Alessandra Pigliaru,"Clara, Mirina e altre storie", in Gli occhi di Blimunda, 22 gennaio 1917.
Luminosa audace e ardente, così Christa Wolf descrive l’amazzone Mirina, una delle protagoniste del suo romanzo Cassandra. Aveva però negli occhi anche una certa nostalgia. Di quelle acute, osserva Wolf. Così la strana creatura dalla fisionomia chiaroscurale che non credeva nelle predizioni, fedele compagna di Pentesilea, metteva a repentaglio il proprio corpo tutto nella lotta per la verità. Clara Gallini, scomparsa ieri all’età di 85 anni, aveva scelto proprio il nome Mirina per la gatta che da anni le faceva compagnia nella casa romana in via Sant’Antonio all’Esquilino. Una piccola viuzza, riparata dal frastuono del quartiere e tuttavia popolata da una moltitudine di storie. «Il romanzo di Christa Wolf mi era talmente piaciuto, il nome Mirina però l’ho scelto non per ricordarmi del suo carattere indomito ma per la dolcezza del suono». Schiva e pur sempre diretta, Clara Gallini non amava i convenevoli né le noiose formalità, sia dell’ambiente accademico che mondano. E in quel pomeriggio tiepido, si distingueva bene che di Mirina anche lei possedeva qualcosa di profondo. Nella sinuosità della figura, infine nel coraggio irriverente della sopravvivenza a una malattia che l’aveva ultimamente provata nel corpo, lasciandole tuttavia la cosa più importante, una mente dotata di un acume eccezionale. Ne dà prova nel suo ultimo libro, Incidenti di percorso, pubblicato con lungimiranza da Nottetempo quando, nell’incontro con l’allora direttrice Ginevra Bompiani, pensò di scrivere cosa le era accaduto. Ne viene fuori un resoconto che è diario di intensa auscultazione interna e osservazione partecipata di cui però, a differenza degli ambiti di cui si era fin lì occupata, il soggetto era lei stessa. Si era fatta campo di indagine e maestra di invenzione, ancora una volta. Era riuscita a intravvedere nella malattia e nella cura esperienze ineludibili, nel doppio passo della fragilità e della gaurigione.
Clara Gallini è stata per l’antropologia  culturale italiana colei che ha dissestato di meraviglie il terreno  arato lasciato da Ernesto De Martino. Conosciuto alla fine degli anni  Cinquanta è grazie a lui che arriva in Sardegna la prima volta. A  Cagliari comincia a insegnare al liceo Siotto Pintor e  contemporaneamente fa da assistente volontaria alla cattedra di  Etnologia e Storia delle religioni. Sono anni difficili per una giovane  donna lontana da casa, lo sguardo però e il sorriso sono rimasti gli  stessi di sempre. Lo testimonia una piccola e bellissima scultura,  tenuta accanto a una scatoletta acquistata da un pastore di Dorgali  negli anni Sessanta. Capelli corti e quel cenno nella bocca che racconta  una ironia malinconica e saggia, l’amico architetto milanese che per  diletto l’aveva scolpita aveva individuato di lei i tratti essenziali.  Riconoscibili anche nelle introduzioni magnifiche  che Gallini fa in video nel 1977 per due documentari Rai di Luigi di  Gianni sui rituali nella possessione: «La festa – dice – è il momento  grande e corale in cui le masse subalterne esprimono i loro bisogni,  denunciano la loro miseria ma anche elaborano delle forme di riscatto  culturale che danno loro dignità». Sono certo modi per ricordare la  lezione di De Martino ma anche per proseguire nella vicinanza  appassionata con la cultura popolare e la civiltà contadina da cui  Gallini ha mostrato sempre di essere ispirata, marxista e gramsciana  convinta come è stata.
È in Sardegna che comincia a fare le  prime esperienze – rimaste poi cruciali anche dopo la sua partenza  dall’isola alla fine degli anni Settanta alla volta prima di Napoli  (all’Orientale) e poi a Roma (alla Sapienza). Compone le prime sue opere  sulla scia demartiniana anche se, salda la misura dell’autore di Sud e magia, si discosta in modo originale, aprendo a nuovi sentieri interpretativi. È del 1966 I rituali dell’argia, poi Il consumo del sacro (1971) e Dono e malocchio  (1973). Scomparso De Martino nel 1965, Clara Gallini ne assume la  cattedra. Sono anni fulgenti, in cui alla produzione scientifica, al  metodo rigoroso che non ha mai abbandonato, si aggiungono gli incontri  sia universitari – basti pensare alla gloriosa scuola antropologica di  Cagliari che si andava configurando – e le sue conoscenze nella Sardegna  dell’interno, introdotta in parte da Raffaele Marchi e Giovanni Canu.  Nel quadro di quest’ultimo che ritrae il rito del fuoco di Sant’Antonio a  Mamoiada nel 1962 – e che anche oggi si trova nella casa romana  dell’antropologa, al centro della sala dove amava sedersi per  chiacchierare – c’è l’elemento che ha contraddistinto le sue ricerche in  Sardegna: il mutamento e il passaggio alla modernità, una comunità,  quella sarda in questo caso, che subisce la trasformazione del ricordo,  immersa nel rosso è l’intensità tra elemento religioso e pagano.
È del 1981 la prima edizione di Intervista a Maria  (poi la seconda nel 2002 per Ilisso con una bella introduzione di  Bastiana Madau), un testo decisivo, spiazzante che restituisce un altro  pezzo di quell’isola amata che l’ha accolta. Il colloquio,  commissionatole inizialmente dalla terza rete Rai per la trasmissione  radiofonica Noi, voi, loro, donna (che prevedeva 15 puntate)  era avvenuto tra il 2 e il 
6 ottobre del 1979 a Tonara. «Maria aveva 70  anni e mi era stata presentata da amici comuni. Volevo capire a fondo la  trasformazione della famiglia – racconta Gallini – e quindi provai a  restare nel paese per un paio di settimane ma nessuna, oltre lei, mi  concesse udienza. Ero forse percepita come l’estranea. Eppure con lei è  stato uno scambio intenso e di reciproco affidamento, anche simbolico,  tanto da desiderare il doppio nome come autrici del libro, il mio e il  suo, che però l’editore non approvò. Nonostante Maria avesse concesso la  sua voce per un programma nazionale, quando uscì il libro si rifiutò di  parlarne in una sala di Tonara. Questo apre il problema di come  l’appartenenza alla propria comunità ti renda più o meno vivibile il  quotidiano».
I volumi che ha scritto sono numerosi, La sonnambula meravigliosa (1983), Il miracolo e la sua prova (1998) ma anche Cyberspiders (2004), Croce e delizia  (2007) e tanti altri. Immaginario razzista, apocalissi culturali, forme  di comunicazione fino al web e ai suoi strumenti. Al fondo di tutto  c’era però una disposizione alla costante discussione critica,  riconoscibile in una generazione che ha vissuto il Novecento e che ne è  stata protagonista e osservatrice. Una disposizione, potremmo chiamarla  anche attitudine, che non ha lasciato sola Clara Gallini fino agli  ultimi giorni della sua lunga vita. Un essere nell’impegno del presente,  immersi nella sua complessità, intravvedendo l’impossibilità di essere  indifferenti. Questo punto per Gallini era ancora più palpabile perché  si è sempre innervato in una quotidianità che ha scelto di vivere con  riserbo, senza sbandierarla come spesso si impone nel consumo veloce e  rimasticato contemporaneo. Ecco, è proprio qui, all’altezza di una  intransigenza tutta del pensiero in movimento, nella danza ironica tra  soggetto e oggetto che Clara Gallini ci consegna la sua lezione più  importante. Tutta gramsciana nella movenza, e infine luminosa audace e  ardente come il giuramento di un’amazzone.
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| Maria Lai, Donna al lavoro, 1958. | 
 







 

 
