A G. e A.
Costantino Nivola, Muro e melo (nel giardino della casa a Spring), 1951
E io vorrei scrivere di Marianna, ma non so come iniziare, e allora leggo anche per te Luna de marzu, una poesia che Montanaru sottotitolò con una semplice dedica: “a Marianna Bussalai”.
Luna de marzu sentìa / mi pares troppu istasera / Nues de onzi manera / t’attraversan su caminu, / currellende a s’affainu / sutta s’isprone ‘e su entu. / E tue in su firmamentu / b’andas bella passizera.
T’oscuras de improvvisu / e pare’ morta sa terra. / Inchizzìda est ogni serra / nieddu donzi padente. / Ma tue sighis sa via / cun tundu visu serenu. / Intantu in donzi terrenu / de custa muntagna sola / cuminzat calchi viola / a si mustrare timinde; / ca sun sa dies beninde / de sa bella primavera.
Tue che nunziadora / t’avanzas luna nontesta, / a preparare sa festa / de totta s’umanidade. / Sa tua serenidade / ti faghet cumparrer trista. / Ma tue già cun sa vista / bies sa novella ispera. / Luna de marzu, sentia / mi pares troppu istasera.
Questo è solo uno stralcio della lunga poesia che Montanaru dedicò alla sua amata amica, e mi sembra la cosa più giusta da fare – ecco trovata la chiave – iniziare a scrivere così di una donna che visse poeticamente i suoi anni, e tanto più nobilmente perché riuscì a coltivare la speranza in un contesto storico in cui sembrava regnare una profonda disperazione. Era lei, in tal senso, un'organizzatrice.
Primogenita di Antonietta Angioy e Salvatore Bussalai, Marianna nacque a Orani nel 1904. Qualche anno più tardi nacque Ignazia, la sorella che sempre fu legata a Marianna anche dall'inossidabile complicità ideale che segnò il loro operato di future antifasciste. "Signorina Ignazia", come tutti la chiamavano a Orani, era una donna di straordinaria simpatia e intelligenza, e – mi viene da pensare – agì secondo il poetico e politico dettato dell'ultimo Fortini: Composita solvantur (Le cose si dissolvono): proteggete le nostre verità. Con i suoi racconti (di cui anch’io, da bambina, sono stata fortunata fruitrice) e la cura dei documenti lasciati da Marianna, Ignazia coltivò e trasmise le idee della sorella maggiore: innanzittutto il sardismo autonomista e antifascista, passione che allora unì i giovani più emancipati della resistenza sarda al regime. Le due sorelle rimasero orfane di madre quando Marianna aveva soltanto cinque anni; il padre si trasferì a Nuoro e poi a Porto Torres per lavoro, convolando a terze nozze, e le bambine vennero affidate a Grazietta Angioy, loro zia materna; vissero nella casa settecentesca che fu degli Angioy, tra la piazza di Santa Gruche e S’Arzada ’e su Monte, a Orani: casa ricca di leggende per essere stata ancor prima l’abitazione estiva del Vescovo di Ottana e quindi ricchissima di quelle memorie che le due sorelle rivivevano nei loro racconti davanti al latte fumante e ai biscotti decorati con la glassa e serviti con stoviglie d’argento consumate dall’uso, come mi raccontava sempre nonna M. Una dimora ancora bellissima, con le architravi in trachite rossa e gli stipiti di foggia pisana, la corte all’ingresso e il cortile interno, dove ancora oggi cresce rigoglioso il melograno. Una casa attraversata dalla Storia, destinata a diventare il luogo delle riunioni clandestine antifasciste e una sorta di circolo culturale animato da un poetico gruppo di ragazze e di ragazzi, tra cui mio nonno A., che non ho mai conosciuto perché è morto giovane, ma che ho amato, anche lui, attraverso mille racconti. Così scrive Marianna in un prezioso documento autobiografico: “Il nostro piccolo gruppo viveva in un’atmosfera di poesia e di amicizia che ci impediva di rimpiangere le distrazioni della vita. I nostri autori prediletti, le intime confidenze, i fervidi scambi d’idee, sostituivano la bellezza esterna che mancava alla nostra vita. Libri preziosi, autori amati tenevano nella nostra gioventù, il posto di palazzi e di teatri, di balli e di feste, di viaggi e di amori, e ci offrivano l’universo in un compendio che a malapena ci lasciava sospettare le sue crudeli delusioni e le sue miserie infinite. Ore deliziose, generose amicizie, prime porte aperte sull’ideale…”. Un piccolo testo dove si legge anche un inno d’amore alla lettura, che riusciva ad assolvere, tra le altre, alla funzione di aprire una finestra sui sogni.
Così visse Marianna Bussalai, inventando una vita intensa per se e i suoi amici, anche nella malattia di cui pativa sin da bambina. Visse coltivando in pieno regime fascista le sue idee, leggendo e studiando la storia, la filosofia (in particolare incuriosendosi alla teosofia, corrente di pensiero che ricerca quel che accomuna Dio in tutte le religioni, ritenendo che tutte le religioni derivino da un’unica verità). Scriveva sin da bambina, iniziando molto presto a pubblicare in alcune riviste dell’epoca e in paricolare ne Il Solco, l’organo informativo e culturale del neonato Partito Sardo d’Azione, alla cui costituzione e formazione Marianna dedicò tutte le sue energie con passione, convinzione ed entusiasmo. E continuò a scrivere nonostante la censura e le angherie della polizia fascista, e nonostante questo – come Anna Achmatova, la grande poetessa russa che pure attraversò vicissitudini storiche e personali drammatiche –, continuando a operare nella ricerca della bontà degli uomini, nella fiducia di un riscatto possibile per la sua terra, nella fede in un ideale di giustizia e libertà.
Contemporaneamente continuava a tradurre i poeti sardi con l’idea di poterli divulgare e farne arrivare il canto oltre il mare. In questo senso Marianna aveva una concezione moderna della traduzione, riconoscendone la sua funzione di mediazione culturale e di conferma del valore dei componimenti scritti nella lingua madre. Un’idea all'avanguardia per quell’epoca, in Sardegna, anticipatrice e quindi poco condivisa, se teniamo presente che, sino a non molto tempo fa, il sardo non era riconosciuto come lingua ma identificato esclusivamente come rozzo e naturale mezzo di espressione per le necessità quotidiane. Tuttavia – scrive Marianna in una lettera a Montanaru – “il rapsodo non lo rinnega ancora, e sa trarre da esso nobili accenti e mirabili armonie! E le donne sarde, quiete e ignorate poetesse dell’ombra, quando liberano nei muttos o nelle meste cantilene l’ingenuo e appassionato cuore, sanno addolcirlo e ingentilirlo a meraviglia!”. Ecco, nella bellezza e nella verità dell'espressione – "quiete e ignorate poetesse dell’ombra" – c’è tutta la consapevolezza del suo destino eccezionale.
La vita di allora era durissima, a Orani come in tutti villaggi sardi, e per una donna era un’impresa ardua, da tutti considerata folle, il progetto teso a rompere l’emarginazione dalla vita sociale e culturale imposta dai rigidi ruoli di genere. Ricordiamoci che in questa stessa epoca, a pochi chilometri dal borgo, a Nuoro, un’altra donna osava scrivere: si chiamava Grazia ed era considerata una strega e definita – neanche tanto alla spalle – "una puttana". Come invece finì e continuò la storia di Grazia Deledda lo sappiamo tutti. Strano, invece, col senno di poi, come invece le cronache della vita di Marianna siano arrivate sin qui con toni diversi da questo; almeno a me così è capitato di ascoltarle – da Ignazia, mia nonna, mia madre, mia tataia Caterina. Mi hanno sempre dato l’idea che Marianna fosse una creatura speciale: troppi particolari (qui un po' lunghi da raccontare) e l'espressione dolce e mite di queste "fonti orali", mi fanno credere che sia stata una ragazzina e poi una donna molto amata e da tutti stimata: dalle amiche e dagli amici, dalla gente di Orani (tranne, ovviamente, che da quel pugno di delatori di regime). Ignazia è stata proprio come un griot, sino all'ultimo, per tutte le persone care che l’andavano a trovare sino all'ultimo periodo, quando era molto anziana e malata, e anche di lei resterà sempre il ricordo di una donna straordinariamente intelligente, coraggiosa, colta, modesta e, per me, soprattutto molto simpatica. L’ascoltavo incantata e divertita: non si stancava mai di raccontare davanti al grande tavolo della cucina antica, stracolmo di libri, di lettere, delle testimonianze degli amici e intellettuali sardi che, a loro volta in età, continuavano a farle visita nella sua casa piena di memorie, anche per ritrovare un po’ di sé e di quel vento che li vide protagonisti di un pezzo importante della storia sarda contemporanea, allorquando si credeva ancora fervidamente nella Rinascita. E sin da bambina, a Ignazia chiedevo di raccontarmi di quella volta che Marianna nascose Emilio Lussu nella botola sotterranea della sua grande casa, delle continue irruzioni della polizia e di come durante a ogni "visita" Marianna si mettesse seduta con il telaio del ricamo in mano, in paziente attesa che la perquisizione finisse: "Non lo trovarono, eh, ma in quei giorni Marianna rischiò davvero la galera e il confino!". Un rischio che correva ogni volta in cui spediva le sue lettere o riceveva i messaggi postali degli amici (compresi quelli del mio nonno giovane…), tenuti d'occhio dai gerarchi del paese.
Solo per un pugno di settimane, Marianna non poté assistere a un evento storico che fu il leit motiv delle battaglie sardiste e che l’avrebbe riempita di gioia: nel giugno del 1947 la Costituente approvò l’articolo 116 della Costituzione della Repubblica, che includeva la Sardegna tra le regioni a Statuto Speciale.
Morì a marzo di quell'anno, a 43 anni.
Si racconta che la sua bara leggera fu trasportata dalla casa alla chiesa al camposanto antico, dagli amici, che a turno la sollevavano con tenerezza composta, percorrendo i vicoli di Orani. E si racconta che arrivarono da Sassari, da Cagliari, da Nuoro e da ogni paese della Barbagia e dell’Ogliastra, a dare l’ultimo saluto alla nobile ragazza, amica degli umili, libera e ribelle.