue lettere o riceveva i messaggi postali degli amici (compresi quelli del mio nonno giovane…), tenuti d'occhio dai gerarchi del paese.
Solo per un pugno di settimane, Marianna non poté assistere a un evento storico che fu il leit motiv delle battaglie sardiste e che l’avrebbe riempita di gioia: nel giugno del 1947 la Costituente approvò l’articolo 116 della Costituzione della Repubblica, che includeva la Sardegna tra le regioni a Statuto Speciale. 
Morì a marzo di quell'anno, a 43 anni.
Si racconta che la sua bara leggera fu trasportata dalla casa alla chiesa al camposanto antico, dagli amici, che a turno la sollevavano con tenerezza composta, percorrendo i vicoli di Orani. E si racconta che arrivarono da Sassari, da Cagliari, da Nuoro e da ogni paese della Barbagia e dell’Ogliastra, a dare l’ultimo saluto alla nobile ragazza, amica degli umili, libera e ribelle.

27 febbraio 2010

Lina

Le infanzie non erano poi così lontane, fintanto che rimanevano nella memoria felice, con le immagini dei vicoli illuminati dalle fioche luci delle steariche, dentro alle zucche svuotate di novembre.
O nella memoria delle strade di giugno, lastricate dai petali di rose raccolte negli antichi cortili, durante la lunga infantile processione che tutti portava nella chiesa grande, per il culto del Corpus Domini.
O degli altari alzati dalle bambine su fustini vuoti del detersivo in onore delle madonnine di maggio, e adorni di semplici bicchieri pieni d'acqua, margherite, asparagina selvatica.
Delle bambole di pane sfornate a pasqua d'aprile.
Delle barrette di ferro punte sulla terra umida dei sentieri sterrati a marzo, per i nuovi quarteri. Per gioco. …

Da grandi ci siamo perse, perché la vita è così, 
ma l'esser state così intensamente bambine insieme,
quel fantastico giocare che era tutto il nostro mondo…
Giovane, buona, cara amica, che la terra ti sia lieve.

24 febbraio 2010

Gli uomini felici


Non saprei tradurre la didascalia (è in russo), ma mettiamo che sotto l'immagine vi sia un interrogativo: vi sembra questo un uomo felice?

"Uno c'è infine, che si lamenta tutto il santo giorno e impreca alla maledettissima volta che ha accettato di venire anche quest'anno al Giro. E già prevede strapazzi infami, pioggia, disagi e cimici negli alberghi, raffreddori. E giura che siccome manca un certo corridore la corsa non ha il minimo interesse e che tanto valeva non farla e che la gente se ne infischia. Nei momenti peggiori garantisce perfino che il ciclismo è morto, morto e seppellito, che dei campioni si è persa la semenza, che nel secolo dell'atomica la pedivella è un ferravecchio da museo, e che ostinarsi a tener su questa baracca è ridicolo. Ma io lo guardo. È sui quarantacinque anni, forzuto e come sempre in atto di parare qualche improvviso assalto; la faccia un po' da mastino, dura, però simpatica. Da un giorno lo osservo attentamente. Non ho capito bene se sia direttore sportivo o tecnico o capo meccanico o massaggiatore di qualche squadra. Brontola, sogghigna, vede tutto nero, si affanna correndo da una parte e dall'altra, come se qualcosa stesse sempre per precipitare. Suda, impreca e fuma fino a tarda notte. Si manterrà così, presumo, finchè sarà terminato il Giro. Uno spostato, vien da pensare, a prima vista. Ma poi ho cambiato idea. Lo osservo adesso, quando mugugna e se ne va intorno a quel fare imbronciato da bulldog, lo osservo con grandissimo piacere e mi domando: da quanto tempo non vedevo un uomo così felice?".
Dino Buzzati al giro d’Italia, Mondadori, Milano 1997, p. 39 [raccolta di venticinque articoli scritti da Buzzati nell’estate del ’49, inviato dal Corriere della Sera a seguire il 32° Giro d’Italia].  


23 febbraio 2010

D'accordo, portami via

Di tanto in tanto, invece, arriva la lettera di una persona che sta bene ed è ancora piena di entusiasmo, e conforta, come oggi, come una promessa.


Cara, /…/ spererei tanto di incontrarti e parlare, parlare... No, non sono più su quel "fronte" e, anzi, vorrei abbandonare ogni fronte della politica per dedicarmi all'unica cosa che mi pare valga ancora la pena: il complicato, malcerto fronte letterario, il lento lavorio sulle coscienze. Ho terminato un libro che trae le conclusioni dell'espereinza politica, ma in senso alto, tramite l'interpretazione di un testo tanto meraviglioso quanto incompreso: La morte di Danton di Georg Büchner, un autore tedesco morto a 23 anni, avendo scritto tre dei massimi capovalori, avendo fatto la rivoluzione e conquistato una cattedra di anatomia comparata a Zurigo. Uscirà non solo in tedesco - e in Germania lo ritengono uno dei libri di germanistica più importante degli ultimi anni - ma anche in italiano. Te lo invierò. E ora sono anima e corpo con Kafka, che credevo di conoscere fin troppo e che ho invece riscoperto in un'ottica veramente nuova. Sto preparando un tutto-Kafka: vita, morte, opere e miracoli. E sono così entusiasta di 'maneggiare' solo cose belle, buone e giuste, che tutto il resto mi pare un ricordo lontano, sofferto e per questo utile. E tu, il tuo lavoro, i tuoi? /.../ Spero proprio di avere modo di incontrarti, o qui, o a N., o a C. Se mi dovessi trasferire tra Berlino e Parigi (come spero e come avrei già fatto se solo sapessi dove andrà a vivere mio figlio, che dal prossimo anno dovrebbe comunque proseguire gli studi in Gran Bretagna), dovrai venirmi a trovare: ho voglia di metropoli, di aria, di circolazione attorno a me, e di portare con me solo poche persone, fra cui certo te.
S.

22 febbraio 2010

In cima (ai miei pensieri)


Potrei rifare il gioco di convincermi che il tutto sia tutto qui. Guardare dritto negli occhi i giorni, il centro, responsabilmente. Ho altri viaggiatori sull'aereo. Eppure la giusta direzione, il senso, li scorgo soltanto se abbasso gli occhi e guardo obliquamente, verso le periferie.
Tutto è chiaro, allora, semplice e netto come uno squarcio nella nebbia.
C'è una donna prigioniera in quei monti.
So easy, canta ora David Byrne dallo stereo dell'automobile che corre lungo il rettilineo di Locoe. A lato la Porta d'Argento, superba, magnifica. La terra ha un cielo che riflette tutti i colori del mare, e non vedo l'ora di vedere la cima del monte di Nostra Signora. Ma a questo pensiero la vista s'annebbia: di fronte a me solo quell'unico dannato centro con la crudeltà dei suoi dati. Fermo la macchina, non voglio piangere, impreco, mi pento subito, no, impreco ancora, perché io non so pregare.



17 febbraio 2010

Son cose

... che fanno piacere. Tutto qui.

Grazie, amico.

16 febbraio 2010

Viaggio al termine del Rwanda

"Da lontano, la città sembra avere dimenticato tutto, digerito tutto, ingurgitato tutto. Le strade sono piene di gente. Il flusso di automobili è incessante. Ognuno vuole farsi largo, ricominciare da capo. Camminare disinvolti per le strade e guardare la vita che passa. Comprare banane a un banchetto, ridere con dei ragazzini, parlare con qualcuno lungo la via, aspettare al semaforo che appaia l’omino verde, comprare il giornale, bere una Coca Cola a un chiosco, vivere a Kigali come se il passato fosse solo un brutto ricordo. Le facce mi sembrano familiari. Tutto è così uguale a casa mia che mi spezza il cuore.
Quando Kigali è in pace, Kigali è molto tranquilla.
Cade la notte. È densa. Punti di luce decorano le colline come candele su un albero di Natale. I fari delle auto perforano l’oscurità, laggiù, in lontananza. Tutto sembra andare al rallentatore, acquietato dalla fine del giorno. I riverberi gettano un chiarore uniforme. L’aria è fresca, la terra tiepida. Vicino a un edificio, sotto gli alberi addormentati, file di tavolini e sedie capovolte sono in attesa della prossima alba. Nelle case intorno tutto sembra tranquillo. Il suono della televisione scivola fra i viali. Rumori di frittura, di acqua che scorre, una macchina che parte, la vicina che chiama il figlio. Sagome si stagliano contro le finestre, spettacoli di ombre cinesi dietro le tende tirate. La notte assomiglia a tutte le altre.
La luna è un semicerchio perfetto. Le stelle trattengono il loro segreto doloroso. Nulla trapassa l’opacità. Bisogna risalire la notte di tutti i tempi, ritornare alla grande paura, all’epoca in cui gli esseri, davanti al loro destino, non avevano ancora scoperto la loro umanità. Oscuri terrori guidavano i loro passi. Bisogna ricordare il timore fisico dell’Altro.
Le tue paure sono più spaventose delle mie? Nel tuo abisso tu scendi più in fondo di me? Che sacrificio accetteresti per mantenere la tua umanità?
Sei pronto a questo inconcepibile incontro con la morte snaturata dalla crudeltà?
Un giorno o l’altro bisognerà fermarsi sul serio per guardarsi in faccia, partire alla ricerca delle proprie paure nascoste sotto un’apparente tranquillità.
Che i miei occhi vedano, le mie orecchie siano in ascolto, la mia bocca parli. Non ho paura di sapere. Ma soprattutto che il mio spirito mai e poi mai perda di vista quello che deve crescere dentro di noi: la speranza e il rispetto della vita.
Sì, puntare anche la propria attenzione sulla vita che scorre: gesti quotidiani, parole usuali. La vita di tutti i giorni così com’è.
Proprio come in certe isole del Pacifico, dove la gente torna a insediarsi ai piedi dei vulcani spenti per coltivare le terre fertili, Kigali si spoglia del proprio passato e indossa gli abiti di una nuova esistenza.
L’educazione della gente, i loro sguardi stupiti quando ti vedono passare, le risate aperte finiscono per lasciarci senza punti di riferimento. Davanti a questa calma, come concepire la violenza che ha percorso queste stesse strade, imboccato queste stesse curve, investito questi stessi luoghi?
Ci vuole molto tempo per accettare che nuovi frutti siano riusciti a maturare sugli alberi piantati in questa terra di sofferenze.
Le tracce della guerra sono rare in città, ma i ricordi brulicano di immagini avvelenate. Dentro di sé, in silenzio, quasi tutti portano nell’animo una lacerazione e trovano ancora la forza incredibile di vivere la normalità del tempo che riprende: gli orologi sono stati rimessi sull’ora giusta, i calendari riappesi alle pareti, i libri raccolti dalla polvere, le foto ritrovate e rincollate, estratte dal passato e dall’oblio. Gesti senza importanza ma che hanno un valore così grande da imporre il rispetto a tutte le generazioni.
La verità si trova nello sguardo degli uomini. Le parole hanno così poco valore. Bisogna penetrare sotto la pelle della gente. Vedere quello che c’è dentro.
Il Male cambia tattica e campo di battaglia. Riappare là dove abbiamo abbassato la guardia.

CHIESA DI NYAMATA
Sito di genocidio.
+ o – 35.000 morti

La donna legata.
Mukandori. Venticinque anni. Esumata nel 1997.
Domicilio: Nyamata centro.
Sposata.
Figli?”.

Véronique Tadjo, L’ombra di Imana, traduzione di Maria Teresa Carbone, Iisso 2005, pp. 11-12.

14 febbraio 2010

Tanz bambolina

Voce cupa di metallo convesso, pelli di animali, maschera di quercia scura, dura. Carnevale dolente, in lutto perenne. E insieme, uomini vestiti di bianco, rosso e nero, bardati di bottoni d'oro come cavalli vincitori, con gli agili lazoz a costringere in un percorso preciso gli uomini-bestia: pericolosi, belluini, da tener distanti dal resto dell'umano – che siamo noi. Tenuto a bada mentre ritmicamente danza sotto il peso della mastruka e di trecento campanacci di ferro, il mamuthone danza monotanamente sui pesanti cusinzos, danza nel limite della regola antica che gerarchicamente dispone chi con-tiene e chi è con-tenuto. Così a essere tenuto e preso, qui, è l’inumano, l'uomo-bestia, ridotto all’obbedienza nella sfilata rituale dal controllo dei lazos – o le sochas – degli issochadores: gli uomini integri, il cui viso è scoperto, il cui corpo è vestito con abiti leggeri, la cui abilità non è impedita dall'insostenibile pesantezza del metallo sonante. Uomini integri che catturano e costringono alla danza ripetitiva e straordianaria insieme, e spaventosa, il mamuthone.


Del microcosmo simbolico del rito barbaricino, qui solo sfiorato,  oggi resta il gioco – ad affascinare i turisti che arrivano come mosche sugli arrosti –, la danza svuotata del fine antico di dominio del male, addomesticata e fatta armento portatile ovunque e in ogni stagione, uno dei marchi della "vera Sardegna". Così anche l'antica e umanissima aspirazione a contenere "il nemico" si confonde tra i coriandoli e le stelle filanti del carnevale contemporaneo.



12 febbraio 2010

Gli alberi


da: Fotografías del Corazón Ultrarrealista. Muestra fotográfica virtual en SIELA film.
Avevo aiutato mio padre a piantare gli alberi. Li avevo visti crescere, giorno dopo giorno; mio padre era ancora vivo quando avevano cominciato a dare frutti: erano diventati gli alberi più belli del paese. Fu allora che nacque tra noi un legame inspiegabile.
Quando i nostri vicini tagliarono i loro alberi, io provai una pena indicibile. All’inizio, mi limitai a insultarli dentro di me, ma poi li affrontai, rivolgendo loro parole dure e guardandoli dritti in quegli occhi avidi e beffardi. Dissi loro che tagliando gli alberi buttavano via la fonte del loro benessere, che tagliando gli alberi era come se aggredissero la vita e certamente Dio si sarebbe vendicato di loro. Questo li rese furiosi, si misero a cospirare contro di me: loro erano orgogliosi di tutto quel denaro che maneggiavano.
Un giorno, un mese prima della semina del cotone, quando già gli alberi del mio frutteto erano fioriti e avevano cominciato a mettere le foglie, vennero da me degli uomini a dirmi: “Il cotone ci ha resi ricchi, Elyas, tu sei l’unico nel villaggio che possiede della terra che non frutta denaro. Sei ancora un poveraccio”. E dissero anche: “Gli alberi del tuo frutteto sono diventati per noi una provocazione”. Tacquero un istante, poi esclamarono: “Questa notte ce li giocheremo a carte. Noi punteremo i soldi e tu gli alberi”. Non volevo giocare. Gli alberi del mio frutteto erano in fiore a quel tempo, offrivano uno spettacolo straordinariamente tenero, sembrava volessero preannunciare una stagione di benessere: non esisteva per me niente di più bello al mondo, erano più affascinanti delle fanciulle e più dolci delle sorgenti!
Ebbi l’impressione che gli uomini si fossero coalizzati contro di me, così dissi loro che avrei scommesso su qualsiasi altra cosa, ma non sugli alberi. Li pregai di lasciar perdere gli alberi, dal momento che per loro non significavano più niente, ma che per quanto riguardava me, essi erano il mio solo legame con questa vita. Ma loro continuavano a insistere, e quella notte non giocammo.
Ah, se il mondo fosse finito quella notte, se avessimo litigato, se fossimo venuti alle mani, non sarebbe successo niente di quel che poi accadde! Gli alberi avrebbero continuato a vivere, e forse sarebbero ancora lì. Ma la notte successiva, mi scoppiò dentro un desiderio mortale, a un tratto mi sentii spinto da una forza misteriosa a fare qualcosa. Non avevo ancora deciso, ma qualcosa dentro di me aveva cominciato ad agitarsi, era una sensazione forte che mi scuoteva, mi sembrava che la vita non meritasse tanto ostinato attaccamento da parte degli uomini!
Quella notte, dopo che avevamo bevuto e cantato per festeggiare la circoncisione del figlio del mukhtàr del quartiere orientale, mi accorsi che gli uomini mi guardavano come se volessero mettermi alla prova. Sentivo le loro voci provocatorie che mi invogliavano a giocare. Fu così che accettai di puntare sugli alberi, ma solo sui mandorli, poi ci ripensai e di nuovo rifiutai. Dissi che avrei scommesso solo gli alberi che si trovavano nella zona occidentale dell’orto.
Si trattava di un rettangolo di terra di natura calcarea, dove gli alberi crescevano striminziti e non davano frutti abbondanti come quelli che stavano nel lato orientale. Provavo una sorda avversione per quella parte del frutteto dove avevo faticato più che altrove, eppure, nonostante ciò, gli alberi continuavano a soffrire di qualcosa che io non capivo.
All’inizio della nottata vinsi molto denaro. Mi immaginavo che con quei soldi avrei potuto comprare un altro frutteto, due o tre volte più grande del mio. Mi immaginai gli alberi crescere e stagliarsi sull’orizzonte, nascondendo alla vista tutti i campi di cotone, e pensai che il villaggio sarebbe tornato di nuovo verdeggiante, dopo quegli anni – erano ormai tre – di aridità e siccità.
Continuai a giocare. Man mano che la notte passava, io diventavo sempre più nervoso e irascibile, perché vedevo gli alberi cadere uno dopo l’altro e abbattersi al suolo. Dapprima, avevamo puntato su un albero alla volta, poi erano diventati due, e alla fine me ne giocai dieci alla volta!
Sì, persi quella notte. Del lato ovest del frutteto mi restavano ormai soltanto sette alberi e il grande noce – avevo dimenticato di dirti che un grande albero di noci dominava l’ingresso del frutteto, simile a un temibile guardiano di cui tutti avevano paura: era davvero enorme e nemmeno mio padre si ricordava quando fosse stato piantato. La stessa notte che mi giocai gli alberi me lo sognai, mi apparve sofferente e lo vidi anche piangere. Sognai anche mio padre, aveva il viso tutto pieno di cicatrici…
‘Abd al-Rahman Munif, Gli alberi e l’assassinio di Marzùq, traduzione dall’arabo di Maria Avino e Isabella Camera D'Afflitto, Ilisso 2004, p. 38-40.

11 febbraio 2010

10 febbraio 2010

Un pensiero per Basaglia

I cambiamenti sono ancora guidati dalle idee dei sognatori che attraversano oceani di dolore senza un dio che protegga, garantisca l'oblio o il perdono, distragga dalla condizione di animali che vivono sapendo di dover morire.
Ogni dio spaventa quando non assume su di sé e impedisce di assumere la condizione umana, atteggiamento imprescindibile per abitare il mondo con i propri simili, sentendoli come tali. 

La foto proviene dall'archivio di Anatolij Krymskij; 
grazie a mirumir per avermici condotto.

8 febbraio 2010

Juxsta


La foto ritrae un componidori della Sartiglia, l’antica giostra oristanese. Oggi un amico mi ha ricordato che giostra deriva da juxta, che significa vicino, e quindi dal verbo juxtare, che significa avvicinarsi. Gliene sono grata.

5 febbraio 2010

Era l'inizio

Era l'inizio di una primavera strana. La tensione si tagliava a fette nell'aria aggrumata. Anch'io avevo paura, ma da sempre, e lo sapevo. Lei no, non poteva immaginarlo.
Allora più giusto sarebbe iniziare a raccontare così:
Era per lei una primavera strana. L’avevo incontrata da poco, brillante di mitezza, mentre intorno tutti erano in guerra. Mi accorsi subito della sua presenza. Aveva parcheggiato la macchina a lato di un’enorme pila di vasi vuoti. Era entrata, guardandosi intorno con circospezione, nel recinto del vivaio di sinistra. Scorgeva con sguardo lento e attento le piante, passando in rassegna gli alberelli. Poi tornava indietro, e ricominciava. Io l’osservavo da dentro la mia auto, dal parcheggio soprastante il vivaio.
Uscì dal recinto. Si arrestò oltre il gabbiotto del guardiano per poi voltarsi verso la montagna, risalendo con lo sguardo per il bosco, il cielo e poi ancora giù, come a cercare qualcosa.
Ritornò nel vivaio e indicò al ragazzo nove piante: un arancio, un limone, un mandarino, una noce, due abeti, un cachi, un ulivo, un ginepro.
Più tardi mi raccontò di averli sistemati tutti intorno al suo letto. Voleva dormire in una stanza piena di alberi, disse la prima volta che la vidi da vicino.
Mi stupì: non aveva i capelli corti come sembrava vedendola da lontano, ma solo raccolti in una lunga treccia.
Tavola di Ivan Jakovlevič Bilibin

2 febbraio 2010

Tenendo per mano il sole

"Bisognava chiedere scusa alla bambina che avevamo imprudentemente, incoscientemente, egoisticamente chiamata al nostro fianco su questo versante delle apparenze. Mi auguravo la misericordia che sapevo di non meritare, ed era come indirizzare al vuoto una preghiera astratta. E poi, nel buio della stanza, sprofondato nella grande poltrona di cui avevo abbassato lo schienale, senza dire verbo, guardavo Alice e Pauline e avrei voluto conoscere una grande parola di pietà, di compassione, che ci potesse avvolgere tutti e tre."

Philippe Forest, Per tutta la notte, traduzione di Domenico Scarpa, Alet, 2006.

Maria Lai, 1983

“Sarebbe troppo facile: aver scritto un libro e credersi a posto… Una bambina scompare, esce un romanzo, e tutto rientra nell’ordine. … A volte mi dico che ormai, in realtà, è questa vergogna che cerco. … Lì, ostinatamente, a ritornare su questa storia, fino a rendermi insopportabile a tutti.”
(
Linnio Accorroni intervista Philippe Forest).