Nei nostri 16-20 anni, ricordo, l'Umbria era un mito: c'era il jazz, c'erano le colline verdissime, un fermento culturale enorme e che tuttavia arrivava mite, pacifico, in anni cosiddetti di piombo. Era l'Umbria, pensavamo, l'oriente del nostro occidente. Non dico della nostra gioia quando, intorno ai 20 anni, si presentò l'occasione di andare a lavorare a Norcia per un mese, durante le vacanze dall'università, come assitenti e animatori in un soggiorno estivo per ragazzini e ragazzine disabili. Non erano anni facili, ripeto, per l'intero Paese, e all'università quel buio si sentiva, e noi eravamo veramente affamati di bellezza. Fu così che di quella basilica me ne innamorai...
Crollano i gioielli della storia e della storia dell'arte, insieme a i miti, e nemmeno questo, con chissà quante altre cose, avevamo messo in conto. Che vita strana, strana, strana...
Non ho mai creduto – se non, forse, quando ero molto piccola – che mio padre conoscesse tutti i fiori del mondo, pure se lui, indirettamente, diceva di sì quando parlava dei crisantemi: "Su crisantemu es su viore pius bellu 'e su mundhu!" diceva, difendendo dal sorriso divertito di mia madre la coltivazione che ne faceva nell'orto, dove in bella fila, alla fine dell'estate, inziavano a spuntare i fiori bianchi e gialli.
Più tardi, andata a vivere da sola, ogni tantoli portava anche a me in bel mazzetto, i crisantemi dell'orto, in special modo quelli bianchi anticos, come li chiamava, che sono più grandi e rotondi di quelli in vendita nei negozi di fiori. No, a mamma no, naturalmente: per lei portava a casa solo ciclamini, orchidee, rose selvatiche, rametti di corbezzolo e di mirto. Così è andata che anch'io ho preso ad amarli, i crisantemi, anche se a casa mia non ne ho più avuti dal 1999, e solo li compro per portarglieli insieme alle rose per mia madre. Tra me e le mie sorelle, infatti, con novembre ritorna anche l'aneddoto, per cui "no, a mamma niente crisantemi". Però ricordo di quella volta che, battibeccando ancora sui fiori, per un momento babbo la spuntò sulla bontà della sua coltivazione tirando fuori la carta che dovette credere definitivamente vincente: "Mari', est inoche chi non cumprendimus sas cosas zustas! Badiadìlos sos giapponesos: in Giappone su cristantemu es su viore 'e sa vida!". Il bel viso di mia madre si illuminò di stupore e meraviglia, ma appunto, durò solo un momento, ché pronta rispose: "Ma nd'ana a iscìre meda sos giapponesos!".
Desiderare aspramente la felicità, e su questo desiderio fondare una morale. Lo ha fatto Simone De Beauvoir, declinando a suo modo un tema assai caro alla tradizione letteraria francese, le bonheur, e riuscendo a costruire intorno ad esso un progetto di vita, dove il cambiamento, la messa in discussione del presente, l’accettazione di un avvenire aperto sono la strada per afferrare il mondo.
A disegnare un ritratto, denso di pensiero e di empatia, della grande filosofa e romanziera francese, voce tra le più significative della filosofia e della letteratura impegnata, è l’intellettuale oranese Bastiana Madau, scrittrice, operatrice culturale di valore ed editor. Il suo interesse per lei viene da lontano. Nel 1983, tre anni prima che De Beauvoir morisse, si laureò in Filosofia alla “Sapienza” di Roma con una tesi sull’esistenzialismo francese, che già metteva in luce il posto speciale occupato in questa corrente di pensiero dalla filosofa e romanziera.Nel trentennale della scomparsa, ha approfondito la ricerca, approdando a un saggio di grande spessore e di altrettanta passione, e sottolineando l’estrema attualità del pensiero della studiosa che con Jean-PaulSartre divise vita, pensiero, impegno politico. Pubblicato dalla Cuec in edizione digitale (5,99 euro)[Ora anche in edizione cartacea, a 14 euro. N.d.blogger], Simone, le Castor. La costruzione di una morale percorre attraverso gli scritti autobiografici, i saggi, i romanzi, alcuni tra i temi più importanti del pensiero beauvoiriano. A renderlo più prezioso, l’intervento di una terza donna: Alessandra Pigliaru, che nella sua lucida introduzione sottolinea come l’intreccio di filosofia e letteratura abbia dato alla sua parola, sempre in forma di domanda di senso, un portato teorico e pratico di intuizione formidabile.
Scrivere di Simone De Beauvoir, ci dice Bastiana Madau, significa confrontarsi con un’intellettuale non ignora mai il mondo reale, e non trascura lo smacco: la sua scrittura e la sua riflessione sono sempre divise tra individuo e collettività, rivolte alla condizione umana, fatta di uomini e donne che fanno i conti con un corpo, un tempo, un luogo, una condizione sociale. La sua figura segna così il passaggio a un modello innovativo di intellettuale, che non può più permettersi di scrivere per sé, ma deve approdare a un impegno “militante”, accettare il rischio di vivere «la grande avventura di essereme stessa».
Il saggio di Bastiana Madau riattraversa tutti i temi beauvoiriani segnati dalle contraddizioni dell'esistenza: lo smarrimento dell'essere umano di fronte alla mancanza di valori assoluti, Dio su tutti; la superiorità della coscienza, unico giudice a cui rispondere; l'impegno per una morale basata su principii indiscutibili ma sulla consapevolezza del limite comune a tutti gli esseri umani. Particolare attenzione è dedicata anche alla condizione della donna, che De Beauvoir affronta nel suo capolavoro, Il secondo sesso, testo imprescindibile della storia del pensiero femminile. Quanto al titolo del saggio di Bastiana Madau – che sarebbe davvero bello e utile poter leggere anche in versione cartacea– Castor era il nomignolo con cui Sartre chiamava la sua compagna. A idearlo fu René Gabriel Eugène Maheu, alias Herbaud, professore di filosofia a Londra e amico di entrambi (e di Paul Nizan), che giocò con il cognome Beauvoir e il termine inglese beaver, castoro. Ma a renderlo vivo e pregnante fu il filosofo esistenzialista. Lo racconta l’interessata in Memorie di una ragazza per bene, e più tardi ne L’età forte. «Un giorno scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali: BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore».
Maria Paola Masala, De Beauvoir, ovvero il progetto della felicità, L’Unione Sarda, venerdì 2 settembre 2016. (Riproduzione riservata)
Bastiana Madau,Simone, le Castor. La costruzione di una morale, con una nota introduttiva di Alessandra Pigliaru, Cuec, Cagliari 2016. (Immagine di copertina)
Musica e
pensiero, oltre le gabbie etnocentriche che imbrigliano l’arte, le
terre e l’abitare il mondo; una musica non "etnica", bensì – con provocazione
fonetica e filosofica lieve – "etica", in simpatia con i popoli stanziali o
erranti del pianeta. Così la costa della terra immaginta da Alberto Cabiddu e i Fortun de Serau nell'ottimo cd Ethic music from Sardistan diventa un luogo i cui confini sono accarezzati da un raffinato linguaggio musicale sospeso fra memoria e
sogno.
I
temi dei 14 brani sono quelli del viaggio e della nostalgia, della
passione e della ricerca di sè, dell'attraversamento di
labirinti fortunati ed estatici, della percezione del mistero
dell’amore, dell'umanità sospesa tra arrivo e partenza. Al ritmo della
kalimba e degli udu drums accompagnati dal violoncello, dalla chitarra,
dall’harmonium, dalla melodica, dalle launeddas e benas, si alza
ipnotica la voce di Cabiddu, che da canto solo si sdoppia,
rimandando al collettivo dei canti barbaricini e a diverse, ritmiche
coralità al confine tra Sardegna e Maghreb, Caucaso e Asia centrale, con
citazioni di Astor Piazzolla.
Il progetto della formazione Fortun de Sarau
si snoda con un primo canto tradizionale sardo, Andimironnai,
che già rivela una spinta creativa potente, sfociando in
un folklore immaginifico e bizzarro, in una babele di idiomi sonori e musicali che nei modi e nei ritmi evocano la cultura millenaria a cui appartiene anche la tradizione dell'isola: nella danza, nel canto
corale e persino nelle "note" delle onde marine, dei venti, degli aerofoni
palustri.
Le
musiche del repertorio tradizionale, sia riarrangiate e sia originali,
sono di Alberto Cabiddu, che propone composizioni in cui anche la rielaborazione dei motivi sardi arcaici evita quell'inciampo che a
volte si coglie nelle sperimentazioni e sfocia, invece, in un
linguaggio di grande nitidezza. Quasi tutti i testi delle canzoni sono
in sardo: le strofe amorose di Andimironnai a Passu Torrau, In Ora Mala; la bellissima Cantu cuadu; S’Arredu, Dilliri, Su Faddidorgiu, In Bonora. In altre diverse lingue i brani Tauron de Furas, il celebre cantico Santa Maria strela dò Dia, Mariama Nega; mentre in Sid Yhs’Ag sa’Ahdorah
– che parla di un libro sacro e del miracolo del ridere – siamo di
fronte a una lingua sconosciuta, che vorrebbe, forse, evocare il sabir, la lingua franca che si sviluppò nel Mediterraneo orientale sul finire
del Medioevo per mettere in contatto i tanti parlanti di estrazione
diversa, le cui rotte commerciali e sapienziali s’incrociavano nel Mare
Bianco (così chiamavano il Medterraneo le popolazioni arabe).
I Fortun de Sarau, dunque, sono: Alberto Cabiddu (voce,
kalimba, udu, riq, percussioni, harmonium), Carlo Cabiddu (chitarra e
voce), Gianluca Pischedda (violoncello e voce), Massimo Cau (armonium,
benas, melodica e voce), Alessandro Garau (batteria e percussioni). Il
cd contiene anche 8 stampe illustrate dal pittore cagliaritano Giorgio Polo ed è prodotto
da Gianni Menicucci per Tajrà, un'etichetta indipendente che si è già caratterizzata come un laboratorio di ricerca: tra le sue produzioni nate dall’incontro di musica, letteratura e poesia orale, sono memorabili gli
album Tajrà, la voce creativa e Tajrà, la voce della memoria, contenenti, tra gli altri brani, un Duru duru bittese per la preziosa voce di Tomasella Calvisi, un'imponente Sa Pastorina diSu Concordu Lussurzesu, l'ironica Pibere in sambene del coro polifonico femminile di Fonni Su Veranu, la bella voce di Paola Giua in Cant dels occels, rielaborazione di un classico corso di Iskeliu, ensemble fondato dal colto musicista e ricercatore tempiese
Sandro Fresi, la voce ormai di repertorio di Maria Multineddu, classe 1910, cantante e chitarrista di Tempio Pausania scomparsa a 90 anni, interprete
impareggiabile di antichi moduli come la "graminatogghja", un'artista che ancora oggi incanta gli
appassionati del cantu a chiterra. (Bastiana Madau)
Sono "gli occhi del cuore" di Louis Stettner (7 novembre 1922 – 13 ottobre 2016) a lasciarci questa foto, che, tra le tante e splendide che ci ha regalato, forse è quella che amo di più. Siamo nella Parigi del '47, i due bambini con berretto ad Aubervilliers vengono verso di noi; sullo sfondo si staglia come un fiume interminabile il lastricato della strada; a lato le case modeste. Una donna elegante attraversa la strada; indossa un capotto scuro, ha la borsa, il passo svelto e leggero.
Louis Stettner – Paris Aubervilliers, 1947 [1949?]
Ho molto apprezzato l'analisi di Tiziano Scarpa del Nobel a Dylan a proposito di poesia che "non richiede la forza motrice della lettura", richiamando l'importanza dell'ascolto delle parole dette o cantate. Come nelle gare poetiche che hanno tramandato una parte considerevole del patrimonio poetico sardo, insomma, ma vale per tutto il Mediterraneo. Al Cairo, ad esempio, ancora oggi, ogni giovedì, sparano dai megafoni disseminati nelle botteghe dei vicoli i versi che Rami affidò alla voce di Umm Kulthum (da sempre inseparabili). In questo senso ho trovato interessante anche il commento di Salman Rushdie, che definisce Dylan come il brillante erede di una lunga tradizione bardica. Ma il Nobel a Dylan apre ad altre molteplici suggestioni, ed è anche per questo motivo che lo ritengo proprio un gran bel Nobel. I pareri che ho letto, comunque, sono diversi e anche dissonanti. Io mi limito a riportare qui quelli più interessanti raccolti tra i miei amici, che, cosa lo dico a fare, pure se inquieti per l'attribuzione del Nobel al menestrello (scusate, è per evitare la ripetizione), comunque amano Dylan (ma non è questo il punto). Uno di loro, ad esempio, a proposito dell'assenza della lettura individuale come "forza motrice" della parola (la caratteristica di questo Nobel, appunto, che poi è il motivo che ha irritato Baricco & C.: "Cosa c'entra Dylan con la letteratura?") domanda (ma la sua è una domanda più seria): "Quanto dell'attuale mondo della comunicazione ricerca l'abolizione di quella forza motrice?". C'è di che riflettere, in effetti, perché la diminuzione della lettura individuale è un problema vero, a cui, fino ad ora, non si è trovata risposta. Anche se, osserva giustamente un altro amico, non è questione che si possa risolvere premiando una voce che affida le sue parole solo alla scrittura, e dunque autori come Roth o DeDeLillo, ad esempio, piuttosto che Dylan. E sin qui l'ala di mezzo, diciamo, abbastanza contenta ma con qualche perplessità. Ma non è finita. Tra li amici mia c'avemo pure l'ala dura. Quest'ultima si è allertata perché nell'attribuzione del Nobel a Dylan ha visto agire un sorta di messaggio subliminale "che ha qualcosa di devastante", dice uno dei suoi più autorevoli rappresentanti: "Non bastano carta e penna per fare letteratura, le parole scritte, da sole, non possono più aspirare a viaggiare nello spazio e nel tempo, hanno bisogno di altri supporti, dell’immagine del loro autore, di una voce irripetibile trasmessa da un microfono, di una melodia, che s’impongono persino quando, ed è il caso di molti, quelle poetiche parole non si capiscono; e complementariamente, non serve più leggere, non ce n’è più bisogno... The times they are really a changin’, but in a bad way...". Ed è tutto un elevarsi da incubo di palchi, palcoscenici, reading, festival, e mo' basta, però, aifestivalletterarivaccitu. (Questoamico è un bravo e assai schivo scrittore, oltre che un grande lettore e una persona assai schiva, appunto, ma che schivo... [faccina + cuori].) Insomma, una considerazione assai pessimistica, ma almeno in parte inconfutabile, considerato che certi fenomeni culturali, magari interessanti e belli in sé, non sono serviti di una virgola ad aumentare i dati sulla benedetta "forza motrice", almeno nel nostro Paese. Tra parentesi, anche se non dovrebbe essere rilevante, pure l'ala dura delli amici mia adora Dylan. Concludo the pippon dando la parola a due rappresentanti della cerchia di amici più geograficamente vicini alla scrivente, che ancora oggi, a distanza di un giorno dal Nobel, mi sembrano discretamente contenti: Amico 1 g.v.a.s.: "Per noi sardi [il Nobel a Dylan] è una conferma, io sostengo sempre che sono stato educato alla narrazione da romanzieri analfabeti. Persone che conoscevano la tecnica del dire, erano maestri della parola, facevano le pause giuste in modo da favorire la memorizzazione di chi ascolta e in loro il ricordo. Non è letterattura perché non è scritta? E chi se ne importa."
Amico 2 g.v.a.s.:"È un timore forse fondato", scrive, rispondendo all'ala dura delli amici mia, "ma non vedrei un sintomo del problema nel Nobel dato a Bob Dylan (che caso mai ha altri significati). La sua radice sta in altri processi storici in corso. Possiamo anche sostenere che per molti versi ci troviamo in un'epoca di decadenza. Non sarebbe la prima volta nella storia dell'umanità. Ricordiamo però che la lettura in solitaria, come esperienza individuale, è un fenomeno molto meno universale e di lunga durata di tutte le altre espressioni letterarie e narrative (in senso lato). È un fenomeno molto europeo e molto moderno (nel senso di Età moderna). In Italia è sostanzialmente un fenomeno tutto contemporaneo (nell'Ottocento, il secolo "del romanzo", in Italia non si leggeva quasi nulla, ma c'era l'opera!). Alcune riserve onestamente le trovo un po', come dire, elitarie, a volte proprio reazionarie (a volte). Non mi preoccuperei troppo, insomma. Le storie, la poesia e i narratori non scompariranno mai finché esisterà la nostra specie."
L'abbronzatura dei provocatori del nulla è particolarmente
fosforescente. Dà sul verdino, con sfumature giallo ocra che lasciano
intravedere dei pois che sfumano verso il viola. Ma terso. Ter-so. Un
capolavoro di ingegneria termo nucleare apotropaica senza capo né coda. I
provocatori abbronzati sono una sagoma sagomata verso il tendine che
balla come un fiore delicato sopra un treno in corsa verso il
vattelapesca, ma appena attenuato dalla noia che scaturisce senza se e
senza ma, incontrollabile come un. U.n., ripeto, ma anche n.u., perché
sono attirati dai palindromi, oltre che dalle creme solari. Grazie,
buonasera.
Non ricordo più da chi ho sentito questa storia quando ero bambina; forse dalla catechista, o forse alla radio, magari a Cararai. Non so. Fatto sta che di tanto in tanto, pur essendomi sottratta ormai da tempo immemore da ogni catechesi e pure da tutti i Cararai, mi torna in mente come un invito alla rassegnazione o a una resa sfinita alle cose non volute e involute, ma troppo più grandi della mia capacità di contrastarle.
– Signore, hai detto che non mi avresti mai abbandonata, ma mi sono voltata e ho visto solo le mie orme sulla spiaggia.
Non ero più entrata al San Francesco da quando è morta mamma, poco più di un anno fa, e dunque ancora non avevo visto l'esito dei lavori che al suo ingresso sono durati un tempo infinito e, spesso, disagiato. Così, oggi, come sono entrata nell'immenso androne realizzato, ho avutola suggestione di accedere al Teatro La Fenice, ma disadorno. C'era solo un omino al centro di una specie di recinto, che mi fa: "signora, il numeretto deve prenderlo di là, oltre il proscenio". A lato una donna, piccolissima anche lei e circondata di piante, piantine, orchidee come alberi, più alte di lei. Ho preso il numeretto, prenotate le analisi e sono tornata nell'androne, attraversandolo in diagonale, che sono più di cento passi, sino ai fiori. Mi sentivo triste e io non la sopporto la tristezza, mi sembra una mancanza di rispetto di sé, e quando posso reagisco. Ho comprato un ciclamino, per il buon augurio, per la tiroide ballerina, che fa vedere teatri negli androni degli ospedali.
Quasi un elenco del telefono, in codice, per agenti segreti: profumo di antico, implicitamente nemico della rivoluzione e dei Gggiovani.
Giuseppe A. Samonà alla voce "Rocci" in Quelle cose scomparse, parole, p.108.
L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico. Tiziana Drago, "Il liceo classico e i suoi nemici", Il manifesto (di avantieri).
Risalendo a piedi dalla spiaggia alle 7 di sera del 3 ottobre 2016, ammirando il paesaggio e – come sempre accade in epilogo alle nostre passeggiate autunnali sul mare – domandandosi "ma perché non si può essere sempre così felici?".
Solitamente non faccio caso a chi va e viene dal socialino, a meno
che, ovvio, non si tratti di amici e amiche con cui interagisco
abitualmente. Nessun problema, dato che per me vale la serena regola che
da ogni posto è bene allontanarsi, di tanto in tanto, e impiegare il
proprio tempo in altri modi, e poi magari ritornare, per poi riandarsene
e, semmai, se se ne ha voglia, ritornare ancora. Tutto questo popò introduttivo solo per dire che, invece, c'è anche chi è andato e non
è mai più ritornato, come un tipo tipone con cui interagivo poco ma che
che leggevo sempre, perché scriveva cose bellissime, che quasi mi
veniva voglia di conservare. E qualche giorno dopo la morte di José
Saramago l'ho fatto, menomale: ho conservato questo, che propongo con
alcuni stralci, perché l'originale è lunghissimo, oltre che scritto da
dio.
"Quando penso a
Saramago e ai suoi romanzi, vengo sorpreso da un'immagine di uomini in
cammino. Tantissimi, insieme, chi a piedi, chi su un carro. Non si
conoscono, prima di incamminarsi, si conosceranno camminando insieme. Le
moltitudini in viaggio sono presenti in tutti o quasi i suoi romanzi
storici. [...] Nell'immagine mi si confondono gli operai che andranno a
costruire il convento di Mafra, i pellegrini di Fatima tra i quali
Ricardo Reis, Giuseppe e Maria incinta che vanno a Betlemme per il
censimento. […] Viaggi a volte simili a deportazioni (e il pensiero va a I quaranta giorni del Mussa Dagh), ma sempre illuminati da un
affiorare involontario e incontrollato di umanità. Il viaggio è
distanza (sia detto con perspicacia). Quando Hans Castorp sale sulla
montagna magica dove il cugino Joachim è ricoverato, si stupisce di come
lo spazio generi effetti di oblio che siamo soliti attribuire al tempo,
e al tempo solo. I personaggi, anzi gli uomini, di Saramago,
rappresentano quegli effetti modificandosi insieme alla storia, anche
quando, come nel caso di Ricardo Reis, vogliono difendere il loro
spazio, immergendosi in una trincea psicologica. Gli uomini di Saramago
sono mobili e continuamente riplasmati dalla storia e dalla loro
interazione con la storia. I loro viaggi sono la nostalgia che gli
uomini della fine del ventesimo secolo provano, obbligatoriamente, per
il viaggio. Infatti, degli uomini di Saramago nessuno viaggia per
viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo
ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano
confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa essere
solo, forse, e ancora, quella del viaggio."
(La foto dalla terrazza di Cala d'Ambra è di ieri sera.)
Cosa? È finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso noi. È forse finita quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour? Col cazzo che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.
(Bluto [John Belushi] in "Animal House" di John Landis, 1978.)